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la rocca di cavour | 303 |
la cuccagna, la roba per niente; e di tratto in tratto, a intervalli uguali, un altissimo e lunghissimo raglio di somaro. Fuori della folla, la pace solita dei piccoli paesi: delle stradicciuole solitarie con dei bimbi che giocavan lungo i rigagnoli, un crocchio di signori davanti a una farmacia, dei terrazzini interni di case dove delle donne stendevan la biancheria ad asciugare, un prete in maniche di camicia dentro a un orto; si vedeva ogni cosa da un capo all’altro dell’abitato, e intorno intorno, il collegio, la piazza d’armi, il camposanto, il passeggio: tutto quello che basta da per tutto a qualche migliaio di persone per ripararsi dal freddo, fare gli affari propri, odiarsi e morire. Poveri accampamenti umani, poveri mucchi di baracche! Che misera cosa son mai, visti dall’alto, con quel piccolo campo chiuso da quattro muri, dove tutto va a finire!
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Alzati gli occhi dalle case, si vede tutto il cerchio delle alpi dal Monte Viso al Monte Rosa, e tutta la pianura piemontese, così vasta ed aperta, che quando è un po’ velata di nebbia, come quella mattina, vien fatto di cercarvi all’orizzonte le vele dei bastimenti e gli spennacchi di fumo dei piroscafi; e par di trovarsi sulla cima d’un’isola rocciosa, dentro a una grande baia, che si stenda da Saluzzo a Cumiana, dai colli dove Silvio Pellico scrisse i suoi più dolci versi, ai campi dove Vittorio Alfieri domò i suoi più focosi cavalli. Ma a me piaceva di