Cattive compagnie (Deledda)/Solitudine
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SOLITUDINE!
Sebiu, il guardiano del carbone, sonnecchiava e sognava.
Gli pareva di essere a casa sua, nella piccola cucina oscura dalla cui porticina si scorgeva lo sfondo di un cortiletto umido e triste. Sua moglie, curva sul focolare, arrostiva sulla brage una focaccia di farina e di formaggio fresco. Sdraiato sulla bisaccia di lana grigia e nera morbida come un tappeto egli contemplava la donna con passione, e pensava che dunque la malattia di lei e l’ordine del dottore di star separati almeno per qualche mese, finché lei non guariva, tutto era stato un brutto sogno.
Nel sogno ricordava di essere partito una sera, ai primi d’aprile, e d’aver accettato il posto di guardiano nella piccola baia Delunas, per obbedire all'ordine del medico. Come fosse ritornato a casa non ricordava. Si sentiva felice come nei primi giorni del suo matrimonio.
Ella era lì davanti a lui, sana, fresca, amorosa: egli la guardava con desiderio e diceva:
— Pottoi, vieni qui.... Manda al diavolo quella focaccia! Vieni qui: ho da dirti una cosa....
Pottoi fingeva di non sentirlo: le premeva più la focaccia che l’invito di lui.
Egli cercò di sollevarsi, ma non potè; stese le braccia e gli parve che le sue dita, semi-paralizzate da un intenso formicolio vibrassero a un tratto come corde metalliche.
— Pottoi! Aiutami. Che ho?
Allora la donna parve spaventarsi. Lasciò la focaccia e gli si avvicinò: ma quando si accorse che egli aveva le mani e la faccia tinte di carbone non volle toccarlo. Egli rimase così, a lungo, supino, con le braccia tese e le mani e i piedi agitati da un formicolìo doloroso: la moglie, svelta e bella nel suo costume giallo e violaceo, lo guardava dall’alto coi suoi occhi grigi, carezzevoli, e rideva. Il suo viso bianco e rotondo pieno di fossette, le sue labbra sporgenti, i suoi occhi socchiusi e voluttuosi provocavano maggiormente il giovane marito. Egli fece uno sforzo estremo per sollevarsi e si svegliò. Davanti a lui nell’apertura della capanna biancheggiava il quadro melanconico di cala Delunas. La luna cadeva sul mare grigiastro; i mucchi del carbone si disegnavano come piccole piramidi nere sullo sfondo chiaro della spiaggia.
Del suo sogno non rimaneva che la bisaccia, filata e tessuta da Pottoi. Egli cercò di riaddormentarsi, ma ad un tratto, tra il fruscio ininterrotto delle onde, sentì un grido lamentoso. Da prima il grido parve venire dal mare; poi tacque, ricominciò dietro le piramidi nere, cessò di nuovo, risonò ancora in lontananza, fra le macchie e le paludi.
Sebiu trasalì; ma poi si ricordò che la primavera s’inoltrava.
— È il cuculo! — pensò.
Si riaddormentò e ricominciò a sognare. Gli pareva d’essere vicino alla stazione ferroviaria del suo paese; sentiva il rombo del treno in arrivo, e fischi prolungati, stridenti, suoni di campane, di martelli, rumori di catene, dei quali l’eco ripeteva la vibrazione metallica. Ma invece del treno arrivò il veliero che ogni lunedì caricava il carbone a cala Delunas. I marinai, neri come zingari, fissavano gli occhi lucenti sul volto del guardiano e facevano smorfie oscene. Egli si svegliò ancora di soprassalto.
La luna tramontava sul mare d’un grigio violaceo, rossa come una falce insanguinata.
Ancora stordito e disgustato dal sogno, il guardiano fissò gli occhi appannati davanti a sè, sulla distesa degli scogli rossastri alla luna.
Era sveglio, ma sentiva ancora, oltre il fruscio delle onde, i fischi, il rombo, le campane, il canto del cuculo. Gli pareva che un treno passasse di là delle macchie, nella strada provinciale.
Si portò i pollici alle orecchie, se le chiuse, e si accorse allora che i rumori erano dentro la sua testa.
— Sta a vedere, diavolo, che prendo le febbri. Mi manca solo quello! — disse a voce alta, mettendosi a sedere. E scosse le braccia, aprendo e chiudendo le mani ancora tormentate da un intenso formicolìo. Allora ebbe paura. Non era mai stato malato.
— Proprio adesso. No, no, Sant’Eusebio mio, no, no!
S’alzò e uscì fuori sulla spiaggia. La notte, dolce e tiepida, sembrava una notte di giugno.
Dietro la capanna si stendeva una landa rocciosa e paludosa, coperta di macchie selvagge, e chiusa, in lontananza, da una linea di colline grigie, che erano come le prealpi dei monti lontani.
Il mare selvaggio delle coste orientali dell’isola, agitato, verso la spiaggia, anche nelle notti serene come quella, si sbatteva contro le roccie della landa, non contento di coprire e sorpassare gli scogli lunghi e levigati che all'ultimo barlume della luna parevano grossi pesci neri e rossastri abbandonati sulla rena.
Sebiu, dopo aver fatto un giro intorno alle cataste del carbone, si fermò un momento sotto una specie di tettoia di frasche e di rami che sorgeva dietro la capanna. Gli pareva di sentire un passo d’uomo, rapido e furtivo.
Egli non aveva paura che venissero a rubargli il carbone, merce di poco prezzo allora, ma sotto la tettoia s’ammucchiava una grande quantità di sacchi vuoti, e non era la prima volta che qualche ladro tentava di impadronirsene.
Stette dunque in ascolto, sporgendo la testa fra i rami della tettoia e aguzzando lo sguardo fattosi improvvisamente selvaggio. Dal suo posto vedeva un tratto di spiaggia dove le macchie della landa arrivavano fin quasi agli scogli. Sulle prime non vide altro: ma dopo qualche minuto gli parve di sognare ancora. Vedeva avanzarsi fra gli scogli un frate alto e magro, col capo scoperto, con la tonaca sollevata sulle gambe nude. Pareva che la strana figura uscisse dalle onde. La sua testa, circondata da una folta capigliatura arruffata si disegnava grossa e fantastica sullo sfondo del mare. Sebiu gli corse incontro; il frate si fermò e lasciò cader la tonaca sulle gambe nude: tremava e batteva i denti, e disse con voce debole e ansante:
— Dio sia lodato. Dov’è la strada?
Prima di rispondere Sebiu lo squadrò da capo a piedi.
