Achille in Sciro/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo

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ATTO TERZO

SCENA I

Portici della reggia corrispondenti al mare.
Navi poco lontane dalla riva.

Ulisse ed Achille in abito militare.

Ulisse. Achille, or ti conosco. Oh, quanta parte

del maestoso tuo real sembiante
defraudavan le vesti! Ecco il guerriero,
ecco l’eroe. Ringiovanita al sole
esce cosí la nuova serpe; e sembra,
mentre s’annoda e scioglie,
che altèra sia delle cambiate spoglie.
Achille. Sí, tua mercé, gran duce, io torno in vita,
respiro alfin; ma, qual da’ lacci appena
disciolto prigionier, dubito ancora
della mia libertá: l’ombre ho sugli occhi
del racchiuso soggiorno;
mi sento il suon delle catene intorno.
Ulisse. (Ed Arcade non vien!) (guardando intorno)
Achille.   Son queste, Ulisse,
le navi tue?
Ulisse.   Sí; né superbe meno
andran del peso lor, che quella d’Argo
     del suo non andò. Compensa assai

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di tanti eroi lo stuolo

e i tesori di Frisso Achille solo.
Achille. Dunque, che piú si tarda?
Ulisse.   Olá! nocchieri,
appressatevi a terra. (E pur non miro
Arcade ancora.) (guardando intorno)
Achille.   Ah, perché mai le sponde
del nemico Scamandro
queste non son! Come s’emendi Achille,
lá si vedrá. Cancellerá le indegne
macchie del nome mio di questa fronte
l’onorato sudor; gli ozi di Sciro
scuserá questa spada; e forse tanto
occuperò la fama
co’ novelli trofei,
che parlar non potrá de’ falli miei.
Ulisse. Oh sensi! oh voci! oh pentimento! oh ardori
degni d’Achille! E si volea di tanto
fraudar la terra? E si sperò di Sciro
nell’angusto recinto
celar furto sí grande? Oh troppo ingiusta,
troppo timida madre! E non previde
che a celar tanto fuoco
ogni arte è vana, ogni ritegno è poco?
          Del terreno — nel concavo seno
     vasto incendio se bolle ristretto,
     a dispetto — del carcere indegno
     con piú sdegno — gran strada si fa.
          Fugge allora; ma, intanto che fugge,
     crolla, abbatte, sovverte, distrugge
     piani, monti, foreste e cittá.
Achille. Ecco i legni alla sponda:
Ulisse, io ti precedo. (s’incammina al mare)

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SCENA II

Arcade frettoloso e detti.

Ulisse.   Arcade, oh quanto

tardi a venir!
Arcade.   Partiam, signor, t’affretta;
non ci arrestiam.
Ulisse.   Che mai t’avvenne?
Arcade.   Andiamo:
tutto saprai.
Ulisse.   Ma con un cenno almeno...
Arcade. Oh numi! ebbra d’amor, cieca di sdegno,
Deidamia ci siegue. Io non potei
piú trattenerla, e la prevenni. (piano ad Ulisse)
Ulisse.   Ah! questo
fiero assalto s’eviti.
Achille. (tornando impaziente dalla riva del mare) Or che si attende?
Ulisse. Eccomi.
Achille.   Sí turbato,
Arcade? Che recasti?
Arcade. Nulla.
Ulisse.   Partiam.
Achille. (ad Arcade) Ma che vuol dir quel tanto
volgerti indietro e rimirar? Che temi?
Parla.
Ulisse.   (Oh stelle!)
Arcade.   Signor... Temo... Potrebbe
il re saper la nostra
partenza inaspettata,
ed a forza impedirla.
Achille.   A forza? Io sono
dunque suo prigionier; dunque pretende...
Ulisse. No; ma è saggio consiglio
fuggir gl’inciampi. (vuol prenderlo per mano)

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Achille. (scostandosi) A me fuggir!

Ulisse.   Tronchiamo
le inutili dimore. Al mare, al mare,
or che l’onde ha tranquille.
  (lo prende per la mano e seco s’incammina)

SCENA III

Deidamia e detti.

Deidamia. Achille, ah! dove vai? Férmati, Achille!

