Annali (Tacito)/V
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LIBRO QUINTO
SOMMARIO
- Anno di Roma dcclxxxii. Di Cristo 29.
Consoli. L. Rubellio Gemino e C. Fulvio Gemino.
- An. di Roma dcclxxxiii. Di Cristo 30.
Consoli. M. Vinicio e L. Cassio Lonigno.
- An. di Roma dcclxxxiv. Di Cristo 31.
Consoli. Tiberio Augusto.V e L. Elio Seiano.
I. L’anno che furon consoli Rubellio e Fufio, amendue Gemini, morì Giulia Augusta decrepita, di nobiltà chiarissima, nata de’ Claudj, nei Livj e ne’ Giulj adottata. Prima moglie, con figliuoli, di Nerone; il quale per la guerra di Perugia Tiberio scacciato, per la pace tra Sesto Pompeo e li Triumviri tornò a Roma. Indi Augusto per la bellezza la tolse al marito, forse accordata; e, senza aspettare il parto, la si menò a casa gravida. Non fece altri figliuoli; ma congiunta per lo maritaggio d’Agrippina e Germanico col sangue d’Augusto1, ebbe seco i bisnipoti comuni. Tenne la casa con santi costumi antichi. Fu piacevole, più che non lodavano le donne antiche; moglie agevole, superba madre, alle voglie del marito, con la simulazione del figliuolo, accomodatasi. L’esequie furon piccole; il testamento tardi osservato. C. Cesare suo’ bisnipote, che succede imperadore, la lodò in ringhiera.
II. Tiberio non ne lasciò pur uno de’ suoi piaceri; e per lettera si scusò co’ Padri che non era venuto all’onoranze di sua madre per li molti negozj: e delli tanti onori che le davano, ne ammesse pochi, quasi per modestia, avvertendo essersi vietato ella onori celesti2. Riprese in un capitolo della lettera questi tanto donnai; piccando Fufìo consolo, stato tutto d’Augusta, grazioso alle donne, malalingua, e usato ridersi di Tiberio con motti amari, che i principi li tengono a mente.
III. Quindi il governo fu più violento e crudele, perchè, vivente Augusta, v’era dove ricorrere, avendola Tiberio sempre osservata: nè Seiano ardiva entrarle innanzi; ora quasi sguinzagliati, corsero a mandare al senato una mala lettera di Tiberio contra Agrippina e Nerone. Credettesi mandatagli già, ma ritenuta da Augusta; poi che non prima morta, fu letta. Eranvi parole asprissime: non arme, non voglia di novità; ma amori di giovani rinfacciava al nipote e disonestà. Questa alla nuora non osò apporre; ma testa alta e superbo animo. Il senato allibbì. Poscia alcuni di quelli che non isperando nelle vie buone, entrarono in grazia per nuocere al pubblico, domandarono che la causa si proponesse; e Cotta Messalino accivito iscoccò sua sentenza atroce: gli altri principali, e massimamente i magistrati, tremavano, perchè la lettera era adirosa, ma nulla conchiudeva.
IV. Giunio Rustico, gran-cancelliere del senato fatto da Cesare, perciò creduto sapere i suoi pensieri, non so per quale spirazione (non avendo prima dato saggio di forte, o fosse per sacciutezza temendo il male futuro, e non il presente) si frammesse, e i consoli dubitanti confortò a non la proporre; allegando, in poco d’ora il mondo voltarsi, e doversi dare al vecchio spazio al pentirsi. Il popol di fuori, con l’immagini d’Agrippina e di Nerone, accerchiò il senato, e ben’augurando a Cesare, gridava: „Quella lettera esser falsa; non volere il principe che si rovini casa sua;„ onde niuno male quel giorno si fe’. Sentenze andavano attorno, sotto nomi di consolari, contro a Seiano; sfogandosi mascherati (tanto più mordaci) gl’ingegni; onde gli cresceva ira e materia d’accuse: il senato disprezza il dolore del principe; il popolo è ribellato: odonsi e leggonsi nuove dicerie de’ Padri, che altro resta loro che prendere il ferro, e quei far capi e imperadori, le cui immagini si portano per bandiere?
V. Cesare adunque replicò obbrobri della nuora e nipote; garrì per bando la plebe: e doltosi co’ Padri che, per inganno d’un senatore3, la maestà dell’imperio fosse beffata pubblicamente, avvocò a sé tutta la causa. Essi non fecero che dichiarare che volerano punirli (non di morte, che era vietato), ma il principe gl’impediva;4 sotto al giogo pria chini, ora prostrati.
VI. Inorgoglito Seiano da tal piegar del principe e del senato, ma sempre debole, ove con intestine discordie non fea colpo, idee covava più atroci. Caso fosse o studio, la stessa trappola, che già a danni del sangue di Tiberio, contro la famiglia Germanico, gli riuscì; poiché Druso, alla figlia di L. Ottone pria promesso, sposò Emilia Lepida5, di nobilissima casa, perfida anima, al marito discorde, per l’odio di Cesare e l’ambizione di Seiano, più esiziale.
VII. In tanto sturbo dell’imperial casa, non allentò, crebbe anzi la pubblica frega d’accusare. Tiberio, d’indole crudo, e morta la madre, efferato, a sfogar la sì ripressa sevizia, amici e familiari di Giulia angosciò tutti; e a far più saldo coll’infamia del castigo il terrore, onde sentissesi che v’era per gli altri, un dell’ordine equestre, già tutto di lei, dannò alla tromba. Seiano poi più intoralo per satire e finti decreti, e l’avidità di spie e delatori stuzzicata da’premj, i primi cospicui prese di mira, e ne fe’ scempio, peggio che in civil guerra. Tutto era colpa; l’allegria del riso, i lai de’ dolenti, i più semplici scherzi, fin degli ebbri i sensi. Non v’era quartiere; ogni destro coglieasi da incrudelire; e lesta morte, o vil supplizio, era de’ rei la comun sorte.
