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294 | alle porte d'italia |
e che dovessero dar l’amore come davan le ova. Eppure.... Ci trattenemmo un poco ad ammirare le bellezze più vistose; ma i nostri sguardi ammirativi, interpretati prosaicamente, non avevano altro effetto che di far alzare le galline verso di noi, in atto d’offerta. Provai però un vero piacere a girare, a sguazzare dentro a quell’abbondanza di tutto, a sentir tutti quei soffi di salute, quell’odor di stoffe da sedici soldi il metro, di capelli lisciati con l’acqua, di latte, di paglia, di piccionaia, di conigliera: mi pareva di purificarmi per un mese di tutti i profumi da parrucchiere, di tutti gli odori acri e misti di cattive salse, di botteghe umide e di teatri sudici, e di libri odiosi e di prove di stampa più odiose, che ero costretto a respirare in città. E non fu così facile levarci di là dentro. Alla uscita della piazza ci trovammo chiusi in mezzo a un gruppo di poderose venditrici di cacio, e ci bisognò fare alle gomitate; poi la cesta di una bella pollaiola mi separò dai compagni; infine non ebbi più che da dividere due maschiotte marmoree che chiudevan la via, e mi ritrovai all’aperto con gli altri, tutto fragrante di latticini e di galliname.
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Eravamo in un’altra piazza; entrammo un momento nella chiesa maggiore, grande e vuota, dove la voce del prete che diceva la messa era coperta da un cinguettio sonoro d’uccelli che