Canti (Aleardi)/Lettere a Maria/II. L'immortalità dell'anima

Lettere a Maria

II. L'immortalità dell'anima

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II.


L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA.





Uns filosofes si parloit
A s’ame, et si l’amonestoit:
La moie ame, n’oblie pas
Dont tu venis, et où iras.
     Custoiment d’un père à son fils.
                    Fabliaux.



     Dunque m’assenti di venirti a fianco
Nell’esilio, o Maria? Oh, senza fine
Sii benedetta. Ecco partiam, siccome
Svelte a la riva da Aquilon notturno
Due navicelle fragili. Ma dimmi,
Ài conoscenza delle ree marine?
Dimni, sai tu la rada, ove la punta
Volger si debba de le meste prue?
E credi che pel buio aere raminghi
Sempre dato ne fia veder la stella
Benefica del polo, a cui si volge,
Come ad avviso che gli manda il cielo,
L’incerto timoniere?
                                      O mia sorella,
Non paventar di salvamento: sei
Buona; m’ascolta.
                                 Abisso inesplorato
Senza termine è il core. Ivi raccolte
Del lïone le febbri; ivi celate

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Le viltà de la iena; è uno scompiglio;
È il più superbo dei vulcani, quando
Lo sommovon gli affetti. E pur nel fondo,
O irrevocata, o maledetta, o cara,
Abita guardïana una virtude;
E cui l’intende, arcanamente parla
Una santa parola; ed Eva prima
La chiamò Coscïenza, ed è flagello
Muto agl’iniqui, e allegra le gagliarde
Malinconíe del giusto. Ella ne fia
Stella del polo.
                               Fra quell’onda ignota
Che varcheremo del futuro, siede
Squallida una riviera. All’appressarsi
Sente da lunge il navigante acuto
Un olir di cipressi, e vede in alto
Girar qualche digiun sciame di corvi;
E via pel verde un albeggiar di marmi,
Strani fior per un campo! Illanguidita
Lascia i remi la mano, e da sè stessa
Si ripiega la vela. Ivi è fatale
Che approdin tutti d’ogni terra; ed ivi
Tutti dormono in pace. E noi, Maria,
Arriveremo, e soli in appartata
Arca, e abbracciati poserem nel sonno,
Rimettendo la stanca anima a Dio,
Poi che il termine è Dio.
                                                Nata all’opaco
Seno d’un masso che le ruba i soli,
Le rame allunga sottilmente e piega
La tremula alberella. Urto di brezza,
Che assidua spiri, non la spinge a quelle
Curve insolite a lei; ma sì la tira

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Un istinto di sole, un indefesso
Desiderio di luce.
                                   In alto passa
Una riga di gru, volta ai diletti
Nidi lasciati ne le calde terre:
Per tutto il remigato aere colonna
Milïaria non è che loro apprenda
Per quali monti, per qual mar s’arrivi
A le dolci dimore. Uno più assai
Sapïente di lor, pose in quell’ali
De la, patria l’istinto.
                                              E tal, Maria,
Come a la patria de la luce, attrae
Un istinto le meste anime al cielo.

     Ma tu sorridi come chi sentisse
Pietà superba de le mie credenze;
Dubiti forse, o bella nazzarena,
Dell’avvenire del sepolcro? Porgi
Qui la tua mano candida; una bruna
Zinganella che il grande occhio di foco
In remota schiudea valle boema,
Sui rosei solchi de le aperte palme
M’apprese. a studïar l’intime fedi
Onde un’anima è paga o irrequïeta...
Ohimè, povera amica, io ti compiango,
Chè all’avvenir del tumolo non credi!

     È ver; come apparía sovra una porta
Trista di Tebe un tempo in su la sera
Cupa una sfinge, e provocava a sfida
Ogni indovino con dimande arcane.

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Ogni notte, ogni dì si manifesta
Cupa sfinge la morte; e per le piazze
E per le vie de la città galoppa
Misterïosa, e i campanili ascende,
Ed ulula per l’alto aere col tocco
D’una campana; e d’eco in eco il suono
Risponde in cielo: e l’indovino ancora
Edippo non trovò.
                                 Ma pur qui dentro,
Più fedel d’ogni Edippo, è un sentimento
Che mi profeta con gentil fermezza
Nuovi destini, luminosi, eterni.
Con tetre pompe e paurosi riti
Perchè funesti, sacerdote, l’ora
Che mi risveglio in Dio? - Forse non basta
Scorger il pianto dei diletti in vita
Stillar tacitamente su le coltri,
E il crudele pensier di non vederli
Su la terra mai più? - So che in quell’ora
Cadranno i ceppi de la fragil creta,
E dall’aspro guancial dell’agonia
Qualche cosa ch’è in me spiccherà il volo
Oltre la luna, oltre le stelle, e indarno
Mi seguiran di mille aquile i vanni.
Pallida vita! e tu saresti il grande
Avvenimento degli umani e il solo?
Il passato è una larva, a cui l’oblio
Va scancellando i languidi profili;
Il presente non altro è che il veloce
Avvenire che arriva. Ecco la vita
Dell’uom superba. D’una gioia il volo,
Il cader d’una lagrima; una lotta
Indefessa; uno sterile rimpianto