VIII. Mentre sì Roma a sua rovina infuria, Gerosolima d’un forfatto sì fe’rea, di mille altri pregno, e d’un’iliade di mali. Ponzio Pilato reggente di Cesare in Giudea, da codardìa, non da crudeltà, mandò a morte Gesù Cristo, di nuovo culto autore, contro i petulanti Giudei accusatori provato incolpabile. Tremuoti, eclissi, franti macigni, parvero vendicarne la morte e contestarne l’innocenza. Egli, scoperchiata la tomba a vista delle guardie, vivo e sano risortone, di sua divinità fe’gran prova. Tiberio tutto veggente, il ravvisò, nol seguì.
IX. Sol pace curando, in calma ei tenea l’impero, o da fortuna o da senno; chè mentre con una mano gemer facea oppressa Roma, spandea coll’altra la tranquillità per tutto nelle province; a premiar parco, vindice dei torti acerrimo, raro invido, ma in timor sempre d’un merito distinto, generali e magistrati impiegando, buoni, non ottimi; da spirito di despotismo più che di gloria.
X. Sendo Consoli M. Vinicio, e L. Cassio, il mortal odio di Tiberio contro Agrippina e i nipoti scoppiò in fine. Declamava Seiano. „L’impunità fomenta de’ rei l’ardire; altro ómai che parole: fatti e libidini sfacciate; senato, milizia subornasi; Nerone ostentasi imperadore; Tiberio comanda in Capri, Agrippina in Roma.„ Cesare mal di sé padrone in gelosia di stato, duci, truppe, rafforza; scrive al senato: „Scoppiami il cuor di doglia, occulto incendio mi strugge; la nuora, il nipote, che tormento a me! che cruccio! che rossore! Numi dell’impero, fate voi tristi que’felloni, cui dar niegano i Padri condegna pena„.
XI. Smagati i senatori, per sottrarsi al vicin turbine, se alla cieca far man bassa o no contro Agrippina e Nerone, dibatton timidi; e con atroce decreto ne conchiudon la condanna; ma previo l’esplorar per sospesa ambigua rimostranza il principe: „Che penetrati al suo dolore, al suo rischio costernati, inorrivano a quegli eccessi; prontissimi a vendetta, se non era il suo cenno ch’avvocata a sè aveva la causa, e la maestà sovrana, che per la sua dignità non va a slascio, ma a rilento in punire. Nel periglio di Cesare, non sol de’ rei il supplizio volersi, ma scoprirne e dissiparne le trame.„
XII. Sicuro a tal lettera del rispetto de’ Padri, Tiberio manda centurioni a strascicar in ferri Agrippina a Palmarola, Nerone a Ponza. La fama dell’accuse, la celerità del castigo, colpì il popolo, nei subiti casi perplesso, nei sinistri peritoso. Agrippina di sè conscia, per impazienza e risentimento, non sa reggere al colpo, fa petto al centurione, inveisce contro Cesare. Quegli per segreta istruzione di malmenarla come sa, le pigia la bocca, l’orba di un occhio; conciliando a tal ardire fede all’accuse, ingerendo timore. Ne’disastri invitta, superiore alla fortuna, dell’indegna sua piaga stessa compiacesi Agrippina, persuasa aver sua meta l’enorme, e confinar colla rovina lo smodato poter di Seiano, di sì pazze atrocità autore.
XIII. Ma ei del buon esito di que’colpi altiero, volgesi a Druso; e, a rovinarlo, stiga Emilia Lepida, seco di stupro avvinta, sulla lusinga dell’affinità, e di dominare, al laido uffizio di spia. Ella, quanto libidinosa, audace, va al principe con più accuse contro Agrippina e Nerone; a’ vecchi odj, ai nuovi sdegni, mantice. Ne’ medesimi delitti Druso involge in parte scusato sulla verde età, e sul titolo di suo sposo, a far più breccia. Privo di difesa, è tosto tratto in Roma il giovine.
XIV. Sin qui era in porto Tiberio, non così Seiano; che temea d’un animo inasprito all’oltraggio, d’un pentimento in Tiberio: e di mal occhio vedea in piedi i due’ sostegni dell’impero6, e però a nuova istanza contro Druso suborna il vil Cassio Longino, console venale; rapportando egli al senato, il console a Cesare, che: „infellonito il giovane dal castigo, macchina novità, e con popolari brogli si fa partito de’ malcontenti.„ Rispose Cesare. „Il nipote, di minor pena indegno, si cacci ne’ sotterranei del palazzo sotto gelosa guardia: quanto fa e dice, si spii, si scriva, gli si trasmetta.„
XV. Seiano tanto più gioiante piegar vedea tutto ver sè lo scettro sostenuto da un vecchio e da un giovane imbelle;7 quant’ei sicuro pascea sua speme, Tiberio senza sospetti invecchiava. A più calmar l’ombroso suo animo, seco lui congratulasi, che con sua saggezza atterrato abbia l’ambizione, sodato il trono, sicurato l’erede, perpetuata la pace dell’impero. Cesare spregiar sapea l’adulazione: pur lieto accolse la loda di saggio, e fatto per regnare, e il più ne cesse a Seiano: confessandosi difeso e sostenuto, ristorato da sua vigilanza, ossequi, consigli: dicendolo, braccio destro, dell’impero, baston di sua vecchiaia. Onori v’accoppia, onde per dignità sovrasti uom sì importante.
XVI. Qui in moto tutti ad onorar Seiano; con ambasciate, congratulazioni, voti, suo zelo ostenta il senato, gli equestri, il popolo, la plebe stessa, nelle novità scapestrata. Nel foro, in tempj e caso, ergonglisi statue; fuman qua e là altari: si celebra il suo natale: giurasi per la fortuna di Tiberio e di Seiano: pregansi gli Dei per il principe, e per l’amico del principe; pari in onore, differenti al nome a pena.
