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la rocca di cavour | 297 |
di vento dovesse portar via. Non c’eran case, non s’incontrava nessuno. Non si sentiva che il verso d’una ghiandaia, su in alto.
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In mezz’ora arrivammo sulla cima. Sono tre punte, distanti un cento di passi l’una dall’altra: quella di sinistra, chiamata la punta dei cani; quella di destra, del castello; quella di mezzo, del torrione. La prima non è notevole che per un precipizio spaventoso che le s’apre sotto, una specie di Salto di Tiberio, il quale misura tutta l’altezza della rocca, diritta, da quella parte, e terribile, come la muraglia d’una fortezza ciclopéa che minacci gli sbocchi delle valli alpine. Sulla punta di mezzo, non rimane più dell’antico torrione di Bramafame che un pezzo di muro rotondo, alto quanto il parapetto d’un pozzo, con due cannoniere, circondato di rose selvatiche e d’erbacce. La punta che serba maggiori avanzi è quella del castello. Ed è anche la più ardita e selvaggia: un gran masso, una specie di gobbo enorme della rocca, inaccessibile da ogni parte, fuorchè per una scaletta informe, cavata nella roccia viva, e tutta incisa di nomi e di date cubitali; salendo per la quale si riesce con un giro sopra il piccolo spianato dove sorgeva il castello. Qui, per una rete di piccoli sentieri che salgono e scendono tra i pruni, le ortiche e le vitalbe, si gira in un labirinto di rovine, in mezzo a buche di cisterne e di sotterranei, a frammenti di muri forati da feritoie, a