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Dei giorni che passâr; forse una colpa
Travestita in rimorso, e una speranza
Che sfugge e irride, come fatua fiamma
A lo smarrito in tenebrosa landa.
E il dolor, come re, siede nel mezzo
Dell’inospita landa; e da là lunge
Fra il turbinio de la commossa polve
Sfolgoran gli assi e le cavalle insane
De la fortuna. E domina i tumulti
Ora un grido di morte, ora un plebeo
Scoppio di risa: e l’ansïose turbe
Sotto i fuggenti corridor, tra i solchi
Maculati di sangue, urta la Dea.
Povero e forte, in eminenza assiso,
Lagrima il giusto condannato a giorni
Inoperosi, e accanto a lui guardando
A quella grama commedia d’un’ora,
Sveglia da la dolente arpa il poeta
Un inno che nel vano aere si perde,
E ne la valle giù passan le turbe
Salutandoli folli.

                                   Oh! ne la vita
Qualche delitto incognito ne pesa;
Qualche cosa si espia!
                                          Chi a noi d’intorno
Segnò questo fatal cerchio di colpe
E di sventura? e su la vergin prole
Fe’ che per rami di Cain scendesse
L’eredità di sangue inconsumata?
Chi sovra i balzi permettea le rôcche
Vïolente, onde emerse il pauroso
Dritto dell’oppressor? Perchè nel mezzo

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D’un silenzio che medita sull’onte,
Quel prepararsi a le supreme sfide
Dei popoli ringhiosi? Onde cotanto
Fáscino all’oro, e quell’esser delitto
La povertade? E nei fastosi prandi
L’esultanza dei tristi e quel segreto
Patimento di pure anime, sempre
Inesperte del mondo? E chi mi trasse
A questo ballo mascherato, dove,
Se mai per generoso impeto io strappo
Il vel bugiardo, e levo alta la fronte,
E sillogizzo un franco ver che tutti
Ànno nel core, mi deridon tutti?
E su gli ungari campi e su i moravi
Sorge un castel con una tetra muda
Ove starò per orbi anni scontando
La santità del temerario vero?
E sopra mi verran l’unghie e la rabbia
D’aquila immonda a lacerare i lombi
All’oscuro Prometeo?...
                                            Oh! tal l’idea
De’ celesti non era; e pria che nati
Fossero i padri de’ miei padri, alcuno
À peccato per noi.
                                   Forse, Maria,
Quella tremola stilla che discorre
Giù pel tuo seno come cosa viva,
È più che pianto. È un mistico lavacro;
E, senza che tu ’l sappia, ella ti monda
Pei cieli patrii. Poi che tutti, o cara,
Di lassuso venimmo: uno lo disse
Che mai non erra: e quanto d’alto e puro
E di nobile à il core, è forse un’eco

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Lontana; un’indistinta ricordanza
Che ne lasciava quel divin paese.

     Onde questa mi piovve insazïata
Ansia d’un bello che non trovo in terra?
Ne le forme dell’Itale fanciulle;
Ne l’austera armonia de i cesellati
Carmi de gli avi; ne le dolci note
Che l’usignolo di Catania attinse
Dal suo cor che moría; ne le colonne
Del Partenone; nei celesti volti
Che Raffaello in visïon rapito
Vedea la notte, e il giorno ritraea;
Nel mar, nei monti, nei deserti, e invano
Ne le stelle lo cerco. Oh certamente
È più in su che le stelle!
                                                  Allor che m’arde
Turgido il core, e in ogni fibra un vivo
Fremito sento di desio che anela
A una colpa imminente, onde mi viene
Questo poter recondito che insorge
Meco a battaglia, e nel misterio estinguo
I bollori del sangue, e mi süade
Una virtù che dal gioir rifugge?
Onde avvien mai, che ai termini sdegnoso
Assegnati al mortal, come se avessi
Il sentimento di chi fu bandito,
Rompo il confine col pensiero, e volo
D’un avvenir sui campi interminati?
E molto più del minacciato Inferno
M’è terribile il nulla? E qui si giura
Noi moribondi eternità d’amore,
E d’odio eternità noi moribondi?