XVII. Per giunta di fortuna vennero dalla sua Asinio Gallo, e Lentulo Getulico. Quegli, non so se per padre e moglie, o per prole, più cospicuo, si diè a far la corte a Seiano, a comprometterglìsi degli uffizj de’ Padri, tanto più ardente, che per le prefate cagioni era a uggia a Tiberio; questi, Legato delle legioni dell’alta Germania, ad ambir la parentela di Seiano, ed ottenerla di saputa del principe,8 a far pompa dell’esercito che dava a’ generali il nome, pegno e premio della parentela. Non fu mai sì alla meta Seiano, ma più in alto, più in pendio, sforzarvisi potè, non toccarla. Come in altro non si scoprì meglio Tiberio per la fina volpe ch’era, nè esempio han gli annali più sonoro e memorando; porrò a sporlo più cura.
XVIII. Tiberio invecchiando, e invasato in libidine, pur attento allo stato, i vizj stessi servir facea di velo a’ suoi disegni, e a sicurarsi il trono. In vista scioperato, lasciava far a Seiano, ma più che mai oculato a spiarlo a fondo; volendol sozio al governo, temendolo rivale. A sue ombre diè corpo l’affinità di Getulico, e più, le premure d’Asinio: e con arte sopraffina la stessa cagion di timore gli valse alla tanto meditata ruina d’Asinio; ma sì, che più fedele, se l’era, ne tornasse Seiano: se fellone, se ne tardasse l’effetto.
XIX. Risoluto dunque Asinio di colmar di nuovi onori Seiano, e di consenso de’ Padri ito in campagna per oracolo a Cesare, venne spaccio del principe a Roma che Asinio accusa di turbolento, di berton d’Agrippina, che del suo Siriaco non pago, torli volea l’amico in Seiano: sia però tosto in ferri, e sotto guardia de’ consoli o de’ pretori, consolo il principe. Certi i Padri ch’è delitto con Cesare l’indugio, mandan ratto il pretore a catturar Asinio.
XX. Egli in niun sospetto, e dal principe ben accolto, lieto sedea seco a mensa, quando l’ordine giunse del senato. Impallidì il commensale e reo insieme del principe; e pensava già a darsi morte per ben de’figli. Il rincorò Tiberio, e l’esortò a scolparsi da bravo, sulla certezza della grazia del senato, di Seiano e sua. Ma giunto a Roma, nè accordatagli difesa, sequestrato da tutti, di speme nudo, vien chiuso, datogli quanto sol bastasse a non morire. Più venturoso fu per lesta morte il dotto Siriaco, nulla reo, sol mal veduto per l’amistà d’Asinio. E ben era grazia l’esser estinto in sì rea stagione, in cui prese ad inberir colla stessa vita il tiranno, e farla d’ogni morir più amara; non mai più crudo, che quando risparmiandola, lungi tenea la morte, ultimo ristoro de’ mali, per far vivere di puro stento.
XXI. Intanto Tiberio più alto mirando, e delle stesse attenzioni di Seiano in sospetto, l’arte studiava da leggere in ogni cuore e stabilirsi in trono; e Seiano esplorava, n’esaminava la cera, i detti, i fatti, i pensieri stessi d’indagava. Sperto dell’uomo, e com’ei sia ne’ sinistri guardingo, cupo in dubbietà, fuor di sè tutto in fortuna, questa fa giocare per sicurarsi di sua fé, se leale; se falsardo, stiacciarlo sotto il peso de’ favori. Non sì caro mai Seiano; a fianco sempre e confidente del principe; per l’assiduità nelle cure, vigor d’animo, rara modestia, di nuovi onori tutto dì soverchiato; a parte de’ segreti e del governo; designalo console, al principe collega; accordatagli Livia pria negata; ogni arra al trono ei riceve, perché più certo ne sia fuori.
XXII. Ei di contramminare ignaro, a incensar Cesare, spregiar Caio, mostrar ambizione, adonar chi odiava, accorre i voti dei clienti, molto dare, più promettere, col lusso ed odio abbacinar Tiberio, di ciò lietissimo; che presagiasi in breve dall’incauto, d’onor tanti rigonfio, più certane tracce di suoi disegni.
XXIII. In questo gioco di fortuna e furberia del sospiccioso principe, Velleio Patercolo9, ingegnosa elegante penna, ma soro, di lode e favore avido, in breve libro le gran geste del popolo romano epitoma, accolta mostrando in Tiberio, sostenuta da Seiano, la maestà dell’impero, con vittorie tante in tanti secoli procacciata, eternando in iscritto a sommo sfregio di suo nome e della storia l’adulazione, infame anco in parole volanti del fato e dell’odio seianiano affatto degno, e d’ogni censura ma che per gl’ingordi di lode e venali autori, pochi d’ingegno rivali, dell’adulatoria viltà molti, con pari brobbrio, avrà sempre.
XXIV. Tiberio Cesare la quinta volta ed Elio Seiano entrano in consolato, vivissimamente, ma a diverse mire, da ambi cerco: Tiberio a Capri, Seiano a Roma. Più lieta e pomposa non apparve ella mai. Fisa nel console, in cui vedea il suo vicin padrone, obliato quasi il principe, a Seiano si prostra tanto più umile, quanto facile a piccarsi, a cattivarsi arduo, superbo alla fierezza, irreconciliabile, è uom di fortuna. Tutti alle soglie del consolo a farsi notare da’ liberti ed uscieri, a contemplarlo, fargli corona ed inchini, entrare a un suo motto o cenno in alte speranze. Ognun l’acclama, lo celebra: e chi in quei saggi di schiavitù adorar vergognasi di persona quel nume, ne adora senza ribrezzo l’immagini.