(Achille si rivolge, vede Deidamia, e s’arrestano entrambi, guardandosi attentamente senza parlare)

Ulisse. (Or sí ch’io mi sgomento!) (avendo lasciato Achille)

Arcade. (E la gloria e l’amore ecco a cimento.)
Deidamia. Barbaro! è dunque vero? (con passione, ma senza sdegno)
Dunque lasciar mi vuoi?
Ulisse. (piano ad Achille) (Se a lei rispondi,
sei vinto.)
Achille. (ad Ulisse) (Tacerò.)
Deidamia.   Questa, o crudele,
questa bella mercede
serbavi a tanto amore? Alma sí atroce
celò quel dolce aspetto? Andate adesso,
credule amanti! alle promesse altrui
date pur fé! Quel traditor poc’anzi
mi giurava costanza: in un momento
tutto pose in obblio;
parte, mi lascia, e senza dirmi addio.
Achille. Ah!
Arcade.   (Non resiste.)
Deidamia.   E qual cagion ti rese
mio nemico in un punto? Io che ti feci?
Misera me! di qual delitto è pena
quest’odio tuo?

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Achille.   No, principessa...

Ulisse.   Achille!
Achille. Due soli accenti. (ad Ulisse)
Ulisse.   (Aimè!)
Achille.   No, principessa,
non son, qual tu mi chiami,
traditore o nemico. Eterna fede
giurai: la serberò. Legge d’onore
mi toglie a te; ma tornerò piú degno
de’ cari affetti tuoi. S’io parto e taccio,
odio non è né sdegno,
ma timore e pietá: pietá del tuo
troppo vivo dolor; téma del mio
valor poco sicuro. Uno previdi;
non mi fidai dell’altro. Io so che m’ami,
cara, piú di te stessa; io sento...
Ulisse.   Achille!
Achille. Eccomi!
Arcade.   (E pur non viene.)
Achille.   Io sento in petto...
Deidamia. Non piú: troppo, lo veggo,
troppo trascorsi. Al grande amor perdona
i miei trasporti. È ver: se stesso Achille
deve alla Grecia, al mondo
ed alle glorie sue. Va’; non pretendo
d’interromperne il corso: avrai seguaci
gli affetti, i voti miei. Ma, giá ch’io deggio
restar senza di te, sia meno atroce,
sia men súbito il colpo. Abbia la mia
vacillante virtú tempo a raccôrre
le forze sue. Chiedo un sol giorno; e poi
vattene in pace. Ah! non si niega a’ rei
tanto spazio a morir: temer degg’io
ch’abbia a negarsi a me?
Arcade.   (Se un giorno ottiene,
tutto otterrá.)

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Deidamia.   Pensi? non parli? e fisse

tieni le luci al suol?
Achille.   Che dici, Ulisse?
  (ad Ulisse, quasi con timore)
Ulisse. Che, signor di te stesso,
puoi partir, puoi restar; che a me non lice
premer piú questo suolo;
che a venir ti risolva, o parto solo.
Achille. (Che angustia!)
Deidamia.   E ben, rispondi.
Achille.   Io resterei,
ma... udisti? (accennandole Ulisse)
Ulisse.   E ben, risolvi.
Achille.   Io verrei teco,
ma... vedi? (accennandogli Deidamia)
Deidamia.   Eh! giá comprendo:
giá di partir scegliesti.
Va’ ingrato! Addio! (mostrando partire)
Achille. (seguendola) Ferma, Deidamia!
Ulisse.   Intendo:
hai la dimora eletta.
Resta, imbelle! io ti lascio. (mostrando partire)
Achille.   Ulisse, aspetta!
Deidamia. Che vuoi?
Ulisse.   Che brami?
Achille.   A compiacerti...
  (a Deidamia, poi da sé)
  (Oh stelle!
è debolezza.) (ad Ulisse) A seguitarti... (Oh numi!
è crudeltá.) Sí, ma la gloria esige...
No, l’amor mio non soffre... Oh gloria! oh amore!
Arcade. (È dubbio ancor chi vincerá quel core.)
Deidamia. E ben, giacché ti costa
sí picciola pietá pena sí grande,
piú non la chiedo. Or da te voglio un dono
che è piú degno di te. Parti; ma prima

