traccie malcerte di porte, di scale e di segrete, da cui è quasi impossibile raccapezzare la forma del castello; il quale doveva essere angusto, peraltro, e intricato, e lugubre: uno spauracchio di castellaccio da streghe e da corvi, non meno triste per chi ci stava dentro a difenderlo, che tremendo per chi l’aveva da assalire. Eretto su quella cima, proteggeva mirabilmente la borgata sottoposta, che era tutta chiusa in una cinta rettangolare di muraglie turrite, le quali si prolungavano salendo su per la rocca, fino a congiungersi col castello e col torrione; legati anche questi fra loro da un parapetto, o da altra opera di difesa, intagliata nel sasso, al di sopra dei passi più scoscesi. Tale era la fortezza di Cavour sul finire del secolo decimosesto quando se la disputarono il generale Lesdiguières e Carlo Emanuele I, i due sovrani giostratori di quella guerra avventurosa e memorabile, con la quale il duca di Savoia iniziò la grande politica dell’altalena fra la Spagna e la Francia: ben combinati davvero, e fatti proprio a misurarsi, per temerità di capitani, e per coraggio di soldati, e per prudenza, e per astuzia, e per generosità usata a tempo, e per magniloquenza spiegata sempre. Il castello, si capisce, non poteva esser preso che per blocco. Non riuscì a conquistarlo per assalto il Lesdiguières, neppure dopo essersi impadronito del torrione, e averci fatto tirar su a forza di braccia e d’argani due pezzi d’artiglieria, coi quali fulminava le mura a cento passi, e ogni colpo era uno sdrucio: i quattrocento difensori, comandati dal conte Emanuele di Luserna, non si arresero che per fame. E