XXV. Nulla stupì a tant’ardor di Roma Tiberio, ma v’aprì gli occhi: e a L. Pisone, di censoria casa, accettissimo pel sì raro nesto di mollezza e virtù, e per sua disinvoltura nei più ardui maneggi, partecipe del segreto di stato nella prefettura di Roma, ingiugne che vegghi; ed ei, destro rintraccia i colloqui del consolo, gli ossequi de’ senatori, i voti de’ cavalieri, i parlari del popolo, ogni novità; l’offese dissimulando, per aver più in mano, onde far poi sangue. Nuova materia d’ossequi aggiugne anco, raccomandando con lettera al senato la fede e le cure di Seiano, cui noma gran sostegno ne’ più gran pesi, socio dell’impero, Seiano suo.
XXVI. Il console o per gratitudine al fiero principe, o per farlo odioso, dà contro a’ primari da lui nimicati; e a torto processatili, li uccide. Geminio Rufo tra loro, accusato di ribelle, va in senato, e per render propizio Cesare a’ figli, lessevi il testamento, che partendo l’eredità, ad essi l’uguagliava; atto che non parve da forte. A casa poi tornato, anzi la condanna, aspettando il questore colla fatal intima; a vederlo, ferissi a morte, e la piaga additando: „Rapporta, disse, al senato come si muor da uomo.„ Publia Prisca, del marito emula, citata, presentossi in senato, e con un pugnale recato ascoso, dandosi, vi restò.
XXVII. Seiano, or che per tanti assassinj il solio golava, caso fosse o arte, miserò più in frugnolo i Padri; che dal suo favore, e da’ dispacci di Cesare, mossi, consigliano d’un capo d’opera d’adulazione. Parve sommo onore, ma breve, il consolato, e però ben fatto prorogarlo: e vinse, che Cesare e Seiano per cinque anni il continuassero, e al lor entrare in Roma escisse incontro il senato. Non avvezzo ad onori, nè vedendo periglio a salir di volo, abbaglia Seiano la lunga dignità col vecchio principe, e spera già toccar il cielo.
XXVIII. Ma letto Cesare il decreto. „Gatta ci cova,10„ disse tra sè; pure a non fomentar l’ambizione o la facilità, e a non irritar con ripulsa, rispose, „In tanta copia d’ottimi senatori, nell’auge dell’impero, provvidero da saggi i maggiori a non far pur d’un anno il consolato; prolungandosi a cinque, mancherebbe a’ gran soggetti di virtù il premio, alle province i capi; è a decretare, non quel ch’è più onore a me, al mio Seiano; l’onor della repubblica è sovra ad ambi.„ Finì qui di salir Seiano a prezzo di tanti delitti; dà giù omai, da perir con rovina pari all’altezza.
XXIX. A’ 9 maggio furon sostituiti consoli Cornelio Sulla e Sestidio Catullino. Seiano uscito pur di dignità, pari al principe di potere, fe’ di tutto per ire a Capri, a più certo cattivarsi con ossequi il vecchio, o a più facilmente opprimerlo, se vi fosse modo. Sue ragioni eran, Livia inferma, lunga assenza, sue premure per Cesare. Tiberio, più scaltro, oppose gli affari urbani, e ’l suo ritorno a Roma; tosto con lettera al senato pugne di balzo Seiano, ove lodandolo così così, ove maligno tacendone. Indi a stimolo, e freno insieme degli animi di novità vaghi, or fingesi egro com’è d’anni e di mali, bisognoso d’altrui mano in cure più gravi; or dice di venir in breve, rimesso che sia di forze e di salute, in Roma, al timon della repubblica.
XXX. Pochi di buon naso l’animo del principe subodorare; il resto non vedea che la sovrana potestà tra Cesare e Seiano divisa; e Seiano stesso, se ben tra speme e timore, pur lieto paseeasi della lusinga del trono, cui non ispoglia mai l’ambizioso. Cesare, a cavarli in fin dal cuore l’intimi sensi, cogli onori e coll’emulazione gli dà assalto; lui e ’l figlio alzando al sacerdozio con Caio, cui chiamò a Capri, e tosto presa la toga, preconizzò erede. L’emolo giovane, già in fortuna, e ’l trasporto del popolo per la casa Germanico che ridava su, punse d’invidia Seiano. Ma i Padri, a vil ossequio portati sempre, e niente politici, il decretaron proconsole; e proporlo stimarono modello de’ consoli avvenire: giunta d’onore, servile adulazione che medicò la piaga. Tosto però lo sgomentò Tiberio, assolvendo di Spagna, e d’altrove, i rettori a Seiano avversi, e sotto processo.
XXXI. Qui a pentirsi, che da console, quando Roma gli era schiava, stettesi a bada; se non che la dubbia speme rianimò alquanto lettera di Cesare a’ consoli, ove nominato, pur senza loda, Seiano, fulmina contro Nerone, più che mai d’onte carco, sentenza di ribelle e di morte. Ma l’imprudente gioia per la sospirata esecuzione, presto Cesare ripresse, e più terrore ispirò che sapendo, scema la venerazione, cader di pregio uom più che di virtù, di dignità cospicuo, fe’ legge: non si sacrifichi a mortale: negli onori stessi del principe siavi modo, né sen proponga di nuovi. E sfatava e’ di vero tali ossequi, più di sovranità che di religione geloso; ambivali ben Seiano, di sé stesso e adoratore e nume, cui di scala era al soglio religione, ignaro che tal si cole ch’è in più odio e spregio.
XXXII. Tolto a Sciano il culto, e sveltegli bel bello le penne maestre, più vivo affetto ebbesi a Caio, e a Tiberio stesso, di Germanico al sangue più benevolo. Lieto di tal disposizion di Roma Cesare, certo dell’erede, di sé sicuro, diè la stretta a’ Seiano, da palesarsi fedele o perfido: e a’ suoi intimi fa processo, e dà morte, alla tranquillità dell’impero più che mai inteso. Col dissimulare e soffrire vinceala Seiano coll’ombroso principe; ma pressavano di colpe gravidi i Fati, che lo sconsigliato stigarono a congiura. Caduto di speme, accanato, fremente, de le pretorie coorti baldo, senatori, equestri, liberti complici odiosi al principe, solleva e ’n empia lega intrica; più fiero insieme e più felice, per non rinculare da malurie ch’allor correano. Orror del misfatto, o speme di premio che fusse, la congiura Satrio Secondo, creatura di Seiano, aprì ad Antonia.
