Canti (Aleardi)/Lettere a Maria/I. L'invito
Questo testo è completo. |
◄ | Lettere a Maria | Lettere a Maria - II. L'immortalità dell'anima | ► |
I.
L’INVITO.
O mia povera Amica, e tu nascevi
Tra i felici del mondo! Or va’, ti fida
Ne le impromesse d’una culla d’oro!
O mia povera Amica, allor chi mai
Detto l’avría, che dopo lunghe e acute
Amarezze di giorni immeritati,
Fiumi e dirupi valicando e valli,
Qui voleresti a confidente nido
Colomba malinconica? L’olivo
Sia teco eternamente, o mia colomba.
Chi l’avría detto mai, che l’uno all’altro
Così incogniti pria, poi tanto cari,
D’una robinia americana al piede,
Stranieri all’ombra d’arbore straniero
Qui ci uniremmo per versar del pianto?
Le son fila d’Iddio. Ecco venimmo
Simili a due romei, per sciorre il santo
Voto d’insieme consolarci; e invero
Qualche cosa di blando ebbe quell’ora
Che lagrimai su la tua testa bionda!
Taci, o Maria; non mi ridir le tue
Faticose venture; io le so tutte,
Tutte, anche quelle che non m’ài narrate;
Però che quando molto ama, è talora
Di quel che passa a’ suoi diletti in core
Profetessa fedel l’anima mia.
Oh! quel dir: sono sola, e a me le feste
Fûr de la madre incognite, nè mai
Un giovinetto mi chiamò sorella;
E crebbi, e piansi, e a pianger mi nascosi
Perch’ero cinta da persone ignote:
E non possiedo altro che qualche sacro
Tumulo qua e là disseminato
Per i campi d’Italia; e un sentimento
Sempre patisco di paura, a starmi
Come perduta sovra l’ampia terra...
Oh! quel dir: son così, povera donna,
Sola soletta... è pur un gran dolore!
Oh sì, piangi, o Maria, chè questo fumo
Di progenie superba altro di suo
Che il dolore non à. Nell’agitarsi
De le pro celle l’oceàn feconda
La perla a le conchiglie; e ne lo scuro
De le secrete sue battaglie il core
La perla de le lagrime matura.
E queste tue, Maria, le troverai,
Credilo a me, da un serafin riposte
Ne la corona che t’aspetta in cielo.
Anch’io, vedi, son triste; e in fastidita
Solitudine vivo; ed era, un tempo,
Come allegria d’allodole pel cielo,
Giocondo il volo de le mie giornate.
Una fronda d’ulivo benedetto
Pendea custode a’ miei placidi sonni,
Chè ne la festa de le palme allora
Io pregava! Una vispa rondinella,
Lasciate le sue case in Orïente,
Santificava l’ospital mia trave;
E co’ suoi rondinini io m’addormía.
Quando pei lembi de le sceme imposte
Il primo albor del ciel s’intromettea,
Sentiva un bacio intiepidirmi il viso;
Era mio padre che venia per uso
Con quella sua carezza a ridestarmi
Soavemente, si che amore e luce
Fûr le primizie de le mie mattine.
Non piangere, o Maria! Cantando allora
Scendea nell’Orto rorido di stille,
L’alba negli occhi, e l’avvenir davanti;
Ed aspirava da per tutto Iddio.
Poscia un fiore coglieva, il più soave
Abitator de le modeste aiuole,
E sul guanciale de la madre mia
Lo posava, però che quella santa
Dopo i suoi figli e il padre dei suoi figli
Amava molto i poverelli e i fiori:
E il bacio avuto deponea sul fronte
Purissimo di lei. Quegli eran giorni!
E la vita mi parve una catena
Di carezze, di fior, d’inni, di raggi,
Di cui le anella si perdeano in cielo...
Oh! basta, basta! Piangi ora, Maria;
Chè que’ due benedetti io li ò perduti,
E non è mia neppur, là, in riva al fiume
La casa ove son morti.
Ahi! dopo tanta
Serenitade irruppero qui dentro
Le cento febbri dei vent’anni. Il baldo
Desío d’un nome, i rotti studi, il folle
Vaneggiare in canzoni confidate,
Siccome foglie di sibilla, al vento,
E ai delatori. Incominciâr le audaci
Idee, le notti vagabonde e i forti
Proponimenti ne le calde cene;
Ma più che spuma sul bicchier fugaci:
E al quetar dei tumulti uno scorato
Precipitar da le sognate altezze,
E ne la intiepidita anima il duro
D’una patria perduta accorgimento:
Incominciâr le ardenti ansie nei sogni
Letificati da una bella rea;
E per un breve piè, per una ciocca
Nera su i gigli d’una spalla nuda,
Quel prodigar del cor le nove e sante
Esuberanze; e l’agile vicenda
De le fedi tradite, e il pentimento.