A prima vista, al chiarore equivoco della luna, il frate sembrava un uomo ancora giovane e vigoroso; ma a guardarlo bene, fra il nero dei capelli abbondanti e il grigio della lunga barba, il poco di viso che si vedeva, vale a dire la fronte rugosa, gli occhi infossati e il naso schiacciato e molle, dava l’idea d’una maschera di cartapecora, gialla e pesta.
Sebiu, che aveva fatto molti mestieri e si credeva un giovinotto furbo, capì immediatamente che si trattava di un uomo travestito, forse un malfattore in fuga inseguito dopo un crimine.
— Lodato sia Dio! — disse con voce ironica. — E che cercate da queste parti?
— Ho smarrito la strada. Sono andato giù fino al mare.... Cristiano.... cristiano.... dov’è la strada?...
— Eccola, dietro il carbone: è la strada dei carri, che va fino allo stradale di Siniscola. Senza dir altro il frate, che invece di sandali calzava certe scarpette di feltro che Sebiu aveva veduto agli uomini di Oliena, fece alcuni passi: ma d’un tratto parve inciampare e cadde, lamentandosi con un gemito selvaggio.
Il guardiano, vinto da un impeto di pietà, non pensò ad altro che ad aiutarlo.
Lo aiutò, lo sollevò; e sentì che la tonaca del frate era tutta umida. Istintivamente si guardò le mani e le vide macchiate di sangue.
— Uomo, siete ferito! Dove andate, che siete mezzo morto? — gridò, asciugandosi la mano con la falda della giacca. — Dove siete ferito? Qui, al fianco?
— Sono caduto.... No.... Là.... Uno sconosciuto mi ha ferito.... Venivo da Bitti.... Mi hanno rubato la bisaccia.... tutto.... Erano due.... no, tre....
— Abbiamo capito; siete frate come lo sono io. Be’, non importa; siamo cristiani entrambi.
S’erano intanto riavvicinati alla capanna. Il guardiano sorreggeva il frate che batteva i denti e pareva dovesse di nuovo cadere: lo aiutò ad entrare, a sedersi sulla bisaccia di lana; poi diede fuoco ad alcune fronde di lentischio ammucchiate sopra la cenere del focolare.
La fiamma crepitante illuminò la piccola capanna conica, tanto stretta che i due uomini ci stavano a mala pena, e il cui arredamento consisteva tutto nella bisaccia stesa per terra, in una brocca e in un cestino di canne deposto sopra una pietra.
Il ferito gemeva, con un lamento così rauco e ansante che Sebiu ne provava davvero pietà; tuttavia, quando ebbe finito di accendere il fuoco e si volse, questi non potè fare ameno di ridere. Il frate stringeva fra le mani la sua barba e i suoi capelli: pareva se li fosse strappati in un impeto di dolore, e ancor prima che l’altro si fosse rimesso dàlia sorpresa, li buttò sul fuoco. Sotto il grosso batuffolo grigio e nero la fiamma s’abbassò, poi divampò più alta; un odore di peli bruciati si sparse fino alla spiaggia.
Sebiu rideva come un bambino. Il frate s’inginocchiò e cominciò a levarsi la tonaca.
— Aiutami, figlio mio.... Brucia anche questa: se no.... se no.... Sono un uomo morto, figlio mio....
— Malanno! Non ti vorrei per padre! — pensò il giovine: ma cessò di ridere, e lo aiutò a spogliarsi della tonaca, levandogliela su per la testa, come una camicia. Allora, al posto del misterioso frate apparve un paesano, vestito con un costume nero da vedovo. Era vecchio, sbarbato e calvo: la bocca livida e rientrante e le guancie infossate parevano quelle di un cadavere.
— Eccovi scorticato, buona lana! — disse Sebiu, e nonostante le preghiere del ferito, invece di bruciarla, attaccò la tonaca ad un piuolo, ricordandosi che quando era pastore faceva altrettanto con le pelli dei montoni appena scorticati. Poi si curvò di nuovo e aiutò l’uomo a slacciarsi le vesti macchiate di sangue.
— Su, coraggio! Un vecchio arzillo come voi non deve spaventarsi per così poco. Ne abbiamo viste, eh? E quegli uomini.... quei due o tre, dunque, son fuggiti? Di che colore avevano i baffi? Siete nuorese, buon uomo? Oh, ecco qui: avete la spalla tutta rovinata; è ferita di coltello? Brava gente i nuoresi, vero?...
— Di coltello.... di coltello, sì! Ahi, ahi, piano, cristiano! Sono un uomo morto! Piano! Sono morto!
— Se foste morto non gridereste così! Su, coraggio! Mettetevi giù: vi fascerò.
Fasciare, era presto detto: nella capanna non c’era uno straccio. Sebiu però non perdette tempo a guardarsi intorno. Si levò la giacca e il corpetto (egli aveva abbandonato il costume per economia) e si levò la camicia bianca, abbastanza pulita. Il suo dorso bianco ed agile come quello di un adolescente, ebbe, al chiaror della fiamma, un riflesso di marmo. Per far presto, egli stracciò la camicia, aiutandosi coi denti; con una delle maniche formò una specie d’impacco sul quale versò l’acqua della brocca, e in pochi momenti lavò e fasciò la ferita che tagliava profondamente la carne intorno alla scapola sinistra del vecchio.
— Ora vi darò un po’ d’acquavite — disse poi, estraendo un fiaschetto dal cestino. — State tranquillo, su, state allegro!
Nonostante questo consiglio il ferito batteva i denti e piangeva. Sebiu gli sollevò la testa e gli mise il fiaschetto sulle labbra.
— Su, su, coraggio! Domani mattina potrete andarvene: su!
Il vecchio singhiozzò e bevette: per un attimo parve rianimarsi; tentò anche di alzarsi, balbettando:
— Ora.... ora vado.... Ti manderò una camicia nuova.... Io non ho che camicie da paesano, ma.... mia figlia.... te ne cucirà una.... una....
Si sollevò alquanto, fissando il guardiano con le pupille dilatate; poi diede un lungo gemito e si piegò sul fianco.
— Ohè, ohè, uomo, che fate? Ora sto fresco! — gridò Sebiu.
L’uomo sembrava morto: dopo qualche tempo rinvenne, ma non parlò più, assalito da una febbre fortissima. Rassicurato alquanto, Sebiu gli si sdraiò a fianco, domandandosi che cosa doveva fare. L’indomani, lunedi, arrivava il veliero per il carico del carbone; egli non poteva abbandonare il suo posto, e d’altronde aveva paura di tradire il ferito, il cui scopo, evidentemente, era quello di nascondersi.