XXXIII. Questa, per maschia anima, e amore a Caio nipote, con lettera per Pallante suo schiaro de’ più fidi, il principe ne fa saggio. Parato pur qual era a tutti eventi e casi, gelò Tiberio al periglio; ma col suo spirito uon balocca, qual si suole; e le più pronte vie studia da sventar la mina. Seiano aborrendo, de’ pretoriani in timore, non curando il resto, fermò cattivarsi con premj i pretoriani, infamar Seiano con vil morte; verrebbon da sé gli altri imbelli al maglio.
XXXIV. Eran consoli Memmio Regolo e Fulcinio Trione: questi per l’accusa di Libone, pel favor di Seiano, infame; l’altro non sì vivo, ma d’autorità e costanza egregio, e però scelto a trappolar Seiano. Chiama poi Cesare Sertorio Macrone segretario di stato: lo crea capitan della guardia; con piene istruzioni, e dispaccio mandalo a Roma, con avviso (a quel si disse) ebe nascendo in città rumore, e tentando l’armi Seiano, cavi Druso da’ sotterranei, e dielo capo al popolo.
XXXV. Entra a notte Macrone in Roma, i sovrani ordini a Memmio Regolo console, e a Grecino Lacone prefetto de’ vigili comunica: regola tutto a pubblica quiete, a sicurezza di Cesare, a sterminio di Seiano. Ma Cesare, persuaso nulla precauzione esser troppa in sommo rischio, fa allestir navi da rifugiarsi a caso disperato alle sue più fide legioni; ed ei d’altissima rupe a spiare i segnali ordinati, da escir per la più corta di speme o tema.
XXXVI. Surse in fine il feral dì. A’ 18 ottobre convocati i Padri, al tempio vennero d’Apollo, vicino al palazzo; e Seiano pure, cinto da’ pretoriani. Entra egli a palazzo, e scorto Macrone, stupisce a non veder lettera del principe; ma con rispetto da Macrone salutato, e’n disparte cennatogli del farlo Cesare collega nel tribunato, e che va a dare al consolo il dispaccio da leggerlo a’ Padri; entra al tempio, superbo d’essere omai alla meta. Palesa tosto a’ pretoriani Macrone, che darà a ognuno il principe mille danari, e ch’è egli il lor prefetto: entrato poi in senato e consegnato il dispaccio, torna a loro, con ordine di ritirarsi a quartiere. Della novità lieti più ch’ammirati, van via. Dopo che, di vigili il tempio cinge Lacone.
XXXVII. Qui fiamma, come gran globo, apparve e svani tosto; di volubile fortuna presagio a chi va dietro a inezie e prodigi. Poiché tra’ voti e uffici de’ Padri, che con Seiano congratulansi del tribunato, aperto il cesareo dispaccio, più cose Memmio Regolo circa la repubblica vi lesse; poche equivoche di Seiano, da’ Padri prese in bene; indi non so dire per lui di tristo, con loro stupore, e con dipartirsi da lui taluni: in fine più fieri sensi, e ordine di punir due senatori, di Seiano intimi, d’arrestar Seiano (ch’a non esacerbar gli animi, ne prescrivea in segreto la morte ); ei verrà in Roma a momenti: s’invii un dei consoli a scortar il vecchio principe, bisognoso d’appoggio, insino a loro; colla guernigion militare. Isolato di colpo, smarrito come in vasto abisso, impallidì Seiano: da’ pretori e tribuni di plebe cerchiato, agghiadò; alla chiamata del console, „Su Sciano!„, non da orgoglio, ma ad ubbidir non uso, e fuor di sé, nulla intese. Al secondo e terzo chiamar del console a mano sporta. „Su Seiano!„, levatosi semivivo, accorse Lacone, e ’l sostenne. Cangiata fortuna, a un tratto confuse grida e bestemmie de’ senatori gli sonan contro d’ovunque.
XXXVIII. Ma Memmio Regolo l’incertezza temendo de’ partiti e delle risulte, dimandar non osò il comun parere, nè chieder a morte il reo; pure, aderendoli un di loro, che si legasse, ordinò di legarlo, e dietro a sé, in mezzo a’ magistrati, è tratto in carcere. Franto il giogo di Seiano, Roma in trasporto a rigettar su lui l’enormità tutte del governo, a lodar Tiberio: la plebaglia, insolente più ch’è allo il reo essa più grama, a trionfare, a insultarlo, improverarlo, beffarlo di sue speranze, per più infamia scoprirlo in viso, lacerar l’effigie, spiantar le statue strascicarle, sfrantumarle, frenetici, qual se contro lui stesso si sfogassero. Ei ne’ laceri avanzi della prima fortuna, solo testimone di sua ultima catastrofe, è chiuso.
XXXIX. Nè più. Tenutosi alla Concordia senato11, cheto il popolo, i pretoriani a quartiere, decretò, si gratuisse con pronta morte di Seiano il principe; e caldo caldo speditovi il boia, da lui morto e gittato sulle Gemonie12, scolpò gli Dei, per la prosperità de’ suoi eccessi, tanto odiati, pe ’l suo rovescio più che per la fortuna famoso. Fin morto straziaronlo i Padri; e ad abolirne l’esosa memoria fer legge, non si pianga Seiano, ne si rada il nome da’ fasti e monumenti, ergasi nel Foro statua alla libertà: con questo di nuovo, che celebrisi festa da tutti i magistrati e sacerdoti; e ogni anniversario della morte, giochi e cacce a talento de’ quattro collegi di sacerdoti, e de’ soci augustali; in fine, onde più la repubblica esposta non sia a pari attentati, prescrissero, veruno più s’alzi ad eccessivi onori, nè per altri che per l’imperadore si giuri; pria nell’adulazione, or nell’onta soperchi.
