Adramiteno/Atto secondo
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ATTO SECONDO.
SCHIENA PRIMA.
Gran Tempio della Dea Cimena con varie foreste all’intorno, e la veduta in lontananza del nascimento dei funghi.
Adramiteno vestito da uomo, e Ciborra in abito donnesco con circuiti di Vergini Vestali: poi Jetaco.
Adr. Sposa, tu sai di Cappadoccia il rito.
Al Trono quì non alzasi altrimenti
Donna, che fu custode degli armenti,
Se pria non giura colla face in mano
Di rinunziar per sempre al Turpiliano1.
Bevendo in segno di solenne augurio
La sagra tazza piena di Mercurio.
Anch’io eseguendo dal mio canto il rito,
Che qui ad ogni stranier sposo sovrasta,
Emancipai testè le spoglie antiche
Sulla gran piazza, ed al calor dell’asta.
Cib. Tanto mi basta.
Adr. Ecco dunque il tenor del giuramento.
porge un foglio a Ciborra.
Cib.» Odami il Ciel; s’io mento, leggendo il foglio.
» Prego la Dea Cimena,
» Figlia di Giove, e della Dea Cibele,
» Che mi renda sottile come il vento
» O che ligar mi faccia in pergamena,
» Oppur che mi trasformi in Isoscele. Si pone a bere la tazza, ed in questo mentre s’avvanza Jetaco
Jet. Principessa, che fai? È un tradimento. indi ad Adramiteno, minacciandogli una guanciata.
Coll’arma gentilizia
A duellar ti sfido,
Adr. Di te, di tua pigrizia me ne rido. si cava un sandalo.
Jet. Che fai?
Adr. Quest’è lo scudo,
Che oppongo a sì vil dardo.
Jet. Tu se’ un codardo; io tengo il volto ignudo.
Adr. All’armi... si prendono per i capelli.
Jet. All’armi...
Adr. Piano.
Jet. Adaggio.
Cib. Coraggio. Zarronbo. tre volte chiamando in fretta verso la scena
Jet. Zarronbo. come sovra
Adr. Jetaco. tre volte chiamando come sovra.
Jet. Zarronbo come sovra ah! dove sei?
Adr. Difendi i dritti miei.
A due Lasciami in libertà, che già succombo.
Un baleno li divide, e fuggono insieme per diverse parti.
SCHIENA II.
Ostilio, e la suddetta.
Ost. Sento un soave odor, che non mi piace;
Fors’è questo il deposito fumante:
Di qualche nuovo Atlante,
Che la fuga salvò?
Se il mio pensier è vano,
Spiegami, o Principessa, il grande arcano.
Cib. Vedi quel vaso indegno?
Era un velen per me. Deh! caro Ostilio,
Come quel, che di Zingaro sei figlio,
Dimmi, chi è il traditore?
Ost. De’ Romani è l’impegno.
Cib. Come? Dunque così superba ė Roma,
Che sazia di trionfi, e di trofei
Volga l’armi al mio ciglio, alla mia chioma!
Ost. Folle, che dici? il Roman fasto vieta
Gli sperati Imenei d’Adramiteno.
Ei sallo, e in vece d’un congedo onesto,
Stimò di darti un lepido veleno.
Non sai che de’ Romani...
Cib. Intendo il resto.
Eppur d’Adramiteno io che conosco
La pietade, e l’onore,
Non ne so creder così duro il core,
Che congedar mi voglia con un tosco.
Ost. Ma infini del tradimento
Alcun sarà l’autore...
Sentimi, o Principessa;
Temo assai di Te stessa.
Vidi fra noi già cento volte, le cento
Che ignoto traditore
Pel crime, che fallì, non si ravvede;
Anzi torna alle prese a secco piede.
La fuga può sottrarti al rio destino.
Deh cara! non sprezzar il mio consiglio,
Fuggi a tempo il periglio,
Torna al primiero albergo, e va latino 2.
La querula Civetta,
Che fra i notturni abeti
Inciampa nelle reti,
Non vede il laccio ancor.
L’aurora, che s’affretta,
Palesa, sì, l’arcano;
Ma allor si tenta in vano
L’incauto piè discior. Ostilio via.