— E se muore qui? E se, come pare, ha commesso qualche mala azione, in seguito alla quale è stato ferito? Lo ricercheranno, lo troveranno qui, ed io passerò per complice! Proprio benissimo! — pensava: ma l’idea di denunziare il vecchio neppure gli sfiorava la mente.
All’alba vegliava ancora: gli pareva che il ferito, che ansava e gemeva, gli comunicasse la sua febbre. Stanco e assonnato, si alzò, e di nuovo andò a vagare intorno ai mucchi del carbone. Sul mare solitario si stendevano come dei grandi veli color rosa: alcune onde s’avanzarono ancora fino alle roccie, sotto il rialzo ove sorgeva la capanna, ma la spiaggia, intorno alla cala, appariva scoperta, scintillante di conchiglie e di perline. Sotto il cielo roseo la landa melanconica si svegliava; le paludi riflettevano il colore del cielo, sulle macchie umide svolazzavano gli uccelli ancora silenziosi. L’odore aspro del musco degli scogli si fondeva col profumo del mentastro.
Al sorgere del sole, sul cerchio infocato che univa il cielo al mare apparve un punto grigio. Era il veliero. Nello stesso tempo, sulla striscia bianca dello stradale apparve un punto nerastro: era il sorvegliante che veniva per la consegna del carbone.
Sebiu, inquieto e incerto, prese due sacchi dalla tettoia, rientrò nella capanna e coprì il ferito.
Mentre toglieva la tonaca dal piuolo, con l’intenzione di piegarla e nasconderla, da una delle maniche vide uscire e cadere al suolo una cartolina postale, piegata e sciupata. Si affrettò a, raccoglierla, e la lesse; ma la cartolina conteneva poche frasi insignificanti, firmate da un nome di donna. L’indirizzo era chiaro, scritto a grossi caratteri:
Al signor Onofrio Sanna
possidente
Suelzi.
Per alcuni momenti egli tenne in mano la cartolina, guardandola con inquietudine e diffidenza. Un’idea gli passava in mente, ma il timore di commettere una cattiva azione lo rendeva incerto. D’altronde che fare? Egli era quasi sicuro che il vecchio dovesse morire da un momento all’altro.
E poichè già sentiva i passi del cavallo del sorvegliante si decise: con un lapis scrisse alcune parole sotto l'indirizzo della cartolina, la ripiegò, la chiuse entro una busta sgualcita e la indirizzò:
Alla famiglia del signor Onofrio Sanna
Suelzi.
Poi uscì e andò incontro al sorvegliante.
*
Il sorvegliante era un ometto calvo, rosso in viso; per un tic nervoso ammiccava continuamente con uno dei suoi occhietti verdi. Vestiva in costume, ma aveva modi signorili. Sebiu lo considerava come un uomo colto e furbo, tuttavia riuscì a distrarlo, tirandoselo appresso di qua e di là per la spiaggia, senza mai lasciarlo avvicinare alla capanna, mentre l'ometto si divertiva a stuzzicarlo, parlandogli di Pottoi e scherzando a proposito della loro forzata separazione.
— Ieri è stata a messa, — diceva, e col suo continuo ammiccare pareva accennasse a sottintesi maliziosi. — Sta molto meglio: è bella e fresca come un fiore. Persino il vicario; nel celebrare la messa, si volgeva a guardarla.
Sebiu sospirava.
— Ma sta meglio davvero?
— Ti dico, in mia coscienza, sta benone. Mi ha incaricato di dirti che se tu tardi a ritornare.... verrà lei da te!...
Sebiu non credeva a questo scherzo, ma per deferenza al sorvegliante fingeva di stizzirsi e protestava.
— Pottoi vuol venire qui? Che venga pure, se non è contenta del suo malanno. Si buscherà le febbri.
— Ma che febbri, ma che febbri! Se questo è un luogo sanissimo! Con l'aria del mare!...
— Intanto son vari giorni che io mi sento poco bene. Ho il capogiro, ho sonno: la mia testa è diventata un molino.
Il sorvegliante lo guardava, e ammiccava.
— Sai che male è il tuo? È il male dei gatti a primavera. Lascia venire tua moglie!
— Zio Efisè! Non dite questo — protestò di nuovo Sebiu, ma arrossì lievemente.
— Andiamo a tirar fuori i sacchi, — disse Fometto, avviandosi alla tettoia.
— Due sono nella capanna: mi occorrono perchè la notte ho freddo.
— Tua moglie.... potrebbe riscaldarti.... — ripeteva il sorvegliante, smuovendo i sacchi.
Ma Sebiu non aveva voglia di scherzare. Col pensiero stava sempre là, accanto al suo pericoloso ospite: ogni tanto, mentre i marinai che servivano anche da facchini, caricavano il carbone sul veliero ancorato nella rada, entrava nella capanna e sollevava timidamente i lembi del sacco; e gli sembrava di veder morire il vecchio, che non si moveva nè si lamentava più.
Nel pomeriggio il sorvegliante partì. Sebiu gli consegnò la lettera “alla famiglia di Onofrio Sanna„ pregandolo d’impostarla appena giunto in paese, e lo incaricò di dire a Pottoi che gli mandasse uova e latte.
Il veliero non partiva fino al tramonto; i marinai però non scendevano più a terra. Dalla spiaggia Sebiu li vedeva muoversi fra le corde, le vele, i sacchi del carbone, agili e selvaggi come negrieri, e li sentiva parlare con un linguaggio che non riusciva a capire. Quando prepararono la zuppa, il capitano, un vecchio ligure dal volto e i capelli color d’arancia, invitò coi gesti Sebiu a prender parte al pranzo. Il guardiano rispose di no; e si toccò la fronte e il polso, accennando che aveva la febbre.
Allora il capitano gli mandò con un marinaio una scodella di zuppa. Sebiu l'accettò con riconoscenza, ma pregò il marinaio di lasciargli la scodella: avrebbe mangiato più tardi.
Pensava sempre al ferito; voleva conservare la zuppa per lui. Rientrò e sollevò il sacco; e con meraviglia vide che il vecchio dormiva: la febbre era quasi cessata, il viso riprendeva il colorito naturale. Le ore passarono, il veliero partì verso sera, spinto dal vento favorevole; e il guardiano, rimasto di nuovo in compagnia del suo ospite misterioso, riuscì a fargli sorbire qualche cucchiaio del brodo dei marinai e qualche goccia d’acquavite. Durante la notte la febbre riassalì il ferito che delirando parlava del suo cavallo, di una bisaccia colma di frumento, e pregava una donna, Marianna, di bruciare la tonaca.