XL. Roma intanto era tra due; lieti tutti da Seiano gli offesi, o trasandati, o i crucciosi dell’insolente fortuna; tristi e tremanti i complici, parenti, affini, amici. Ne’ quai garbugli, per quanto a tutti magistrati accomandasse Tiberio la guardia della città sollevatisi i pretoriani, irati perchè in fede e rispetto al principe, lor si preferissero i vigili: e fuoco e sacco per lor mano, e pel popolo violenze contro i caporioni della seianiana sevizia, e vendetta dei sofferti danni con più omicidj.
XLI. Queta già Roma, d’onorar il principe, e premiar Macrone e Lacone, trattossi. Il decreto fu: Nomassesi Cesare Padre della Patria: se ne celebrasse il natale con dieci pugne equestri e banchetto in senato: spedissersi Legati a Capri, senatori, cavalieri, e della plebe, col console Memmio, a congratularsi col principe di sue providenze e della pubblica salute. Di gran somme rimunerasi poi Sertorio Macrone e Grecino Lacone; a questo l’insegne questorie, a quello le pretorie accordandosi: e a Macrone, l’assistere tra’senatori agli spettacoli, e ’n pretesta a’ ludi votivi; onori da ambi rifiutati, per timore del fresco caso, più che per modestia.
XLII. Or Tiberio, da’ cennati segnali, poi da’ corrieri, inteso tutto, non più di sua sicurezza che del dissimular, lieto, l’arti addoppia, più che mai politico e geloso del segreto; nella villa di Giove13 nove mesi ascoso, la milizia s’obbligò regalando le siriache legioni, del non aver onorata fra lor insegne immagine di Seiano: i Legati del senato nè pur li ammise: rifiutò Memmio Regolo console, ch’al principe offriasi scorta nel suo viaggio a Roma: spregiati anco gli onori soffregatili, vietò il proporsi oltra, o per timore, o per più stimolo a’ Padri da punire i seianiani.
XLIII. Certo, al tornar de’ Legati, dal suo silenzio più che da qualunque impero, essi impinti, scagliansi contro parenti, affini, intimi di Seiano. Fur morti l’anzinato e ’l zio Giunio Bleso, più in fortuna che d’illibati si creda. Lo spettacolo del figlio gittato sulle Gemonie penetrò Apicata14, al caso del marito niente tocca; gli eccessi di Seiano e Livia a confessar astretta, un ragguaglio stese della morte di Druso, e de’ suoi uccisori; il mandò a Cesare: e tosto per non sopravvivere a’ figli, s’uccise.
XLIV. L’enorme accusa l’ostinato silenzio vinse di Cesare. Scrive al senato: Sapersi i rei della morte di Druso, gli attentati contro sè: Eudemo e Ligdo sien collati: rei d’ambe le congiure, sien morti. Si raccese qui il pubblico odio a Seiano, il desiderio di Druso, l’amor per Tiberio; crebbe la compassione pel confessar d’Eudemo e Ligdo i misfatti di Livia e Seiano, e’l veleno da lor porto a Druso. Tiberio stesso, virtuoso ad arte, lode ha di clemente per la vita risparmiata a Livia dell’orrendo fallo convinta, pel merito e virtù d’Antonia. Ma non potè l’indulgenza abusar di Cesare la rea, spenta di fame dall’ottima madre, persuasa che stia sovra tutto la pietà nel punire i delitti. Disserla taluni uccisa da Cesare, perciò, che grazia non fe’ mai quel cuor di fiera.
XLV. In fine su’ seguaci di Seiano, tutto sfogossi il rigor delle leggi. Quanti sapeansi suoi favoriti o soci, furon puniti, se non compravan l’impunità a merito di spie e d’accuse atroci. Si rividero i processi già accusati, e’n grazia di lui assolti. Senatori, cavalieri, uomini, donne, in prigione, o in man di magistrati e di sicurtà. Molti a schivar confiscazione, e onta d’infame morte, se la diero; il resto, sentenziati e giustiziati: alcuno ebbe il coraggio di difendersi15.
XLVI. Quarantaquattro volte si orò in questa causa; con arringhe, per paura, e pel rammentio de’ misfatti, poche di nerbo: le più, per abitudine al giogo, fiacche. Meglio la sua ordì degli amici di Seiano l’integerrimo; le reità tacendo a lui aliene, la sacrosanta amistà salvando.» Non vidi mai, disse che l’amor di Seiano a me vergogna, o a Seiano odio fosse per arrecare: di sua amicizia usai a ben dello stato16. Rivolta la fortuna, ei che lo si era fatto genero e collega, sè non riprende; gli altri lo favorito con vergogna, perseguitano con malvagitade. Cesare scolpa la fé di Seiano per sedici anni provata: questi un’infame adulazione fa rei: salvino me di amicizia i sacri dritti. Non so qual sia maggior miseria, o l’esser per l’amicizia accusato o l’amico accusare; provo il primo, aborro l’altro: nè me smentirà de’ miei giorni il fine: illibato vissi, morrò con onore. A niuno chieggio nè crudeltà, nè perdono, ma libero e dentro scarico, non aspetterò il pericolo; pregando voi a tener memoria di me, non dolorosa, ma lieta; annoverandomi tra coloro che hanno fuggito i mali pubblici con un bel fine».
XLVII. Così detto, chi volea trattenendo o licenziando, consumò parte del giorno; e mentre si vedea d’intorno ancor molti; con fermo viso, come non presso al morire, trattosi una arme di sotto, vi s’infilzò. Cesare di lui morto non disse mali nè vergogne; come di Bleso.