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quel glorioso acciaro

immergi in questo sen. L’opra pietosa
giova ad entrambi. Ad avvezzarti. Achille,
tu cominci alle stragi; io fuggo almeno
un piú lungo morir. Tu lieto vai
senz’aver chi t’arresti; io son contenta
che quella destra amata,
arbitra di mia sorte,
se vita mi niegò, mi dia la morte. (piange)
Arcade. (Io cederei.)
Deidamia.   L’ultimo dono...
Achille.   Ah! taci;
ah! non pianger, mia vita. Ulisse, ormai
l’opporsi è tirannia.
Ulisse.   Lo veggo.
Achille.   Alfine
non chiede che un sol giorno. Un giorno solo
ben puoi donarmi.
Ulisse.   Oh! questo no. Men vado
d’Achille a’ duci argivi
le glorie a raccontar. Da me sapranno
qual nobile sudor le macchie indegne
lavi dei nome suo; quai scuse illustri
fa degli ozi di Sciro
giá la tua spada; e di qual serie augusta
va per te di trofei la fama onusta.
Achille. Ma valor non si perde...
Ulisse.   Eh! di valore
piú non parlar. Spoglia quell’armi; a Pirra
non sarian che d’impaccio.

(ai detti mordaci di Ulisse, Achille si turba, s’accende e sdegnasi per gradi)

  Olá! rendete

la gonna al nostro eroe. Riposi ormai,
ché sotto l’elmo ha giá sudato assai.
Arcade. (Vuol destarlo, e lo punge.)

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Achille.   Io Pirra! Oh dèi!

La gonna a me! (ad Ulisse)
Ulisse.   No? D’animo virile
desti gran prova inver. Non sei capace
di vincere un affetto.
Achille.   Ah! meglio impara
a conoscere Achille. Andiam! (risoluto)
Deidamia.   Mi lasci?
Achille. Sí!
Deidamia.   Come!
Achille.   All’onor mio
è funesto il restar; Deidamia, addio.

Achille parte risoluto ed ascende il ponte della nave, dove poi s’arresta. Ulisse ed Arcade il van seguendo: Deidamia rimane alcun tempo immobile.

Arcade. (Senti lo sprone.)

Ulisse.   (E pur non son sicuro.)
Deidamia. Ah, perfido! ah, spergiuro!
barbaro! traditor! Parti? E son questi
gli ultimi tuoi congedi? Ove s’intese
tirannia piú crudel! Va’, scellerato!
va’ pur, fuggi da me: l’ira de’ numi
non fuggirai. Se v’è giustizia in cielo,
se v’è pietá, congiureranno a gara
tutti, tutti a punirti. Ombra seguace,
presente ovunque sei,
vedrò le mie vendette. Io giá le godo
immaginando; i fulmini ti veggo
giá balenar d’intorno... Ah! no, fermate,
vindici dèi. Di tanto error se alcuno
forza è che paghi il fio,
risparmiate quel cor; ferite il mio.
S’egli ha un’alma sí fiera,
s’ei non è piú qual era, io son qual fui:
per lui vivea; voglio morir per lui.
  (sviene sopra un sasso)

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Achille. Lasciami! (ad Ulisse)

Ulisse.   Dove corri?
Achille. A Deidamia in aiuto.
Ulisse.   Ah! dunque...
Achille.   E speri
ch’io l’abbandoni in questo stato?
Ulisse.   È questa
di valore una prova.
Achille. (sdegnoso) Eh! tu pretendi
prove di crudeltá, non di valore.
Scòstati, Ulisse!
  (si fa strada con impeto e corre a Deidamia)
Arcade.   (Ha trionfato Amore.)
Achille. Principessa! ben mio! sentimi! Oh numi!
l’infelice non ode. Apri le luci,
guardami; Achille è teco.
Ulisse.   Arcade, il tempo
di sperar piú vittoria ora non parmi.
Cediamo il campo: adopreremo altr’armi.
  (parte con Arcade, non veduto da Achille)

SCENA IV

Achille, Deidamia, poi Nearco.

Deidamia. Aimè!

Achille.   Lode agli dèi,
comincia a respirar. No, mia speranza,
Achille non partí.
Deidamia.   Sei tu? m’inganno?
Che vuoi?
Achille.   Pace, cor mio.
Deidamia.   Potesti, ingrato,
negarmi un giorno solo! Ed or...
Achille.   Non fui

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io che m’opposi; eccoti il reo... Ma... come!