Il giorno dopo arrivarono i carri del carbone, e Sebiu rimase tutto il giorno sulla spiaggia. Un carrettiere gli consegnò una bottiglia di latte e le uova mandate da Pottoi, e alcune pastiglie di chinino; egli prese il chinino ma continuò a sentire un ronzio e fischi entro le orecchie, e a momenti gli pareva che il mare e la landa avessero la stessa ondulazione e la capanna si movesse come una barca.
Il ferito migliorava. Al terzo giorno, verso sera, la febbre cessò, ed egli parlò d’andarsene. Pur dichiarando a Sebiu una viva riconoscenza, non gli disse chi era nè chi lo aveva ferito: pareva che un solo pensiero lo preoccupasse.
— La camicia.... te la rimanderò nuova...
La farò subito cucire.
— Da chi? Da Marianna? — domandò Sebiu.
— Che sai tu di Marianna?
— Non avete parlato che di leil — Ebbene, è mia figlia! Di chi dovevo parlare, povera orfana?
— Come, povera orfana? Ma se il padre ce l'ha, e che buona lana!
— Povera Mariannedda! — disse il ferito; scuotendo la testa e come parlando fra sè. — È peggio che orfana!
— È giovane?
— Ha trentatrè anni, ora a San Michele.
— L’età del Signore! Mi pare che possa anche prendersi un pezzo di pane senza che nessuno l'aiuti.
Ma il vecchio non finiva di scuoter la testa reclinata sul petto, e di mormorare con pietà:
— Povera orfana! Povera vedova!
— Anche vedova? Allora sta fresca! Avete altri figli?
— No. Non ho famiglia.
Sebiu allora giudicò opportuno di fargli sapere che aveva scritto alla famiglia di Onofrio Sanna, indicando dove si trovava il finto frate possessore della cartolina indirizzata a quel nome.
Il vecchio diventò livido in viso.
— Tu mi hai tradito! Io non sono Onofrio Sanna! Tu mi hai ucciso! Ora me ne vado, subito.
Tentò di camminare, ma le gambe gli si piegavano; una rabbia impotente lo assalì: si agitò, si battè un pugno sul viso, poi ricominciò a piangere come aveva pianto la prima sera. Sebiu cercò di calmarlo, di scusarsi.
— Eravate in uno stato grave. Che cosa dovevo fare? E se morivate qui? E se passavo per vostro complice?
Il ferito si offese.
— Complice di che? Ma tu credi ch’io sia un malfattore, tu? Sono stato ferito e derubato e tu invece.... e tu adesso.... immondezza, tu credi....
Lo coprì d’ingiurie; gli rinfacciò persino di aver abbandonato il costume per vestirsi di fustagno come un mendicante.
— Ebbene, pazienza! Fa del bene e va all’inferno, — disse il guardiano a sè stesso.
E per evitare una questione più seria se ne andò a girovagare intorno ai mucchi dèi carbone. Suo malgrado sentiva una sorda irritazione contro lo sconosciuto, che sempre più gli sembrava un vecchio malfattore, incosciente ed ingrato.
— Fa del bene, Sebiu, fa del bene, che poi andrai all’inferno! — ripetè a sè stesso avanzandosi fino allo stradale, deciso a passar la notte fuori della capanna. Sedette sur paracarri e a poco a poco si calmò e si distrasse.
Era quasi notte. La luna alta sul cielo chiaro illuminava il mare e la landa; soffiava un leggero vento di sud-ovest che portava l’odore delle macchie e dei giunchi di palude, e il lamento del cuculo che singhiozzava in lontananza. Senza volerlo e senza saperlo Sebiu sentiva la dolcezza un po’ triste e un po’ voluttuosa di quella sera primaverile: ricominciò a pensare a sua moglie come ad un’amante lontana, e il pensiero di rivederla, e il desiderio di lei gli riempirono il cuore di tristezza appassionata.
Un passo di cavallo, in lontananza, nello stradale solitario, lo scosse dai suoi sogni; e subito sentì il desiderio e nello stesso tempo il timore che qualcuno venisse a cercare il ferito.
— È Marianna, la figlia del vecchio, — disse a voce alta, quasi per convincersi che non s’illudeva.
La figura seduta a cavalcioni su un piccolo cavallo baio che si avanzava fra il nero delle macchie e il bianco dello stradale era infatti quella di una donna; d'una vedova, a giudicarne dalle vesti nere e dalla benda che le avvolgeva il capo e le nascondeva quasi completamente il viso.
Arrivata davanti a Sebiu ella tirò la briglia, fermò il cavallo e domandò:
— Buon uomo, è cala Delunas, questa?
— Sì. Sei Marianna Sanna?
— Sì, — ella disse con voce sicura.
— Egli è qui; sono io che ho scritto.
— Dio ti rimeriti, — ella rispose e smontò agilmente, aiutata da lui.
Proseguirono la strada a piedi, fino alla spiaggia. Indolenzita dal lungo cavalcare, la donna zoppicava alquanto, e anche il cavallo fiutava la sabbia e si scuoteva tutto come per liberarsi dalla stanchezza del viaggio. Mentre le raccontava l’avventura del frate, Sebiu guardava la donna, ch’era alta e sottile, ma non riusciva che a vederne gli occhi dolci e chiari, il cui bianco, al riflesso della luna, sembrava di madreperla: e gli pareva di averla altra volta incontrata.
— Poco fa il vecchio s’è inquietato, protestando la sua innocenza e accusandomi di averlo tradito e rovinato, con l'avvertirvi, — egli concluse, — ma che dovevo fare? Ho fatto male?
— Tu hai fatto bene: hai fatto quello che doveva fare un cristiano. E Dio solo potrà ricompensarti, — ella rispose commossa.
Arrivati davanti alla capanna, Sebiu disse sottovoce:
— Egli si spaventerà, nel vederti. Potrà fargli male....
— Lascia che si spaventi! — ella disse quasi con asprezza. E fece cadere il lembo della benda che le copriva metà del viso. Allora Sebiu provò un senso di sorpresa, quasi come quando il finto frate gli era apparso nel suo vero aspetto.
Marianna rassomigliava a Pottoi. Gli stessi occhi dolci e chiari, lo stesso pallore diafano, le stesse fossette agli angoli della bocca dalle labbra sporgenti.
Ella entrò nella capanna. Egli rimase fuori, dominato da un improvviso e quasi violento senso di tenerezza ardente verso la donna che veniva di lontano e gli appariva come sua moglie in sogno.
