gare. Ma quando poi sentì aggiungere quella del regalo del bagno, e d’Asprilla, e di Drusilla, non si potè più contenere. — Non creda, sa, — mi disse; — son tutte cose che combinano fra loro i dottoroni. Già Cavour non è mai stato paese di forestieri. — Il professore fece un sorriso di infinito disprezzo, e ripigliò il suo discorso. La cosa era fuor di dubbio. Cavour era stato una colonia romana, e doveva aver avuto una fortezza e un presidio; negli scavi fatti in vari tempi, s’eran trovati cippi, capitelli con l’effigie di Romolo e di Remo, avanzi di acquedotti, statuette di metallo, lumicini, lacrimatoi, monete, medaglie; fra le quali essendo in maggior numero quelle del tempo di Nerone e degli Antonini, c’era luogo di credere che fosse stato sotto questi imperatori il periodo di maggior floridezza dell’antica Caburrum. In seguito le eran toccate le avventure comuni a quasi tutte le città e alle borgate di quella parte del Piemonte: distrutta dai barbari, ridistrutta dai Saraceni, soggetta al contado di Torino al tempo dei Franchi, castellania sotto i marchesi di Susa; poi posseduta dai Conti di Savoia, conquistata dagli Astigiani, caduta in potere dei principi d’Acaja, ceduta ai signori di Racconigi, tornata daccapo alla Casa di Savoia. E mentre ascoltavo questa litania di trattati, di assedi, d’incendi e di miserie, salivamo su per una viottola petrosa, in mezzo a un bosco di piccoli castagni, di querciuole e di marruche, colorite di tutte le sfumature del giallo, dal cadmio allo zafferano, e ancora verdi qua e là, e come brizzolate da una polvere dorata, che un soffio