Chi l'ha detto?/Parte prima/51

Parte prima - § 51. Ozio, industria, lavoro

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§ 51.

Ozio, industria, lavoro




La frase, tanto rimproverata a noi italiani, e specialmente ai meridionali, del

1084.   Dolce far niente.

sembra derivi nientedimeno che da Plinio il giovane, il quale nel lib. VIII delle Epistole (ep. 9), scrisse: illud iners quidem jucundum tamen nihil agere, nihil esse. Anche Cicerone (De oratore, lib. II, cap. 24) pensava che: Nil agere delectat. Ma il rimprovero è poi giusto? Scriveva Pasquale Villari a tal proposito nelle Lettere meridionali (2a ediz., Torino, 1885, a pag. 48): «.... Io non voglio tralasciar di notare che questa gente così male compensata, è tra quelle che in Europa lavorano di più. Ricordo di aver letto una tale osservazione in un’ inchiesta inglese fatta per ordine di lord Palmerston. Ho conosciuto anche un tedesco, occupato molto nella escavazione delle miniere, il quale, essendo andato a passare alcuni mesi di riposo nelle campagne napoletane, mi disse un giorno a Firenze: — Il dolce far niente degli Italiani, almeno là dove io sono stato, è una calunnia atroce. Sarebbe impossibile piegare il nostro contadino o il nostro operaio ad un lavoro cosi duro e prolungato, come quello che fanno i vostri contadini. — » Si veda quello che in proposito è detto nelle Lettere da Napoli di W. Goethe nella trad, di Giustino Fortunato, a pag. 74 dell’ediz. di Napoli 1917.

Ecco il Giusti, che nel Gingillino (str. 2) rimbrotta la

1085.   Ciurma sdraiata in vil prosopopea,
     Che il suo beato non far nulla ostenta.

ma l’Apostolo minacciò gli oziosi di farli digiunare, poichè:

1086.   Si quis non vult operari, nec manducet.1

(S. Pauli, Ep. II. ad Thessalonicenses, cap. 3, v. 10).
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Queste parole di S. Paolo erano, osserva Antonio Martini, «proverbio comune tra gli Ebrei ed anche presso i sapienti del paganesimo». S. Paolo in quel capitolo ricorda ai Tessalonicesi, ch’egli in mezzo alle fatiche continue e gravissime dell’apostolato, pur potendo ricevere dai cristiani il necessario pel suo sostentamento, non aveva voluto mangiare a ufo il pane di nessuno nè essere di aggravio ad alcuno, ma lavorare dì e notte, con fatica e stento, al contrario di molti che non fanno nulla ma si affaccendano senza pro. Dovrebbero leggere e meditare questo capitolo molti degli odierni «organizzatori»! Invece essi se ne valgono ma con tutt’altro intendimento. In un opuscoletto di propaganda comunista, pubblicato dalla Camera del Lavoro di Cento, e scritto dall’on. Ercole Bucco col titolo: Chi non lavora non mangi (Bologna, 1919), l’on. Giovanni Zibordi nella prefazione dice: «Il multisecolare detto di S. Paolo, che noi usammo così largamente, agli inizi della propaganda, quando, per vincere il misoneismo dei lavoratori credenti, specialmente nelle campagne, ci giovava mettere i nuovi principi del socialismo sotto l’egida degli antichi detti del Vangelo, torna di gran moda oggi e arriva a noi dalla Russia». Infatti la Costituzione o legge fondamentale della Repubblica socialista federale dei Soviet di Russia adottata dal 5° Congresso panrusso dei Soviet del 10 luglio 1918 all’art. 18 della Div. 2ª, Cap. V, dice: «La Repubblica socialista federale dei Soviet di Russia decreta il lavoro obbligatorio per tutti i cittadini della Repubblica e proclama il principio: Chi non lavora non mangia» (cito la trad. ital., esattissima del resto, pubblicata dall'Avanti! nel fasc. 1 dei «Documenti della Rivoluzione», Milano, 1919).

Certamente c’è ancor oggi chi passa la sua vita oziando, ma costoro, se non sempre ci soffrono nel ventre, ci soffrono sempre in reputazione, poichè:

1087.                          ....Seggendo in piuma
    In fama non si vien, nè sotto coltre.
Sanza la qual chi sua vita consuma.
    Cotal vestigio in terra di sè lascia
    Qual fummo in aer ed in acqua la schiuma.

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Un bell’umore scriveva che questa sentenza dantesca non era tanto assoluta da non ammettere delle onorevolissime eccezioni, per esempio il Monti, di cui corre fama che scrivesse stando in letto la maggior parte delle sue opere, sicchè può veramente dirsi che la gloria venne a cercarlo sotto coltre. E lo stesso faceva il celebre tipografo ed editore Niccolò Bettoni.

Ma uscendo dai traslati, è ovvio che senza fatica non si conquista nessun bene:

1088.                       .... Nil sine magno
Vita labore dedit mortalibus.2

(Orazio, Satire, lib. I, sat. 9, v. 59-60).

Del resto, che cos’è mai la vita dell’ozioso?

1089.              Il viver si misura
          Dall’opre e non dai giorni....

(Metastasio, Ezio, a. III, sc. 1).

