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LIBRO SESTO | 295 |
L. Già il corpo, già le forze abbandonavano Tiberio, ma non l’infingere. Col medesimo fiero animo, volto e parlare, e tal volta con piacevolezze sforzate, copriva sua manifesta mancanza. A ogni poco mutava luogo: e finalmente al Capo di Miseno nella villa già di Lucullo1, si giudicò2. Quivi la sua fine venuta si conobbe così: Soleva Caricle, gran medico, ne’ mali del prìncipe, se non medicarlo, dargli consigli. Venne a lui, quasi per sua bisogna, e presol per mano, come per amorevolezza, gli tastò il polso. Ei se n’accorse, e forse adirò; ma, per non parere, fece venir vivanda, e si pose fuor del solito a mangiare, quasi per onorar l’amico nel suo partire. Caricle accertò Macrone che il polso mancava, e non ve n’era per due giorni. Adunque quivi trattando, e fuori spacciando, agli eserciti, e a tutto provvidero sollecitamente. Alli sedici di marzo misvenne: e stimandosi passato, C. Cesare con gran turba di rallegratori uscì fuori per farsi, la prima cosa, gridare imperadore. Eccoti nuova che a Tiberio torna vista e favella, e chiedea cibo per ristoro del
- ↑ La comperò fiorini cinquantamila dugento da Cornelia, che l’aveva comperata settemila cinquecento dalle rede di Mario: tanto crebbe, dice Plutarco, in sì breve tempo la ricchezza di Roma e la pompa.
- ↑ Si fermò nel letto caduto e abbandonato senza più forza, balia, o gina da poter muoversi. Questo significa, giudicarsi.
lingua nostra n’è vaga e piena. Sono cosa gentile, e fanno nell’uditore più effetti buoni; impara senza fatica quello che non avrebbe trovato egli: maravigliasi, rallegrasi, e pargli esser amato; perchè chi noi non amiamo, non ci curiamo di tener allegro.