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     Se non fosse così, perchè talora
Fin nelle braccia de la donna mia
Quel subitano fastidir la vita?
Dimmi, Maria, perchè nell’abbondante
Primavera degli anni, allor che ignota
Senti agitarti una virtude quasi
Creatrice di mondi, all’improvviso
Stanca una voglia di morir ti vince?
E nel vol de le danze, e fra i doppieri
Multiplicati a lustro de le mense,
Muta la noia al fianco tuo s’asside,
Non atteso conviva, a dolorarti?
Perchè raccolto del giullare il teschio
Gittato via dai lepidi becchini,
Quel curïoso dimandar d’Amleto
La celia antica al dissepolto amico?
Onde sì forte maestà deriva
Dai quattro palmi d’un’aurèola nuda,
Ove posa un estinto? E chi primiero
Di benevoli Mani à popolato
Le chiese consuete; e via pei campi
Al tenue filo de le nuove lune
Sognò crucciosi Lèmuri? Chi mai
Nutrì nel core ai non ingrati figli
La reverente carità ch’espía
Dei sepolti le mende? E su le tombe
Così gentil malinconia profuse,
Che, miste ai sicomori, ogni cittade
In Orïente se ne fa cintura;
Quasi gli estinti con perenne e pia
Zona d’amor, di verde e di profumo
Abbracciassero i vivi?
                                          O mia sorella,

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Sali quel colle, e giù per la valletta
Mira là quell’erboso ultimo lembo
Chiuso da bianco muricciolo dove
Una selvetta pullula di croci:
Quello è il nobile campo, ove ànno i padri
De la villa riposo. Essi, Maria,
Poco àn goduto, ànno patito molto
Per i figli e le mandrie, e per le gemme
Dal vigneto promesse. Essi nel tempo
Del mietitore benedisser Dio
De le biche raccolte, e se dai tetti
Lagrimava la neve, essi cantando
Reddían col fascio di roveti a spalle
All’allegria del focolar loquace.
Poscia nei giorni di riposo, al tempio
In famiglia traean vestiti a festa
A cantare al Signor le lor preghiere.
E alcun vi fu che ne la ingenua vita
Uniforme non seppe altro del mondo
Che quel campo, quel monte, e quella chiesa.
Ora taciti là posano, come
Se non fossero nati.
                                      Ed ivi forse
Dorme un occulto Pindaro senz’arpa:
Un Ildebrando, cui mancò la stola
Venerabile e i tempi: un novo forse
Napolëon, che non sortía la spada,
Ma l’animo sortiva ai favolosi
Combattimenti, e a quella anco maggiore
Lotta che nei crudeli anni del bando,
Solo, in cospetto de la terra, e nudo
Combattè nell’infame isola e vinse.
Essi, quasi incompiute opre passâro,

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Simile a donna sterile, ed arcani
Fino a sè stessi; e non vorrai, Maria,
Che trovino lassuso il compimento?

     Oh! sì, l’avranno. E tu lo rivelavi,
Divo d’Atene moribondo: e allora
Già non falliva il famigliar tuo genio,
Che due volte immortal ti predicea.

     Calava il sole un vespero d’autunno
Remotissimo a noi: le inseminate
Cime all’Imeto si tingean di rosa;
Con le ghirlande del ritorno in poppa
Un naviglio le azzurre onde spartía
Salutando il Pirèo; giocondi gruppi
Di verginelle ripetean sul lido
Inni de la immortale poveretta
Che a Leucade saltò; quando un acuto
Grido s’intese correre le vie:
“Socrate è morto.”
                                   E forse, Attica bella,
Quella cicuta fu ’l maggior peccato
Che ne la immonda servitù scontasti!
E forse dopo un lungo ordin di turpi
Secoli di dolor, senza saperlo,
Col nobil sangue il martire Bozzari
Di quel tradito ti lavò la macchia!

     Socrate è morto! Ma a la stirpe d’Eva
La più superba eredità lasciava
In questo ver: che l’anima non muore.