L’assidua operosità di colui che fa del lavoro una seconda natura, è espressa con il classico adagio:

1090.   Nulla dies sine linea.3

che giusta l’autorità di Plinio il vecchio Hist. Nat., lib. XXXV, cap. 36, § 12), trasse origine dal greco pittore Apelle, il quale non lasciò passar giorno senza tirare almeno una linea per tenersi sempre in esercizio nell’arte in cui divenne eccellente. Avvertasi però che il testo pliniano conferma che già da tempo antico esisteva il proverbio, ma non ne dice il testo preciso: ecco le parole di Plinio: «Apelli fuit alioqui perpetua consuetudo, numquam tam occupatam diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret artem; quod ab eo in proverbium venit.» - «Di questo motto non ha guari fu detto argutamente che un ministro italiano lo traduceva, con libertà troppo grande, così: nessun giorno senza corbelleria» (Vannucci, Prov. lat., II). [p. 361 modifica]

A indicare dove giacciano le peculiari difficoltà di un lavoro, si può usare l’emistichio virgiliano:

1091.   Hoc opus, hie labor.4

(Virgilio, Eneide, lib. VI. v. 129).

mentre nello stesso poeta troviamo i due versi seguenti utilissimi a significare come il lavoro e la necessità giungano a superare ogni difficoltà:

1092.   ....Labor omnia vincit
Improbus, et duris urgens in rebus egestas.5

(Georgiche, lib. I, v. 145-146).

Il primo emistichio è citato anche separatamente, ma svisandone il concetto; ugualmente succede di un’altra sentenza dello stesso poema, della quale si citano d’ordinario soltanto le prime parole:

1093.   In tenui labor, at tenuis non gloria.6

(Georgiche, lib. IV. v. 6).

il qual verso è usato da Virgilio a significare che le sue fatiche saranno ora rivolte ad un umile argomento (il miele e le api), concetto che ben rese Giovanni Rucellai nel poemetto Le api (v. 39-41):

          Ne’ piccioli suggetti è gran fatica.
          Ma qualunque gli esprime ornati, e chiari,
          Non picciol frutto del su’ingegno coglie.

Però nell’uso il verso virgiliano è tratto a significare l’industriosità dell’artefice che cura anche i più piccoli particolari dell’opera sua, la quale perciò acquista pregio soprattutto dall’abilità del lavoratore. È quindi il caso di ripetere che:

1094.   Materiem superabat opus.7

(Ovidio, Metamorfosi, lib. II. v. 5).
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come fu detto del palazzo del Sole, che aveva porte di argento di finissimo lavoro, opera di Vulcano.

Da Ovidio trarremo pure la frase seguente, che indica lo stato d’animo di un autore fiero dell’opera sua:

1095.   Auctor opus laudat.8

(Ex Ponto, lib. III, ep. 9, v. 9).

Ove l’arte aiuti od imiti la natura, ma abilmente si celi, sarà il caso di dire quel che il Tasso dice dell’incantato giardino di Armida:

1096.   L’arte, che tutto fa, nulla si scopre.

(Gerusalemme liberata, c. XVI, ott. 9).

Se il lavoro che t’incombe supera il tempo che ti resta disponibile, puoi ripetere col Petrarca:

1097.   E più dell’opra che del giorno avanza.

(Trionfo d’Amore, cap. II, v. 72).

e se il giorno passò senza che tu potessi sbrigarti dell’obbligo tuo, di’ pure:

1098.   Amici, diem perdidi.9

(Svetonio, Vita di Tito, c. 8).

come soleva dire l’imperatore Tito alla fine di quel giorno in cui non avesse fatto un’opera buona.

Il lavoro procaccia guadagno a chi onestamente e abilmente se ne serve; il lavoro è dunque anche un affare. Ma che cosa sono gli affari?

1099.   Les affaires, c’est l’argent des autres.10

ha detto Gavarni; ma quarant’anni prima di lui, M. de Montrond, non indegno amico di Talleyrand, aveva detto anche meglio: Les affaires, c’est le bien d’autrui. [p. 363 modifica] Anche Dumas figlio nella Question d’argent (a. II, sc. 7): « — Les affaires? c’est bien simple: c’est l’argent des autres.» e François Béroalde de Verville nel Moyen de parvenir: « — Mais de quoi sont composées les affaires du monde? — Du bien d’autrui. — »


  1. 1086.   Se qualcuno non vuol lavorare, che nemmeno mangi.
  2. 1088.   La vita nulla ha mai dato ai mortali senza grande fatica.
  3. 1090.   Nessun giorno senza una linea.
  4. 1091.   Questo è il lavoro, questa è la fatica.
  5. 1092.   Ogni difficoltà è vinta dall’aspro lavoro, e dal bisogno che incalza nelle dure vicende.
  6. 1093.   Il lavoro è tenue, ma darà non tenue gloria.
  7. 1094.   Il lavoro vinceva la materia.
  8. 1095.   L’autore loda il suo lavoro.
  9. 1098.   Amici, ho perso la giornata.
  10. 1099.   Gli affari sono il danaro degli altri.