XLVIII. Trattossi poi di P. Vitellio e Pomponio Secondo. Quegli diceasi aver offerto la chiave17, ch’era in sua cura, del danaio, per la guerra, se lo stato si voltasse: questi era accusato da Considio, stato pretore, per amico d’Elio Gallo, che punito Seiano si fuggì nelli orti di Pomponio, per suo più fidato ricetto. Aiutolli la bontà sola de’ fratelli, entrati mallevadori. Vitellio, vedutosi dar lunghiere, speranze e timori, si fece dare un temperatoio, quasi per mettersi a scrivere18, e scalfitosi leggermente la vena, morì d’angoscia. Ma Pomponio, gentilissimo di costumi, d’illustre ingegno, s’accomodò alla rea fortuna, e sopravvisse a Tiberio.
XLIX. Parve poi da procedere contro alli altri figliuoli di Seiano, benché alla plebe fusse la furia calata e de’ primi supplizj quasi ognun sazio. Furono adunque portati In carcere il figlioletto, che il suo male intendeva, e la fìgliolina, sì pura, che diceva: „Che ho io fatto? dove mi strascicate voi? non lo farò mai più: datemi della scopa più tosto„. Dicono gli scrittori di que’ tempi, che non si essendo più udito dare a pulzella il supplizio de’ triumviri, lo manigoldo col cappio a cintola la sverginò19, e strangolati, gittò i teneri corpi nelle Gemonie.
L. L’Asia e l’Acaia in questo tempo ebbero battisoffia20 per essersi alle Ciclade, e poi in terra ferma veduto Druso di Germanico; e fu un giovane di quella taglia, il quale certi liberti di Cesare, quasi riconosciuto, seguitavano ad inganno. Quei Greci correnti alle nuove e a’ miracoli, traevano alla fama di quel nome: trovavano, e lo si credevano, lui di carcere scappato, andare alli eserciti di suo padre per pigliare Egitto e Soria. E già aveva concorso di gioventù e pubblico seguito: allegrezza di tanto e speranza vana del rimanente; quando Poppeo Sabino allora in Macedonia, governante anco l’Acaia, a tale avviso vero o falso, per avanzarsi, a grandissima fretta passa i golfi di Torrone e di Tenne, l’Eubea, isola del mar Egeo, e Pireeo d’Atene, e le coste di Corinto, e quello stretto di terra; e per l’altro mare entrato in Nicopoli, colonia romana, dove finalmente intese, che domandato meglio chi e’fusse, aveva detto: Figliuolo di M. Silano: e che perduti molti seguaci, s’era imbarcato quasi ir volesse in Italia: e tutto scrisse a Tiberio; nè ho trovato di questo caso altra origine o fine.
LI. Nel fine dell’anno, la discordia de’ consoli rattenuta, scoppiò. Tigone, che come litigante pigliava nimicizie per poco, diede fiancata a Regolo, d’andare molto adagio all’opprimere i ministri di Seiano. Egli, che non tocco, era modesto, ribattè il collega, e voleva accusar lui di quella congiura; ma pregati da molti Padri che posasser cotali odj da rovinarvi, con crucci e minacce finirono il magistrato.
fine del libro quinto.
- ↑ Il padre di Livia era de’ Claudj. Fu fatto dei Livj, e dello Livio Druso Claudiano, e lei nominò Livia Drusilla, la quale ebbe due mariti. Il primo fu Tiberio Claudio Nerone, che n’ebbe Tiberio Imperadore e Druso, detto il Germanico, il quale d’Antonia minore ebbe Claudio, che fu imperadore, e Livilla o Livia, e Germanico Cesare, marito d’Agrippina, figliuola di Marco Agrippa e di Giulia, figliuola di Augusto. Il secondo marito di Livia fu esso Augusto, figliuolo adottato di Giulio Cesare, così fu di casa Giulia fatto, e fece esserne Livia. E così congiunta fu col sangue d’Augusto.
- ↑ Il contrario fece Caligola (Dione 58) nella morte di Drusilla sua sorella e concubina: esequie ampissime, alla catasta torneare, nobibssimi fanciulli il caso di Troia rappresentare. Tutte l’onoranze di Livia: fosse tenuta immortale, fattole tempio, statua d’oro, sagrificj e l’altre divinità; e si chiamasse Ogn’Iddia. Livio Gemino giurò per vita sua e dei suoi figliuoli d’averla veduta salire in cielo, e praticare con gli altri Iddii: i quali, e lei stessa ne chiamò per testimoni. Per lo qual giuramento ebbe in dono 25 mila fiorini. Vitellio col medesimo Caligola non ebbe sì buone lettere, come dice la postilla del §. XXII del sesto libro.
- ↑ Qui si vede che i cancellieri o segretari del senato, a cui le cose grandissime si confìdavano, erano senatori.
- ↑ Leggasi l’avviso al lettore del traduttor di Brotier, in fronte all’opera.
Qui entra Brotier col suo Supplemento; al qual passo, con sentimento di somma modestia, ei così scrive: C. Cornelii Taciti Annales supplere aggredior; opus arduum: quod, utinam! quanta cum historiae necessitate, tanta cum laude exequar. - ↑ Le ribalderie e morte di questa donna son da leggersi in Tacito, VI. Annal. 40.
- ↑ Druso e Caio.
- ↑ Tiberio vecchio, Caio giovane.
- ↑ Intende delle nazioni e regni domati e conquistati dagli eserciti romani; onde i loro generali e imperatori prendevano il titolo di Germanico, Affricano, Dacico, Partico, nel I. lib. di questi Annali, leggesi, in suum cognumentum adscisci imperatores. Davanzati traduce: gl’imperadori cognominarsi da loro; sono soldati dell’esercito che parlano. Così pe’ gloriosi fatti d’arme in Germania Nerone Claudio Druso fu detto Germanico, titolo ereditario nella famiglia che prese anco Tiberio. Così altri di mano in mano.
- ↑ Fa stomaco quest’adulatore nel tanto incensar que’ due mostri, sopra tutto al L. II, dal capo 126. Valerio Massimo, a rovescio, scrive contro Seiano da invasato, spezialmente al L. IX, II, n. 4, così pure Svetonio contro Tiberio, che ovunque può lo morde.
