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capo xix. 57

e ricchezze alla sua casa, covavano tuttavia alcune secrete faville e le fomentavano i Curiali e i gesuiti da una parte, e dall’altra non era senza colpa Frà Paolo e i suoi aderenti, sempre intesi ad offendere le parti più vitali della corte pontificia; e si aggiunsero fra mezzo i maligni uffizi di Alfonso della Queva marchese di Bedmar, ambasciatore a Venezia pel re di Spagna, venutovi sino dal 1607, dotto, scaltro, di finta religione, dissimulatore profondo e infensissimo alla Repubblica.

(1611). Con questi incentivi rinacque nel 1611 la contesa di Ceneda, di cui ho memorato i principii al Capo VII. Leonardo Mocenigo succeduto al suo cugino Marcantonio non assunse titolo di principe, ma quello neppure di conte, e semplicemente si fece chiamare vescovo di Ceneda. Occulto artifizio, perocche il vescovo, come vescovo (così allora) non essendo soggetto alla potestà secolare, sì solamente alla pontificia, poteva fare tutto che voleva senza che il Senato vi s’intromettesse. Infatti pubblicò nuovi statuti ne’ quali essendo omessi gli atti sovrani della Repubblica, venivano implicitamente ad essere abrogati; e invece v’inchiuse atti di vescovi suoi predecessori, coi quali statuiva che nissuno nè in prima istanza nè in appello potesse ricorrere ad altri che al giudice ecclesiastico. E così tornarono in campo le vecchie pretese, che Ceneda era feudo della Chiesa, e che non che i vescovi fossero dipendenti dalla Repubblica, era anzi la Repubblica vassalla dei vescovi. Il papa, come è naturale, si decise a favore del prete, e sostenne che Ceneda era sua.