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LIBRO SESTO | 287 |
città. Non mitigavan Tiberio, dopo tre anni che Seiano fu morto, le cose che pur sogliono gli altri; tempo, preghi, satollanza: anzi puniva i casi dubbi e stantiti per gravi e freschi. Per tal paura Fulcinio Trione, non aspettò gli accusanti; fe’ testamento1 pieno di parole brutte contro a Macrone, e a’ principali liberti di Cesare, al quale dava di rimbambito o quasi sbandito, stando fuor tanto. Le rede lo trafugavano; e Tiberio lo fece leggere, o per mostrar pazienza dell'altrui libertà, o per non curare sua infamia, o per aprire alli eccessi di Seiano, statovi tanto al buio, ogni finestra, o per vederne il vero in quello specchio de’ suoi, vituperi, non appannato d’alito d’adulazione. In que’ giorni si tolse di vita Cranio Marziano senatore accusato da C. Gracco di maestà; e fu per la medesima dato l'ultimo supplizio a Tazio Graziano, stato pretore:
XXXIX. Trebellieno Rufo s’ammazzò di sua mano; e Sestio Paconiano, per versi contro al principe fatti in carcere, vi fù strangolato. Stava Tiberio da Roma non lungi, nè tramezzato dal mare, come soleva; per aver tosto gli avvisi, e fare lo stesso di o la dimane, i rescritti a’ consoli, e quasi vedere il sangue per li rigagnoli correre, la mano del carnefice alzata. Al fine dell’anno morì Poppeo Sabino, di bassa mano, onorato da’ principi di consolato e delle trionfali, e de’ governi maggiori, già ventiquattro anni; non per gran sapere, ma per capacità de’ negozi, bastevole e non più2.