- ↑ Propostomi per ogni buona ragione d’imitare il meglio che potessi in questa mia traduzione il Davanzati, m’è piaciuto a tal intento usare, ove che cada in acconcio, alcuni modi di dire, come proverbiali, ch’han molta forza, e dei quali fa molto uso il Davanzati stesso, ec. il popolo o asso o sei. La rabbia rimase tra’ cani.
- ↑ Questo tempio era in Campidoglio pressa ov’é ora l’Arco di Severo. Bruciato col Campidoglio fu riedificato, come
leggasi negli avanzi che se ne veggono, e nell’iscrizione,
SENATVS POPVLVSQVE ROMANVS
INCENDIO CONSVMPTVM.
RESTII VIT. - ↑ Ov’erano gittati i giustiziati per farne pubblico spettacolo. Altri vogliono che fusse nel 13 rione in Roma, ove l’Aventino guarda il Tevere; altri, nel monte stesso Capitolino presso la Carcere Mamertina. V. Donato, De Urbe Roma, e ’l Piranesi, Antichità Romane, tom. I verso il fine Iconographia Capitolii. Dopo essersi mostrati sulle Gemonie al popolo, con un uncino trascinavansi pel collo in Tevere i cadaveri di quegl’infelici.
- ↑ Dodici ville si fabbricò Tiberio in Capri. Tac. Annal., L. IV. n. LXVII; una di queste è la più accennata, ch’avea il nome da Giove.
- ↑ Moglie di Seiano, ma da lui scacciata di casa. Tac. Annali L. IV, n. III. Nel cap. VIII di questo lib. IV leggi quest’avvelenamento di Druso per macchina di Seiano: vedi anco il cap. X.
- ↑ Qui rientra Tacito.
- ↑ Questi quattro pezzetti in carattere diverso son suppliti ed inseriti dal Brotier ne’ voti del Tacito.
- ↑ Una simil offerta fece Bertoldo Corsini nel 1537.
- ↑ Scalpro librario venas tibi incidit, dice Svetonio. Scrivevano gli antichi nelle foglie del papiro, erba che nasce in Egitto, e in pellicine tratte di scorze d’arbori, dette da’ Latini, libri. Forse le piegavano in rotoli come le nostre carte pubbliche antiche. Una di esse tutta scritta dicevano libro: più libri uniti insieme, codice. Scrivevano ancora come in pelli; e lo scritto che non piaceva o più non serviva, raschiavano per iscrivervi altro; e la pelle raschiata diceano palimptesto. Cicerone con Trebazio, che gli aveva scritto in palimpsesto, berteggiando sì maraviglia di quel che si potesse essere stato da raschiare, più tosto che quelle baie scrivere. In tavole incerate, dette pugillares, scriveano altresì con calami (cioè bocciuoli di canna aguzzati) o stiletti; onde fu la maniera del dettare detta stilo. Plinio nella prima Pistola a Cornelio Tacito scrìve che andando a caccia, aiutato da quelle selve e silenzio, componeva, per portarne, se le man vote, almen piene le cere. In questa cera, dice Quintiliano, era agevole lo scancellare; ma ci valeva miglior vista a leggere; e non rompeva il corso dello scrivere, e l’impeto de’ concetti, come fa Io intignere della penna. E vuole che chi compone, lasci grandi spazj per aggiugnere e mutare senza confondere le scritte cose, e poter notare in disparte, e quasi mettere in diposito, per servirsene a tempo, certi concetti belli, che spesse volte fuori di quel proposito sovvengono e poi fuggono allo scrivente.
- ↑ Bella legalità osservata per farla donna, e abbiente allo strangolo! Così i triumviri (Dione al 47) per abbientare al supplizio un fanciullo, il vestiron di toga virile. Da un altro ch’io so, fu detto, Sia dell’età dispensato 1 . Radamisto avendo assicurato il zio e la sorella, del veleno; gli gittò in terra, e gli affogò in molti panni. Augusto e Tiberio per collare i servi contro al padrone, gli vendevano al fiscale. Malizie non mancano chi vuol fraudare le leggi.
- ↑ Exterritae sunt acri magis, quam diuturno timore. Tutto questo dice questa popolar voce perfettamente; e Franco Sacchetti nella novella 48 l’usa. Che noi la deviamo schifare, perchè la lingua comune d’Italia non l’usa, perchè non è in Dante, nè nel Petrarca, nè nel Boccaccio, a me non pare; nè credo che una lingua che vive, sia nello scrivere obbligata a raccogliere solamente le parole di pochi e morti scrittori, quasi gocciole dalle grondaie, ma debba attignere dal perenne fonte della città le più efficaci e vive proprietà naturali, che con impeto scoccano, e fiedono l’animo per diritta via e brevissima; e molte significano più che non dicono, come i colpi fieri, e gli scorci nella pittura. Conciossiachè noi favelliamo per essere intesi, e muovere; e quanto più proprio e breve il parlare è, più presto e meglio è inteso e muove. E credo che dall’empio, e ’l disonesto e ’l sordido in fuori, quanto i nobili dicono, si possa anche scrivere nobilmente a suo luogo e tempo da persona giudiciosa, mezzanamente erudita e accurata. Scrivendo a questo modo, e con queste quattro condizioni, non militeranno le tre autorità dal gran riprenditore allegate nella risposta al Caro a carte 23: l’una del Bembo, che noi Fiorentini per troppa copia di questa nostra lingua non la stimiamo, e ce n’andiamo col popol senza regole osservare; e l’altra di Giulio Cammillo, che niega doversi partire scrivendo dalle voci del Petrarca e del Boccaccio, quando la lingua salì, quasi Sole al mezzogiorno, al suo più alto punto di perfezione; e lascia Dante; (o che giudizio!) la terza d’Aristide, che nelle Dicerie non ammette le parole del parlar semplice, ma quelle de’ libri.