     O sapïente che svelasti a noi
Un perpetuo avvenir, forse bramato

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Con la virtù del sentimento avresti
Più che Dio non creò? Che questa dolce
Securità di riveder mia madre
Fosse un’amara irrisïon del cielo?...
Oh no, no, madre mia! veracemente
Ci rivedremo, e ancor m’arriderai
Col tuo languido e nero occhio d’amore;
Ti narrerò di quella nostra e cara
Verginella che fu mia dolce cura
E come intatto e chiuso orto guardai.
Tu che facevi col saper del ciglio
Mansüete le nostre ire fanciulle,
Novamente accôrrai questo sdegnoso
Che partorivi con fatica tanta,
O troppo presto o troppo tardi, in mezzo
A le viltadi d’una fiacca stirpe.
Te che il fango di qui nella secura
Semplicità dell’anima sfioravi,
Vedrò, raccolta la persona bella,
Fra ’l nimbo dei beati, e tuttavia
Volonterosa del figliale amplesso.

     Oh sì, ti rivedrò! Già su le piume
Dell’estro infaticabile precorro
Al mesto fine de le mie giornate,
E mi par di morir. Già sul mio petto,
Esercitato da sì lunghe croci,
L’ultima croce sta. Niuno di tanti
Che su la terra amò, niuno l’estinte
Vela pupille al povero poeta.
Sento una gente, che non vidi mai,
Gemere un vecchio salmo; e in faccia al verde
Margo del suburbano Adige mio

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Calarmi ne la fossa: odo fra i sassi
Il badile sonar del taciturno
Seppellitore, che mi versa in capo
L’ultima gleba, e mi rimango in una
Solitudine buia abbandonato.

     Quand’ecco un Forte splendido che arriva
E mi contende al Re do le tenèbre,
E lotta, e vince, e da la oscena. tomba
Mi vuol redento. Un aleggiar di brezza
Paradisiaca mi blandisce il volto
Con frescure olezzanti: e pei sereni,
Traversati da spiriti e da stelle,
Ascender veggo sull’opposto lembo
L’alba che ne impromise il Nazzareno.
Attonito mi levo, e da le chiome
Scuoto la morte: e sovra il gelid’orlo
Del sepolcro chinata un’apparenza
D’immortal gioventù mi si presenta,
E non sente di terra il suo saluto...
Oh! la ravviso. Ella è mia madre. Ed ecco
Mi raccoglie nel suo manto odoroso
Dei profumi del cielo; e come augello
Di paradiso che a la prole insegni
Il remigar de le inesperte piume,
La mi trae per le vie dei firmamenti.
Ne la fidanza del materno seno
Lieve lieve mi sento all’indefesso
Rapidissimo volo; e via trapasso
Saettando pei limpidi zaffiri.
Omai s’io miro a la superba e frale
Vanità de la terra, altro non odo
Che il confuso fiottar dell’oceàno

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Ne le sponde custodi; altro non vedo
Che uno di monti, di deserti e d’acque
Vertiginoso rotëar sui poli.
Ed Ella intanto la fedel parente
Sazïando con semplici parole
Quel desio di saper che m’innamora,
Il crëato mi svela, e la diversa
Indole de le stelle, e ad uno ad uno
Mi spiega i cieli come cosa sua;
Qual visitando le fragranti aiuole
Del tepido verziere, una cortese
Giardiniera ti narra i tulipani
E le camelie che le edùca il sole.

     E senza posa il terso etere solco
Con la dolce compagna. E già comprendo
Perchè tanta di luce onda si versi
Su le altissime corna a le montagne
Nel bel mondo di Venere. Più lunge
Paghe contemplo d’una danza istessa
Pei domestici azzurri ire concordi
La tenue Vesta con le sue sorelle;
Figlie di madre fulminata un tempo,
Solo cognito a Dio. Veggo nell’ampio
Giove al confine de le curve lande
Il giorno tramontar velocemente,
E quattro lune illuminar le fredde
Rapidissime notti, e quattro lune
Specchiarsi a l’onda de le sue marine.
Per andamenti di più vasto giro
Privilegiato di maggior seguaci
Vedo Saturno dall’anello avvolto
Vïaggiar malinconico. Discerno

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Simile a scòlta sul confine estremo
Dell’imperio del sole, irto di geli,
Muto di lume il solitario Urano:
E via pel taciturno etere in fuga
Ire e redir Comete, inipazïenti
Visitatrici d’altri ignoti soli
Pari a Sibille, che, disciolto il crine,
Profetino terrori.

                                   “O Madre mia,
Più non ravviso la natal mia terra!
Dimmi ove gira, chè tuttor per due
Sepolture m’è cara, e per il fido
Amor d’alcuna creatura viva?”

     E a far pago il desio devía le penne
L’angelica mia guida, e da la veste
Semina fiocchi di cadenti stelle.
Volti di novo vêr le vie del sole,
Col dïafano dito Ella mi accenna
Lontan lontano un punto bruno.

