rono superate, tutto l’esercito irruppe. E allora i soldati, irritati dalle lunghe marcie, infiammati dal sole, e inaspriti dalla resistenza inattesa, saccheggiarono, incendiarono, uccisero ufficiali e soldati, donne, vecchi, contadini, bambini, per le strade, nelle case, nelle chiese, nelle cantine, a calciate di fucili e a colpi di partigiana e di baionetta, sordi a ogni preghiera e ad ogni pianto, senza discernimento, senza tregua, senza misericordia. Una parte degli abitanti e del presidio s’era rifugiata in cima alla rocca: gl’invasori vi s’arrampicarono come un branco di tigri affamate, e trafissero e sgozzarono quanti c’erano. Solo ottanta persone, fra le quali il governatore, alcuni ufficiali, e il resto donne e ragazzi, riuscirono a salvar la vita rifugiandosi in una casa di Cavour, nella quale era entrato il Catinat a prendere un rinfresco da uno speziale, di cui s’è serbato il nome: Marentino. La città presentò per varii giorni uno spettacolo da agghiacciare le vene e da far rizzare i capelli: le piazze ingombre degli avanzi del sacco, quasi tutte le case bruciate, mucchi di cadaveri a ogni passo, rigagnoli di sangue giù per le scale e per le strade, i muri chiazzati di sangue, i cortili allagati di sangue, e in quella orribile solitudine grida di moribondi e risate di pazzi. Nelle memorie del Catinat si danno più di seicento persone morte, tra uomini, donne e bambini; il marchese di Quincy parla di ottocento soldati e di trecento cittadini macellati; un priore, testimonio e narratore del fatto, afferma che di cinquemila abitanti, quattromila furono uccisi. E questo si