Non veggo Ulisse! Ah! mi lasciò...
Nearco.   Se cerchi
d’Ulisse, ei corre al re: dal re ti vuole,
or che scoperto sei.
Deidamia. (s’alza da sedere) Questa sventura
sol mancava fra tante. Ecco palese
al padre il nostro arcano.
Nearco.   Infino ad ora
nascosto non gli fu. Giá Teagene
cercò de’ tuoi trasporti,
ritrovò la cagione: al re sen corse,
ed ancora è con lui.
Deidamia.   Misera! oh dèi,
che fia di me! Se m’abbandoni, Achille,
a chi ricorrerò?
Achille.   Ch’io t’abbandoni
in periglio sí grande! Ah! no: sarebbe
fra le imprese d’Achille
la prima una viltá. Vivi sicura:
lascia pur di tua sorte a me la cura.
               Tornate sereni,
          begli astri d’amore:
          la speme baleni
          fra il vostro dolore:
          se mesti girate,
          mi fate morir.
               Oh Dio! lo sapete,
          voi soli al mio core,
          voi date e togliete
          la forza e l’ardir. (parte)

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SCENA V

Deidamia e Nearco.

Deidamia. Nearco, io tremo: ah! mi consola.

Nearco.   E come
consolarti poss’io, se son piú oppresso,
piú confuso di te?
Deidamia.   Numi clementi,
se puri, se innocenti
furon gli affetti miei, voi dissipate
questo nembo crudel: voi gl’inspiraste;
proteggeteli voi. Se colpa è amore,
sí, lo confesso, errai;
ma grande è la mia scusa: Achille amai.
          Chi può dir che rea son io,
     guardi in volto all’idol mio,
     e le scuse del mio core
     da quel volto intenderá:
          da quel volto, in cui ripose,
     fausto il ciel, benigno Amore,
     tante cifre luminose
     di valore e di beltá. (parte)

SCENA VI

Nearco solo.

Di tue cure felici

or va’, Nearco, insuperbisci. A Teti
di’ che il feroce Achille
sapesti moderar. Vanta gli scaltri
lusinghieri discorsi; ostenta i molli

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piacevoli consigli. Ecco perduti

gli accorgimenti e l’arti. Il solo Ulisse
tutto a scompor bastò. Qual astro infido
fu mai quel che lo scòrse a questo lido!
               Cedo alla sorte
          gli allori estremi;
          non son piú forte
          per contrastar.
               Nemico è il vento,
          l’onda è infedele;
          non ho piú remi,
          non ho piú vele;
          e a suo talento
          mi porta il mar. (parte)

SCENA VII

Reggia.

Licomede, Achille, Teagene, con numeroso corteggio.

Achille. Né di risposta ancora

Licomede mi degna?
Teagene.   È troppo ormai,
gran re, lungo il silenzio. I prieghi miei,
le richieste d’Achille
soddisfa alfin. Che ti sospende? È forse
la fé che a me donasti? Ah! non son io
tanto incognito a me, che oppormi ardisca
a sí grande imeneo. So quanto il mondo
debba quindi aspettar; veggo che in cielo
si preparò: tante vicende insieme
non tesse mai senza mistero il Fato.
Che sdegnar ti potria? L’amor? Ma quando
fu colpa in cor gentile

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un innocente amor? L’inganno? È Teti

la rea: giá fu punita. Ella in tal guisa
celare ad ogni ciglio
il figlio volle, e fe’ palese il figlio.
Oh, come al nodo illustre
la terra esulterá, che mai non vide
tanto valor, tanta bellezza e tante
virtudi unir! Qual di tai sposi il cielo
cura non prenderá, se ne deriva
l’uno e l’altro egualmente! E quai nipoti
attenderne dovrai, se tutti eroi
furon gli avi d’Achille e gli avi tuoi!
Achille. (Chi mai sperato avrebbe
in Teagene il mio sostegno!)
Licomede.   Achille,
sí grande questo nome
suona nell’alma mia, che usurpa il loco
a tutt’altro pensier. Che dir poss’io
dell’imeneo richiesto? Il generoso
Teagene l’applaude, il ciel lo vuole,
tu lo domandi: io lo consento. Ammiro
sí strani eventi; e, rispettoso, in loro
del consiglio immortal gli ordini adoro.
Achille. Ah, Licomede!... Ah, Teagene!... Andate
la mia sposa, il mio bene,
custodi, ad affrettar.
(a Teagene) Principe, oh quanto,
quanto ti deggio mai! Padre, signore,
come a sí caro dono
grato potrò mostrarmi?
Licomede.   A Licomede
l’esser padre a tal figlio è gran mercede.
               Or che mio figlio sei,
     sfido il destin nemico;
     sento degli anni miei
     il peso alleggerir.