SCHIENA III.
Ciborra sola.
Questi son dunque i sperati Imenei?
Fuggir degg’io qual rea? e di che rea?
D’un temerario amor? Ah ingiusti Dei!
Deh! perchè un crime non fu anco tra voi
L’amor della gran Diva con Adone,
E quel d’Europa col gran Giove Ammone?
- Segue recitativo con gli stromenti inscritti.
Zampogne sole.
Perchè a voi, Dive, che pur caste siete,
Violini con false intonazioni, e corni.
E a te gran Dio d’amor, che fai il cieco,
Piacque l’infida moglie di Vulcano
Veder involta all’uso Messicano
Col Divo Marte presi nella rete?
Arcileutte solo.
E or perchè tanto incrudelite meco?
Pel mio amor casto coll’Eroe Romano?
Oboe.
Via su, via su, Cupido disleale,
Finiamola; che fai con quel tuo strale?
Uccidimi, se puoi. vaneggia.
Tamburri e pifferi soli.
Insanguinate
Voi pur, Signori miei, verso la platea.
Quel vostro nudo acciajo nel mio grembo.
Tutti gli stromenti.
Vengan Satiri, Fauni, Uomini, e Dei
Contro me furiosi come un nembo.
Flagioletto, e sei contrabbassi soli.
Già sventurata abborro i giorni miei;
Del Cielo all’ira vittima mi rendo.
Scempio fate di me, che non m’offendo.
Arpa sola.
Mansueta attendo il colpo come un bue.
Mandolino solo.
La Dea Megèra vi rinforzi i nervi.
Trombe e Timpani soli.
Fate il vostro dover, e senza pive
Preghiamo il Dio Pluton, che vi conservi.
Veggo Marte, che s’adira; guarda in su.
Là Saturno mi minaccia; mira alla destra.
Quà Giunon mi sputa in faccia; a sinistra.
Tutto spira crudeltà.
Fermi là... eh!.... si delira?
batte forte d’un piede.
Si rispetti il mio sembiante,
Che d’un Nume sono amante,
Ed anch’io son Deità. si nasconde.
SCHIENA IV.
Appartamento estrinseco, destinato a Ciborra, ornato di ghette, stivali, e carte geografiche, ed illuminato per la venuta del plenilunio di Marzo.
Adramiteno, e Ciborra.
Adr. Oh quanto deggio, o cara, ai sommi Dei,
Che libera ti fer da un tradimento!
Fu il Sacerdote della casta Dea,
Che preparò il liquor, che t’offendea.
Io lo credea uno scherzo indifferente;
Se prendevi il velen, ero innocente.
guardando in fuori.
Cib. Già tutto intesi appieno.
Adr. Ma tu guardami almeno.
Forse di Roma il Soglio
Al tuo merto disdice. con ironia.
Cib. Una Ninfa infelice
Non ha sì strano orgoglio;
Ma Sposa d’un fellon esser non voglio.
Adr. Ciborra del mio amor non prender gioco;
Pensa a’ miei nascituri... con serietà.
Cib. Mettili pur sul fuoco.
Va nelle selve Ircane
A vagheggiar le fiere,
O di Sfingi, e Pantere
Amabil Genitor.
Mangia le carni umane,
Drago orrendo, affamato;
Poi vanne disperato
A vomitar il cor. partono retrogradi.
SCHIENA V.
Adramiteno solo.
Lei mi fa troppo onor....
Or sì, che le mie glorie
Son giunte a segno eccelso di grandezza.
Ciborra mi disprezza,
E le future storie
Dell’Asiatica gente
Mi chiameran fellone, e traditore,
Eppur sono innocente.
Stelle, se ingiuste siete, comincia a vaneggiare.
Venite giù a cimento;
Giacchè tutto perdei,
Più rischio non pavento. cava la spada.
Vengano anche con voi i Pirenei;
E se qualcuno a piè venir non puote,
Si serva pur del carro di Boote. vaneggia forte.
Sento un stridor de’ venti;
Veggo, che il mar s’innalza;
La terra già si sbalza,
E il polo se ne va.