Senza abbandonare la briglia del cavallo, si avanzò fino all’apertura della capanna e si protese ad ascoltare; ma più che la curiosità lo spingeva il desiderio di sentire ancora la voce della donna.
Ella diceva, con accento vibrante di dolore e d’ira:
— Babbo, babbo! Che avete fatto? Avevate bisogno di questo? No, no, non ne avevate bisogno.... Vergogna!
Il ferito non rispose, e forse accennò alla donna di non farsi sentire dal guardiano, perchè ella tacque un momento, e poi, con voce mutata, domandò:
— Come vi sentite? Siete in grado di fare il viaggio?
— Sei venuta a cavallo?
— Sì, ho preso un cavallo a Siniscola: andremo fin là a cavallo; poi prenderemo la carrozza. Che vi pare?
Il vecchio non rispose.
— E il vostro cavallo? — ella domandò.
— Ma lo hanno preso.... Tutto.... tutto mi hanno preso.... Mi son saltati addosso come diavoli. Dovevano seguirmi da un pezzo.
— Quanti erano?
— Due.... Io non avevo un’arma. Ma mi son difeso col bastone: e allora m’hanno ferito....
— Eh, un frate non va armato! — disse Marianna con ironia.
Allora Sebiu si portò una mano alla bocca, per soffocare una risata. Capiva finalmente il mistero tragico e ridicolo dell’avventura. Il finto frate girava per i paesi questuando, truffando la povera gente. Due malfattori più arditi di lui, forse sapendo chi egli era, l’avevano derubato e ferito.
Marianna avrebbe voluto portarsi via sùbito il ferito; ma da Siniscola la vettura postale non partiva che alle tre del pomeriggio. Tanto valeva passare la notte nella capanna.
Sebiu, dopo aver condotto il cavallo a pascolare fra le macchie, rientrò dai suoi ospiti e pregò la donna di rimanere: il pensiero che ella dovesse andarsene via subito, sparire com’era venuta, quasi fantasticamente, lo riempiva di tristezza.
— Lascerò la capanna a vostra disposizione; dovrete considerarvi come in casa vostra. E tu hai bisogno di riposarti, povera donna. Rimani, ti dico!
Ella rimase, tanto più che le emozioni di quelle ultime ore avevano agitato il vecchio; durante la notte la febbre lo riassalì.
Marianna cominciò a disperarsi; aveva paura che il padre morisse in quel deserto, tanto lontano da casa sua, e che si venisse a conoscere la sua vergognosa avventura. Ella era una donna energica, che aveva conosciuto il dolore e la solitudine; ma si ribellava all’idea di esser derisa e disprezzata dal prossimo. D’altronde era pericoloso mettersi in viaggio prima che il vecchio avesse riacquistato un po’ di forza.
Sebiu cedette il suo posto alla donna, e se ne andò a dormire sui mucchi di sacchi, nella tettoia. Ma non potè chiuder occhio. Aveva come delle allucinazioni. Vedeva Marianna accanto a lui, e provava un desiderio violento di possederla. La presenza di lei, in quel luogo dove non era mai passata una donna, pareva riempisse di vita la solitudine profonda della landa e della spiaggia. Il mare si sollevava ancor più del solito, e le onde coperte di schiuma parevano, al chiaro di luna, grosse capre saltellanti, desiderose di balzare fra le macchie per pascervi l’erba nascente; ma nonostante la loro forza e la loro agilità non riuscivano a oltrepassare le roccie, sulle cui sporgenze lasciavano come dei bioccoli di lana.
Il cuculo ripeteva il suo grido, in lontananza, fra le paludi che riflettevano la luna; il suo grido pareva il richiamo appassionato d’un fantasma, e destava un senso di pietà e il desiderio di cose inafferrabili.
Sebiu sentiva voglia di piangere e nello stesso tempo il desiderio selvaggio e insistente di prender la donna lo assaliva come le onde assalivano le roccie; s’ella non fosse stata sua ospite, non avrebbe esitato un momento a lasciarsi vincere dal suo istinto.
La notte passò, tormentosa per tutti. Marianna non dormiva: il ferito gemeva; Sebiu sognava strane cose. All’alba arrivarono i carri del carbone, ed egli avvertì Marianna di non uscire dalla capanna. Ella sperava sempre di veder da un momento all’altro suo padre sollevarsi ed essere in grado di partire; ma la febbre, nonché diminuire, cresceva. Egli ricominciò a delirare.
Allora anche lei, come Sebiu nei primi momenti, perdette la testa: chiamò il guardiano e gli disse che voleva far venire il medico.
— Dirò che mentre io e mio padre viaggiavamo a cavallo per andare alla festa campestre di San Costantino ignoti malfattori ci hanno assalito.
— Ma il dottore riconoscerà che la ferita data da quattro giorni! — osservò il giovine.
— Il nostro medico è un uomo onesto, indiavolato: denunzierà il caso al pretore, non dubitarne.
Marianna cominciò a piangere.
— Ma non bisogna lasciarlo morire così! Gli verrà la cancrena. Egli morrà qui! Egli morrà qui!
Sebiu la guardava con pietà: e poiché ella continuava a disperarsi, le diede un consiglio:
— Senti. Conosco una donna del mio paese, una vecchia famosa per curare i feriti anche i più gravi. Ha curato anche dei banditi, e tutti la conoscono e l’apprezzano per la sua discrezione e la sua abilità. Io volevo chiamarla subito, ma a dire il vero il primo giorno ho creduto che non ci fosse più nulla da fare, e poi ho sempre sperato che del medico non ci fosse bisogno....
Marianna s’asciugò gli occhi e si alzò.
— Dimmi dove sta questa donna.
— Sta in una casetta dirimpetto alla parrocchia. Domanda di Maria Murru: la troverai subito.
Marianna montò a cavallo e andò in cerca della vecchia.
*
La vecchia, nel vedere una donna straniera e indovinando che l’avventura raccontata non era del tutto vera, credette si trattasse d’un latitante o di un malfattore ferito in qualche ardita impresa: si affrettò quindi a prendere un cofanetto d’asfodelo, e sedette in groppa al cavallino baio, alle spalle di Marianna. E via, per l’agro desolato dove la primavera spandeva un senso di poesia ineffabilmente triste, le due donne ritornarono verso il mare. La vecchia era altissima, rigida, scura in viso; seduta in groppa al cavallino, dominava la figura graziosa e delicata di Marianna, e sembrava l'immagine della Morte accanto a quella della Vita.