                                                         “Madre,
Vedo una cosa piccioletta in fondo
Movere là nel vano: è forse quello
L’orbe superbo de le nostre patrie
Dai mar, dai monti, dai deserti immensi?”

     “Sì; quel granel di polvere che vola
Là giù, è la Terra. E pari a le funèbri
Che fra poco vedrai larve di mondi
Qua e là disperse, anch’ella quando fia
Piena la cifra de’ suoi dì fatale,
Così travolta andrà per lo infinito.

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Svanirà l’acqua che la bagna; l’aura
Che la circonda; nè scintilla alcuna
Più nel suo grembo celerà di foco.
Vedovata di piante d’ogni forma
Vivente, fredda, cavernosa, muta
Passerà in cielo come passa in mare
Naufraga nave, dove tutto è morto.”

     Qui la materna sapïente voce
Seguendo adir, l’antica de le cose
Notte mi narra, e la profonda requie
De la materia informe, e il primo guizzo
De la feconda luce; e de la vita
Le origini, e il cessato Eden col fallo
De la fragile madre; e la vicenda
Di servitù, d’affanni e di vittorie
Predestinata a le venture stirpi,
Con rapita canzon mi vaticina.
Nè piango io, no, chè lagrimar pupilla
Immortale non può; ma sento un’acre
Reminiscenza del versato pianto.

     Poi rïaperto il vol esco dai mondi
Ove domina il Sole: e lui che immoto
Credeva, trascinar miro in arcana
Fuga il corteggio de le serve sfere
Verso la via dell’Ercole celeste.
E nuovo etere passo; e là saluto
Le due famiglie de la gelid’Orsa
E quel provido e fisso occhio d’amore
Che il porto accenna a le raminghe vele.
Valico i regni, dove il trino splende
Sodalizio dei re: m’accosto al Sirio

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Che i Sabei d’Orïente affascinava
Pastor contemplativi, inclito lume,
Il fior più bello dell’april dei cieli.
Odo piover dall’alto una dolcezza
Di profuse armonie, che manda, tocca
Dal suo custode Cherubin, la Lira.
Sotto lo sguardo del Signore io vedo
Entro a fecondi albóri nebulosi
Comporsi giovinetti astri e lanciarsi,
Come gazzelle, a le prefisse curve.
E tratto tratto sulla via mi scontra
Un raggio rapidissimo che cala
Da una stella per tanto etra divisa,
Che pria mille fien vôlti anni a la terra,
Che scenda al tocco di mortal pupilla.
E sempre ch’io m’innalzi entro i silenzi
Di quegli azzurri spazi interminati,
Mi sorride novello un tremolío
D’isolette di luce; e qual si pinge
Come il giacinto e la vïola, quale
Veste le tinte de la cener mesta,
Od incolora le seguaci sfere
D’un incarnato languido di rosa:
Poi che non cresce solamente il giglio
Sui costellati campi del Signore,
E tutto splende, e tutto danza in quella
Festa dei cieli, e tutto fugge a volo;
E Dio solo conosce a quale arcano
Porto tenda il creato, e quando fia
Ch’ivi riposi dal fatal vïaggio.

     Oh! potessi io, poscia che avrò veduto
Si addentro l’universo, un’ora sola

[p. 153 modifica]

Rinascere a la terra itala, e sciôrre
Rivelator di meraviglie un carme
Nobile, forte, non caduco, e novo!...

     O Maria, dove sono? e chi per tanta
A spazïar serenità di cieli
Rapiva il nato dall’argilla? E pure
Sogno questo non è; non è baldanza
Di fantastico volo. Iddio, connessi
In un mistico nodo anima e polve,
Come cavallo e cavalier, li avvía
A le venture d’una corsa istessa.
E perenne è la lotta, e le cadute
Vituperose, e splendidi i trionfi.
Con la valida voce ora i galoppi
Domina il sire: con obliqui slanci
Ora il cavallo il cavalier trascina.
Passan, così congiunti, profumate
Curve di colli e selve paurose,
Squallidi stagni e fruttuosi piani
Fino a quel dì, che estenuato, esangue
Cade il corsier; e del nitrito estremo
Fa il portico sonar d’un cimitero.
Libero allora il cavalier si leva
Affacciandosi a Dio che le cadute
E le vittorie numera...
                                            Maria,
Tu dèi saper, che ne le serve etadi,
Mazzeppa avvinto a corridor selvaggio
Dagli oppressori, sanguinando passa
Il genio, e a la dimora ultima anela.