Crepitan gli elementi,
Freme di rabbia Euclide;
Ma il mio valor ne ride
E niun si salverà. Vibra alcuni colpi in aria, e poi cade a terra credendosi ferito; indi s’alza, e fugge.
SCHIENA VI.
Curatore solo.
Misera Umanità! parta senz’altro
SCHIENA VII.
Sito vacuo praticabile destinato al passeggio delle Lucerte Reali.
Asinio e Somarinda.
Som. Se d’Ostilio non mente la favella,
D’Adramiteno si scompiglia il fronte.
Già l’assediano i Tarli;
Cappadoccia è rubella,
La Ninfa, ch’ei tradì, ritorna al fonte,
L’Asia tutta è in Europa e tu non parli?
Asin. Principessa gentil, a me non lice
Farti l’annunzio di stranieri eventi
Finchè non so del tuo cor il pendio,
L’aria, il polso, e li dubbj movimenti;
Nè se da tai vicende
Dipenda il tuo destin felice, o rio.
Som. Stolto chi non intende.
Soglion le cure lievi esser loquaci,
E stupide le gravi, al dir dei Vati.
Dagli amorosi flati
Conoscermi tu puoi;
Asinio, ascolta, se alcun me ne fugge
fa un flato per secesso.
Asin. La mente mia si strugge,
Eppur non so capir.
Fors’è quel tuo digesto
Che esulta più che mai?
Som. Tu non udisti assai, senti ancor questo,
fa un altro flato.
Sappi, che Adramiteno
Pria che Ciborra gli rubasse il core,
Per me veniva meno.
Or che di lei dal grande impegno è sciolto,
Vedrai, che torna a vagheggiarmi il volto.
Asin. Non lusingarti, Somarinda mia.
Anche tu sei straniera,
E sarai de’ Romani
Il secondo rifiuto.
Som. Fu Cappadoce, è vero,
Ezio mio genitore;
Ma in Roma io nacqui sotto Cassio, e Bruto
Nel bollor della fuga dei Trojani.
Onde la legge, che Papia si noma,
All’Impero di Roma
Mi permette aspirare.
Asin. Pensa a nozze più eguali,
Pesati prima ben, e fa pesare
Di quel, che vuoi sposare,
I meriti fittizj, e i naturali.
Principessa, mio ben, tu sai, ch’io t’amo:
Deh non sperar un così grande imene.
Som. Lasciami lusingar, se mi vuoi bene.
Già sento un venticello
Uscir dal Campidoglio, fa un flato.
Che mi solleva al soglio,
E mi dilata il cuor. fa due flati.
La vanità bel bello
Mi gonfia sino al mento,
E un gran piacer. io sento
Spargendo i miei vapor. tre flati.
partono per danda 3.
SCHIENA VIII.
Porcile Reale.
Ostilio e Jetaco.
Jet. Giungesti a tempo, Ostilio; oh quanti mali.
Minaccia il Cielo contro i miei stivali!
Comete infauste, ed aspidi volanti
Girano intorno al Campidoglio austero;
Giove vermiglio, e Marte è parso nero;
Gli Oracoli, gli Aruspici, ed i Vati
Tutti son divenuti forsennati.
Di presagj si rei fra le ritorte
Qual de’ Romani è mai
Il contegno nel Norte?
Dillo tu, che il saprai,
Ostilio, de’ Romani o membro forte.
Ost. Tutto dirò, ma taci.
Gli ordin, che in Roma arbitri son del Fato,
L’Equestre, il Militar, ed il Togato,
Non contrastano il serto a Adramiteno.
Ch’ei sia l’amor di Roma, e la delizia,
Nessun l’osa negare.
Già l’ordine Togato, e il Militare
Gli dieron le divise dell’Impero:
Nè si cura da lor, se i dì di pace
Voglia goder con Elvia Matrona,
Oppur con una Ninfa d’Elicona;
Che alfin fu alzata al Trono degli Dei
Venere nata da men giuste nozze,
Figlia del mare infido,
E madre incestuosa di Cupido;
Pallade, che è nemica d’Imenei;
Cerere, che fu già vil pastorella;
E Minerva, che uscì per le cervella.
Che più? Sonora qui da’ nostri un Bacco,
Che fu sempre ubbriacco.