Durante il viaggio raccontò che aveva curato più di venti feriti; e fra gli altri, alcuni latitanti. Non nascose che anche adesso credeva d’andar a far altrettanto, e che ne era orgogliosa.
Arrivata alla capanna aprì il cofanetto e tirò fuori una fascia, una chiave, un vasetto di balsamo. Ella curava accora le ferite come al tempo delle Crociate; ma aveva la furberia d’un medico moderno. Si accorse che la ferita del vecchio non era grave; ma per darsi dell'importanza dichiarò che egli non doveva muoversi fino ad una sua nuova visita.
Fasciata la ferita, mise la chiave sotto l’ascella del vecchio; la lasciò finché la sentì calda, poi la strinse nel pugno.
— Febbre non ce n’è quasi più — dichiarò, rimettendo nel cofanetto lo strano termometro. E sollevandosi vide che Sebiu guardava Marianna con uno sguardo quasi feroce.
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Il ferito rimase altri cinque giorni nella capanna. Gli uomini che trasportavano il carbone dalla foresta alla spiaggia finirono con l’accorgersi della presenza del vecchio e della donna. Sebiu inventò una storiella, disse che il vecchio, ammalatosi in viaggio, gli aveva domandato ospitalità. Gli uomini sogghignavano. Essi venivano direttamente dalla foresta, senza fermarsi nei paesi: erano da lunghe settimane privi di compagne, di mogli, di amanti: nella spiaggia desolata Marianna rappresentava per loro ciò che v’è di più bello per l'uomo oppresso dalla solitudine: la Donna, fonte di vita. Al desiderio sempre più cupo di Sebiu cominciò quindi a mescolarsi un istinto di gelosia feroce. Egli rispettava Marianna, ma gli pareva che ella non dovesse appartenere a nessun altro degli uomini che potevano desiderarla.
Ella si accorgeva dell’ammirazione che gli destava, e a sua volta si mostrava gentile e buona con lui. Egli aveva abbandonato la capanna, lasciandola interamente a disposizione degli ospiti, e per ore ed ore rimaneva lontano. Marianna cucinava, curava il ferito, e contava le ore e i giorni che non passavano mai.
Finàlmente la domenica mattina la vecchia medichessa trovò che il ferito stava molto meglio: il calore dell’ascella non riscaldava la chiave.
— Domani mattina potete mettervi in viaggio — ella annunziò.
Allora la giovine vedova l’accompagnò fino allo stradale e le chiese quanto le spettava per la cura. La vecchia esitò un momento, poi contò sulle dita e domandò:
— Dimmi la verità, tuo padre, il vecchio ferito, è un latitante?
Marianna negò recisamente.
— Uno scudo, allora! Se si fosse trattato di un “disgraziato„ avrei potuto fare uno sconto, fare anche la cura gratis, ma per un privato non posso domandare di meno.
La vedova pagò lo scudo, e ritornò verso la capanna. La spiaggia era deserta, perchè nei giorni di festa i “carriolanti„ non viaggiavano. Soffiava un forte vento di sud-est e il mare era agitato: più tardi cominciò a piovere, e Sebiu rimase nella capanna coi suoi ospiti.
Marianna, per sdebitarsi in qualche modo con lui, aveva fatto venire dal paese un fiasco di vino e una bottiglia d’acquavite. Egli non si fece pregare per bere, poi d’un tratto diventò melanconico, e senza che nessuno glielo domandasse cominciò a raccontare la storia della malattia di sua moglie.
Anche il ferito beveva come un uomo sano; per seguire l’esempio dell’ospite gli fece anche lui qualche confidenza. Fra le altre cose raccontò che Marianna aveva un ricco pretendente, un pastore non tanto giovane, ma ancora un bell’uomo, pacifico, semplice, padrone di duecento pecore: viveva quasi tutto l’anno in campagna, ed era un futuro marito ideale, insomma.
Marianna faceva dei cenni a suo padre perchè tacesse, ma i suoi dolci occhi sorridevano, e pareva ch’ella dicesse a Sebiu, con lo sguardo: “dopo tutto non sono una vedova disperata; lo vedi? Ho altri adoratori, più fortunati di te„.
Sebiu ascoltava, beveva e sospirava.
— E così domani dovrete andarvene, — ripeteva di tanto in tanto.
— Mi pare sia tempo, — disse Marianna.
— Dovresti mandarci via in malora!
Egli la guardò e arrossì. Il vecchio gli domandò scusa per averlo ingiuriato mentre avrebbe dovuto ringraziarlo come un santo, e aggiunse:
— Io mi ricorderò sempre di te. Anche se tu mi facessi la peggiore delle ingiurie, anche se tu tagliassi la lingua al mio cavallo, ti perdonerei.
Sebiu uscì fuori e si morsicò i pugni.
Verso il tramonto la pioggia cessò, ma il vento continuò a soffiare con violenza. Era un vento caldo, umido, che portava l’odore delle coste africane. Sull'orizzonte, sopra il mare tutto livido e sanguigno, il cielo rosso e le nuvole in color di fiamma e di fumo davano l'idea di un immenso incendio. La brughiera umida, gli scogli e la sabbia, quando le ondate si ritiravano, riflettevano la luce rossa dell'orizzonte.
Sebiu andò in cerca del cavallo dei suoi ospiti, e nella tettoia vide Marianna che cercava un sacco meno sporco degli altri per coprirsi durante la notte. Le si avvicinò: tremava tutto e i suoi occhi riflettevano la fiamma del tramonto.
— Stanotte farà freddo — disse lei, piegata sul mucchio dei sacchi.
— Se vuoi.... se vuoi, ti scalderò io....
Ella si sollevò e rise. Egli le afferrò i polsi, e gli parve di avere la stessa forza irrefrenabile delle onde che in quel momento arrivavano a sorpassare le roccie.
*
Durante la notte egli vagò lungo la spiaggia, si aggirò attorno alla capanna, cantò, rise e parlò ad alta voce, come se le cose tutte potessero ascoltarlo e partecipare alla sua ebbrezza. Gli pareva di esser tornato fanciullo. Non si pentiva di quello che aveva fatto, anzi ne era quasi orgoglioso. Rivedeva Marianna, che dopo essersi abbandonata lo guardava, umile e quasi riconoscente, e poi lo sfuggiva senza rivolgergli una parola di rimprovero o di promessa.
Per quanto la richiamasse, coi suoi fischi, i canti, i versi melanconici che si confondevano coi lamenti del cuculo, durante la notte ella non si lasciò più vedere. All’alba gli ospiti partirono: il vecchio sedette in sella e Marianna in groppa al cavallino baio.
