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LIBRO SESTO 289

città poste da’ Macedoni con grechi nomi, e Alo e Artemita, città de’ Parti; allegri l’un più dell’altro d’avere scambiato la maladetta crudeltà d’Artabano allevato tra Sciti, alle piacevolezze sperate da Tiridate condito di gentilezza romana.

XLII. Adulazione grandissima trovò in Seleucia città potente, murata; la quale non imbarberita, ma ritraente dal fondator suo Seleuco, di trecento de’ più ricchi e savi fa come un senato. Il popolo vi ha la sua parte quando son d’accordo, si fanno beffe de’ Parti; quando si recano in parte, l’una contr’altra chiama aiuto, e ’l chiamato si fa di tutti signore: come dianzi avvenne, regnando Artabano, che sottomise la plebe a’ grandi, a suo prò, essendo l’imperio popolare vicino a libertà, quel de’ pochi a tirannia. Or venuto Tìridate, l’esaltano con li onori usati ne’ re antichi e altri moderni più ampi: e svillaneggiavano Artabano, dicendolo di madre Arsacido, tralignante nel resto. Tiridate lasciò Seleucia a governo del popolo: e consultando del quando incoronarsi, ebbe lettere da Fraate e da Gerone governanti il forte del regno, che lo pregavano d’aspettarli un poco. Non volle a questi barbassori mancare; e andò e Tesifonti, residenza dell’imperio. Mandandola essi d’oggi in domane, Surena lo incoronò con le usate solennità, presenti molti e approvanti.

XLIII. E se nel cuore del regno, e altri sudditi, si presentava incontanente, non v’era che dire; cedeano tutti. Baloccatosi1 nel castello con le femmine, e’l tesoro che vi lasciò Artabano, diede tempo

  1. Così non fece Tiberio, che mai non fu lento a impa-