E negherassi ad una Ninfa onesta,
Ch’è d’un gran Duce l’idolo, e l’amore,
D’Adramitena Augusta il mortal nome?
Oh Romani, Romani,
La grandezza dove è del vostro cuore?
Così dal rostro peroravan forte
Il Consol Ezio, ed il Tribun di Corte.
L’Ordine Equestre poi 4,
Che degli altri è inferiore,
Negli Imenei non vuol si mischj Amore,
Salyo, che v’entri a titolo oneroso 5.
Dà luogo alla ragion sol di prosapia,
Ragion suprema d’Imeneo Romano.
E quindi per la figlia d’un pastore
Avvien, che un’agnazion perda l’onore,
E il bianco equestre cingolo si macchi.
Così dicea de’ servi alla presenza
Il Cavalier Idiota stando a mensa.
Jet. Dunque che sarà poi?
Ost. La Ninfa stessa, emola degli Eroi,
Vincer saprà il suo cuor, e il suo desio.
Non del Ciel pe’ scorruccj,
Che hanno tutt’altro oggetto,
Nė per l’insania dell’Equestre Stuolo;
Ma per serbar a Adramiteno il pio
Lunga età, e lieti giorni,
Gli darà un mesto, e generoso addio.
Già sa, che in Roma i casi furon varj
Di giusti oppressi per man di sicarj.
Jet. E chi avrà tanto ardire?
Ost. Basta il furor, e l’ambizion ingiusta
D’Elvia germana del Console Bruto,
Che ha spergiurato sui polmon di Pluto
o di far strage, o diventare Augusta.
Jet. Ridicola prosapia!
Falsa idea dell’onore!
Tetro chiaror di fatue lucerne
Va ad illustrar cloache, ombre, e caverne.
La prosapia degli Eroi
Presso è a quella degli armenti,
Poichè l’alma de’ parenti
Già non passa in corpo a noi.
Pur si dice nobiltà
Quel di razze vario impasto,
Che anche quei, che portan basto,
Lo san fare in verità:
E si chiama nobiltà
Di lignaggio un ramo adorno,
Che, se è d’ebano, o di corno,
Il sicuro mai si sa. partono a piedi.
Fine dell’Atto secondo.
Note
- ↑ [p. 74 modifica]Turpilliano; Senatus-consulto con cui si puniscono quelli, che senza condono fatto al delitto, di cui si resero accusatori, o per sentenza del giudice, o per rescritto del Principe, od anche per altra causa, desistevano dall’accusazione. (Dig. tit. 16, lib. 48, et cod. ad S. C. Turpill. tit. 45. desistens præter abolitionem a causa criminis publici judicii incidit in Turpillianum. Salic.)
- ↑ [p. 74 modifica]Va latino; frase piemontese, usata per va di volo, tosto. (Zalli Diz. piem.)
- ↑ [p. 74 modifica]Partono per danda; termine d’aritmetica usato nelle divisioni quando queste si fanno in lungo colla reiterazione della moltiplica, ossia ogni cifra posta nel quoziente moltiplicata col divisore, e posto il risultato sotto il dividendo, in linea di quei numeri divisi con virgoletta, indi colla sottrazione conosciuto il residuo, si prende l’altro numero del dividendo e si continua così sino al fine della divisione. Qui l’autore usa questa voce per significare che partono in fila, ossia linea.
- ↑ [p. 74 modifica]Ordine equestre; distinzione in uso presso i Romani pei cavalieri, quali erano posti dopo le dignità consolarie di toga, e tra essi aveano pure il loro luogo distinto secondo il grado di ciascheduno. Equites Romanos secundum gradum post clarissimatus dignitatem obtinere jubemus. Così ordinò l’Imperatore Valentiniano Leg. 1. de equestri dignitate, e similmente sta scritto nel [p. 75 modifica]cod. lib. 12, tit. 32; confermato da Plinio epist. ad Maximum al lib. 8, cap. 1 de equ. dign., e nel lib. ii ec.
- ↑ [p. 75 modifica]A titolo oneroso; acquisto che si fa legalmente quale chiamasi oneroso, se fatto od avuto con peso, od esposizione di danaro; lucrativo quando avuto in donazione.