— Verrò a trovarti.... per la festa.... — disse Sebiu. La sua voce tremava.
— Se tu vieni ed io avrò un pane te ne darò la metà, e se non lo avrò me lo presterò dal vicino, — promise il vecchio solennemente.
Sebiu fissava su Marianna i suoi occhi ardenti, ma ella evitava di guardarlo, e tagliò corto ai ringraziamenti e alle promesse enfatiche del padre, battendo il tacco sul ventre del cavallino. La bestia si mosse, avviandosi lungo il sentiero e di là nello stradale, come se avesse già fatto molte volte quel viaggio. In breve il gruppo sparve fra le macchie della landa, e Sebiu si trovò solo, un po’ stordito come quando si svegliava dopo qualche sogno’ febbrile.
All’ebbrezza puerile e selvaggia della notte seguì una tristezza sentimentale. Gli venne il desiderio di slanciarsi attraverso la landa, d’inseguire i suoi ospiti; e sognò che il vecchio, riassalito dalle febbre, costringeva Marianna a ritornare indietro verso cala Delunas: poi si propose di andar a Suelzi al più presto possibile, e di trovar da lavorare in quel paesetto, per poter vivere accanto a Marianna: infine sedette sul mucchio dei sacchi, sotto la tettoia, con gli occhi fissi in lontananza, e le sue labbra si sporsero e tremarono come quelle di un bambino pronto a piangere.
I “carriolanti„ lo trovarono addormentato, pallido in viso come un cadavere, e dovettero gridare e scuoterlo per svegliarlo.
Il sorvegliante gli portò il solito cestino di provviste e le notizie di Pottoi.
— Ieri, a messa, ho veduto che un forestiere, un continentale di passaggio, la guardava come un falco. Anche lei lo guardava. Eh, eh, non si lascia così la moglie sola!
— Ma state zitto, zio Efisè! Queste cose non le dite neanche per ridere.
L’ometto ammiccava, e pareva gli accennasse che sapeva il suo segreto. E Sebiu arrossì, domandandosi suo malgrado che cosa avrebbe fatto se Pottoi lo avesse tradito, come egli aveva tradito lei.
I giorni passarono, lunghi e monotoni, ed egli dapprima smise il progetto di recarsi a lavorare al paese di Marianna, poi accettò di rimanere per altri due anni guardiano a cala Delunas; ma domandò, per il mese d’agosto, due settimane di permesso. Voleva andare a Suelzi. Ai “carriolanti„ che potevano aver relazione con persone del paesetto di Marianna, domandava continuamente notizie di lei. Ma nessuno sapeva dirgli nulla. In giugno scrisse una cartolina al vecchio, lamentandosi di non aver più avuto sue notizie. I suoi ingrati ospiti neppure gli risposero. Di tanto in tanto egli provava qualche vaga inquietudine. E se Marianna fosse rimasta incinta? Il vecchio Sanna era capace ancora di vendicare l’onore della figlia. Nelle notti di luna, mentre vagava attorno ai mucchi del carbone, credeva di veder la strana figura del finto frate balzare dall’ombra delle macchie e saltargli addosso minacciosa.
Ma col passar del tempo le sue paure svanirono: a volte gli pareva d’aver sognato. La figura di Marianna si confondeva con quella di Pottoi, ed egli, ripreso dalle sue smanie, dal bisogno della compagnia di una donna, non sapeva quale gli sarebbe riuscita più piacevole: quella della moglie o quella della vedova. Una notte sognò le due donne che si azzuffavano per lui in riva al mare; Pottoi riuscì ad atterrare la sua rivale, e l’avrebbe buttata alle onde, s’egli non interveniva a tempo.
Il sorvegliante continuava, ogni lunedì, a portargli le provviste e i saluti di Pottoi. Pottoi migliorava davvero, e una mattina, verso i primi di luglio, Sebiu se la vide arrivare d’improvviso, in groppa ai cavallo del sorvegliante, come la vedeva nei suoi sogni. Finse di arrabbiarsi per l’imprudenza di lei, ma l'ometto ammiccava e giurò sul suo onore che aveva prima domandato il parere ed il permesso del medico.
— Se no, finisco col trovarti sulla sabbia come un’aringa salata, consumato, stecchito, — disse, e chiudeva l'occhio, guardando Pottoi, come per dirle: siamo intesi, eh?
Poi se ne andò fra gli scogli, si spogliò e si buttò nudo nell’acqua.
Sebiu e Pottoi, rimasti soli sotto la tettoia, si guardavano confusi come due fidanzati, mentre chiacchieravano raccontandosi le vicende di quei lunghi mesi d’assenza. Egli, naturalmente, si guardò bene dal narrare la più interessante delle sue avventure.
Dopo quel giorno la figura di Marianna cominciò a sparire dietro quella di Pottoi; e come nel sogno, questa rimase vittoriosa. E in agosto, invece di recarsi a Suelzi, Sebiu passò i suoi giorni di vacanza in paese. Una sera, passando davanti alla parrocchia, vide la vecchia medichessa che col suo cofanetto nel grembiale, si recava a curare un ferito.
— Che nuove, zia Maria? Come vanno gli affari?
— Qualche volta bene e qualche volta male.
Fecero un tratto di strada assieme, e prima di entrare nella casa dove era aspettata, la vecchia disse:
— Ho poi saputo chi erano i tuoi ospiti di cala Delunas.
Suo malgrado egli trasalì, punto dal ricordo.
— Io non ho saputo più nulla di loro.
— Io sì!
— E come avete fatto?
— Cuoricino mio, — ella disse non senza ironia — ho un cavallo, io, sul quale viaggio senza esser veduta, e quando voglio sapere qualche cosa monto su e via!...
— E prestatemelo, allora! Vado immediatamente a-trovare i più ricchi proprietari del circondario e rubo loro i denari, il formaggio, gli alveari....
— Cuoricino mio, la ricchezza vai niente, quando manca la saviezza, — sentenziò la vecchia. — Vedi, quel tuo ospite? Era un uomo ricco: s'è mangiato tutto, anche i beni della figlia. Poi andava a questuare, vestito da frate, finchè una bella notte s’è preso la batosta che tu sai.
— Eh, perchè non aveva il vostro cavallo invisibile! E poiché state a raccontare, ditemi, e della vedova che ne è?
— Ti preme saperlo? Deve sposare un pastore, anzianotto, ma ricco.
— Buona fortuna!