Ahi! che allora, o Maria, nel fior del campo,
Ne l’andamento de le liete stelle,
Nel rossor dei tramonti meditati,
Ne l’eterna d’un fiume onda che passa.,
Ne la eterna che sorge alba dal colle,
Svïato il core non trovò più Dio.
Ma una pia ricordanza, un delicato
Rimpianto un dì mi trasse ad un romito
Cimitero di villa. Ivi due croci,
Smosse dal tempo, ti parean chinate
Ad abbracciarsi: un vivo caprifoglio
Con la salita de le verdi spire
Unite le stringea, quasi che avesse
Discernimento. Ivi trovai la calma
D’uno che prega: e risentii presente,
Tra mezzo i solchi della morte, Iddio...
Grazie, grazie, miei padri!!
Odi, o Maria:
Noi siam qui soli, poveri, sdegnosi
De le fatue cittadi, e a le serene
Gioie anelanti, che non dona in terra
Che la casa materna e la diletta
Famiglia d’ogni giorno. Or bene: in questa
Via che ne avanza dell’esilio amaro,
Se mel concedi, io ti verrò secondo.
Ti fascerò di bende il faticato
Piede, perchè non sanguini: coi molli
Muschi raccolti su l’ombrose ripe
Farò sponda a la tua splendida testa
D’Italïana: a süaderti il sonno
Ti canterò la mia canzon più bella.
Quando il sol brucerà per la campagna,
Ricovreremo all’odorosa tenda
Di mite acacia; chè potrebbe il raggio
Tingerti in bruno: ove dall’erte rupi
Traditore ne incolga il tempo nero,
Di fresco alloro ti farò ghirlanda;
Così reina o poetessa andrai
Rispettata dai fulmini le chiome:
Sovra un desco di rose o di vïole
Ti frangerò il mio pane; e quando lassa
Sotto l’arsure mi dirai: "Fratello,
Ardo di sete" io cercherò le lande
In traccia d’acque vive: e se la terra
Non le consente, ti corrò pei solchi
L’onda del ciel nel calice dei fiori.
Che Dio prepara all’augellin che migra.
Sarà giorno di festa il di che ridi;
E se tu piangi, contemplando afflitto
Su le tue guance vereconde il pianto,
Mi scosterò tacendo, e in rispettosa
Lontananza sul campo inginocchiato
Pregherò Dio, che il tuo fardel d’affanni
A le mie spalle imponga. Oh tu non anco
Sai quanta invidia delicata io porti
Alla gentil virtù del Cireneo!
Ma perchè il casto e azzurro occhio reclini
E vai celando con la man di neve
L’esitanza che in porpora ti pinge?
Ti comprendo, o Maria. Per farti lieta,
Rea non sarai; però che sempre è mesta
Quella letizia che di colpa odora.
Profondo abisso dagli umani aperto
Ne divide, lo so. Miseri e stolti!
Questa progenie d’esuli che fugge
Verso il sepolcro, quasi scarso in terra
Fosse il dolore, à meditato molto
E in sapïenti veglie à impallidito,
Per comporsi altri affanni. E ai capricciosi
Moti del suo pensier, spesso discordi
Dal pensiero di Dio, diede il superbo
Nome di legge, e fe’ languire in tetra
Prigion coi piè dal ferro illividiti
Chi la frangea. Si dolsero i Celesti,
Antiveggendo le catene e il danno
Che il morta! si tesseva imprevidente.
Ma intanto i figli a questa del passato
Non consentita tirannía ribelli
Coi codici degli avi ereditâro
La scala dei patiboli e l’infamia.
Mia non sarai. Ti chiamerò col nome
Placido di sorella; e mi parrai
Fiore di cielo; simile alla rosa
De la mistica val di Casimira,
All’amoroso rosignol contesa.
E pèra il dì, che volta all’orïente,
Quando nasce il più vago astro dei cieli,
Tu non gli possa dir: "Stella Dïana,
Al par di te purissima mi levo."
Fidati a me. Vedi laggiù sul terso
Orizzonte del mar quelle due verdi
Isolette vicine? Elle divise
Per grande abisso, fin dall’ore prime
Del creato son là. Sempre alle stesse
Avventure consorti, il sol le scalda,
L’onda le bacia, le flagella il vento,
E la pioggia le bagna: e l’una all’altra
Sorridon liete, e l’una all’altra invia
Un saluto di balsami e di canti...
Si guardan sempre, e non si toccan mai.
Vedi lassù nel ciel romitamente
La luna andar, come una mesta? Ed ella,
Da che volò la prima ala del tempo,
Con la terra amoreggia. Un’infinita
Lontananza di freddo aere le parte;
Pur fra i silenzi del vïaggio arcano
Si seguon sempre e si verran compagne
Il Signor lo sa quando. E ne le notti
Si scambiano un saluto: alternamente
Con favella di luce; ed ogni giorno
S’intendono coi palpiti del mare...
Si guardan sempre, e non si toccan mai.
Così noi due soletti pellegrini
In vicinanza coraggiosa e monda
Malinconicamente esuleremo.