Per quanto egli insistesse, la vecchia non volle dirgli come aveva avuto notizie dei Sanna. Egli pensò ancora qualche volta a Marianna, con un vago senso di gelosia per l’uomo che doveva sposarla; ma non mancava di dire a sè stesso, per consolarsi:
— Poteva succedere qualche guaio: meglio che sia andata così.
*
Una mattina, agli ultimi di gennaio, mentre usciva col suo cofanetto nel grembiale, chiamata d’urgenza presso un pastore ch’era caduto di cavallo, la medichessa sentì raccontare dalle sue vicine una strana avventura accaduta nella notte.
— Un frate ha lasciato una bambina, in casa di comare Pottoi! Pare sia una bastarda, figlia di gente ricca: l’hanno portata di lontano, forse da Nuoro....
Nuoro, per quelle buone paesane, era come a dire Parigi, un luogo lontano, una grande città di misteri e di perdizione.
Mille supposizioni e commenti passavano di bocca in bocca: lei sola, la medichessa, taceva; e palpava il suo cofanetto, contando sulle dita nervose:
— Maju, lampadas, triulas, agustu, capidanne, santo Gainu, santo Andrìa, Nadàle, jannarju1 — nove mesi giusti.
D’un tratto, vinta dalla curiosità, ma senza dimostrarlo, si diresse verso la casa di Pottoi.
Davanti al cortiletto gruppi di donnicciuole commentavano il fatto; nella cucina la giovine donna non finiva di raccontare l’avventura, mostrando a tutti la bambina che succhiava tranquillamente il latte dalle mammelle gonfie e livide di una cugina di Sebiu. Il guardiano era assente e ciò che sopratutto preoccupava Pottoi era il dubbio che egli avesse ad accoglier di malanimo la piccola misteriosa ospite.
La medichessa si piegò a guardare la bambina che Pottoi e le sue parenti avevano già infagottato all'uso del villaggio, con fasce colorate, le manine dentro, la testina nuotante in una cuffia di broccato con frange dorate. Sembrava così una piccola mummia; il suo visetto, dai lineamenti già marcati, era pallido, d’un pallore malaticcio; e causa di meraviglia per tutti quelli che la guardavano era la sua strana rassomiglianza con Pottoi.
Qualche donnicciuola, per far stizzire la giovine donna, diceva:
— Mi pare che questa creaturina non venga poi tanto di lontano. Che tu l'abbia fatta ad insaputa di tuo marito, di’, Pottoi?
Allora la giovine donna riprendeva a raccontare per la millesima volta la sua avventura.
— Saran state le nove, ieri sera; quando ho sentito battere alla porta. Credevo fosse Sebiu, anzi mi spaventai, pensando: che egli stia poco bene? Domando: chi è? Amici, risponde una voce alta e chiara. Apro, e chi vedo? Un frate, uno di quei frati che sovente passano da queste parti questuando. Egli si tirava dietro un cavallo carico di bisacce colme, ed io posso giurare che queste bisacce mi parvero piene di grano. Per non lasciare il portone aperto, credendo sempre che il frate domandasse la questua, io gli diedi una lira che tenevo in tasca. Egli prese la moneta, e mi disse:
“ — Dio te ne rimeriti, buona donna; ma tu dovresti farmi un favore, per amor di Dio. Devi tenermi una di queste bisacce, fino a domani mattina. Ho paura che, dove vado a passar la notte, mi sottraggano un po’ di grano. Domani mattina ripasserò e riprenderò la bisaccia.
“ — Date pur qui, — dico io, un po’ meravigliata — purché non ripassiate prima dell’alba....
“ — No, puoi star sicura, — egli risponde, e tira giù una bisaccia, se la carica sulle spalle, la depone in un angolo sotto la tettoia, lì nel cortile. Poi se ne va ed io chiudo il portone.
Non vi nascondo che la cosa mi sembrava un po’ strana: non sono una donna semplice, io! Mentre il frate scaricava la bisaccia, ebbi l’impressione che questa pesasse poco.
“Mi vennero in mente brutte idee. Pensai: qualche maligno, qualche individuo che vuol male a Sebiu può averci giocato un tiro. Se nella bisaccia, per esempio, ci fosse della carne rubata? Se domani mattina, invece del frate venisse il brigadiere e trovasse in casa mia, nella bisaccia, qualche refurtiva?
“Pensando così mi aggiravo per la cucina, indecisa se dovevo o no guardare dentro la bisaccia. Quando ad un tratto, — vedete, mi viene ancora la pelle d’oca al ricordarlo, — ecco, sento un vagito. Immediatamente ebbi l’intuizione della verità. Non sono una sempliciona, io. — Qui c’è una creaturina di Dio, — pensai — un figlio di Sant’Antonio!2 Allora non esitai oltre. Prendo il lume e guardo dentro la bisaccia. Avvolta nella lana trovo la bambina! La tiro su, la guardo: mi pareva di sognare. Il particolare più curioso è questo: la creatura era avvolta in una camicia da uomo, da borghese, nuova, non ancora lavata. Eccola qui„.
Pottoi spiegò la camicia, tenendola per le maniche: era di tela finissima, cucita a mano.
Tutte le donne presenti si avvicinarono a guardarla. Soltanto la medichessa rimase ferma al suo posto, accanto al focolare, e si degnò appena di gettare uno sguardo sullo strano indumento.
— È certo che il padre della creatura è un signore, dunque, — concluse Pottoi, — forse anche la madre è una signora. Ad ogni modo, questa camicia potrà servire a Sebiu.
La medichessa s’alzò per andarsene.
— Credete voi che Sebiu vorrà tenere la bambina? — le domandò Pottoi.
— Io credo di sì, — rispose con tono sicuro la vecchia.
— Dio lo voglia.
E la vecchia medichessa andò a visitare il pastore caduto di cavallo. Anche là, nonostante la disgrazia, si parlava dell’avventura di Pottoi.
Per cinque o sei giorni in tutto il paese non si parlò d’altro: molte donne assicuravano d’aver veduto il frate, e qualcuna disse che egli aveva picchiato anche alla porta di casa sua. Si rideva un pochino di Pottoi, e tutti erano sicuri che Sebiu avrebbe mandato la bambina dal Sindaco, perchè il Municipio s’incaricasse di allevarla.
Una sera, mentre usciva di casa col solito cofanetto, la medichessa incontrò una sua vicina, che tornava dalla casa di Pottoi.
— Sebiu è tornato, sapete. Si tiene la bambina! Che ne dite?
Ma la vecchia non rispose a tono.
— Ho dimenticato la chiave, — disse palpando il suo cofanetto.
E rigida, impassibile, da persona che non si meraviglia di niente, rientrò per cercare il suo termometro.