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          Cosí chi a tronco antico

     florido ramo innesta,
     nella natia foresta
     lo vede rifiorir.

SCENA ULTIMA

Ulisse, poi Deidamia, e detti; indi tutti.

Achille. Ah! vieni, Ulisse. I miei felici eventi

sapesti forse?
Ulisse.   Assai diversa cura
qui mi conduce. Eccelso re, conviene
che, deposto ogni velo, alfin t’esponga
della Grecia il voler. Sappi...
Licomede.   Giá tutto
mi è noto: a parte a parte alle richieste
risponderò.
Achille. (incontrandola) Mia cara sposa, alfine
giungesti pur. Non tel diss’io? La sorte
non cambiò di sembianza?
Deidamia. (inginocchiandosi) A’ piedi tuoi,
mio re, mio genitor...
Licomede.   Sorgi. (Deidamia si alza)
  È soverchio
ciò che dir mi vorresti. Io giá de’ fati
tutto l’ordine intendo. Una gran lite
compor bisogna; a me s’aspetta: udite.
Tutto del cor d’Achille
l’impero ad usurpar pugnano a gara
e la gloria e l’amor. Questo capace
sol di teneri affetti, e quella il vuole
tutto sdegni guerrieri. Ingiusti entrambi,
chiedon soverchio. E che sarebbe, Ulisse,
il nostro eroe, se respirasse ognora

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ira e furor? Qual diverrebbe, o figlia,

se languir si vedesse
sempre in cure d’amor? Dove lo chiama
la tromba eccitatrice,
vada, ma sposo tuo. Ti torni al fianco,
ma cinto di trofei. Co’ suoi riposi
del sudor si ristori,
e col sudore i suoi riposi onori.
Achille. Sposa, Ulisse, che dite?
Deidamia.   Alle paterne
giuste leggi m’accheto.
Ulisse. Lieta il saggio decreto
ammirerá la Grecia.
Achille.   Or non mi resta
che desiar.
Licomede.   Gl’illustri sposi unisca
il bramato da lor laccio tenace;
e la gloria e l’amor tornino in pace.
Coro.   Ecco, felici amanti,
     ecco Imeneo giá scende:
     giá la sua face accende,
     spiega il purpureo vel.
          Ecco a recar sen viene
     le amabili catene,
     a voi, per man de’ numi,
     giá fabbricate in ciel.

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Mentre cantasi il coro che precede, scenderá dall’alto denso globo di nuvole, che prima ingombrerá, dilatandosi, gran parte della reggia, e scoprirá poi agli spettatori il luminoso tempio della Gloria, tutto adornato de’ simulacri di coloro ch’ella rese immortali. Si vedranno in aria innanzi al tempio medesimo la Gloria, Amore ed il Tempo, ed in sito men sollevato numerose schiere di lor seguaci.

La Gloria, Amore ed il Tempo.

La Gloria. E quale a me vi guida,

rivali dèi, nuova cagione? Amore,
che a sedurmi i seguaci
sempre pensò; l’invido Tempo, inteso
ad oscurarmi ognor, come in un punto
cambia costume, e l’uno e l’altro amico
orma in volto non ha dell’odio antico!
Il Tempo. Non v’è piú sdegno in cielo.
Amore.   A’ numi ancora
questa lucida aurora
messaggera è di pace. Oggi dell’Istro
su la sponda real l’aníme auguste
di Teresa e Francesco
stringe nodo immortale. Opra è d’Amore
la fiamma lor; ma di sí bella fiamma
deggio i princípi a te. Bastar potea
quella sola a destarla, onde son cinte,
maestosa beltá; ma trarla io volli
da fonti piú sublimi. Agli alti sposi
le scambievoli esposi
proprie glorie ed avite, e le comuni
vive brame d’onor. L’anime grandi
si ammirâro a vicenda, e sé ciascuna
nell’altra ravvisò. Le rese amanti
tal somiglianza. Indi in entrambe Amore
fu cagione ed effetto; in quella guisa

[p. 261 modifica]
che il moto, ond’arde e splende

face a face congiunta, acquista e rende.
Ah! mentre il fuoco mio,
se alimento ha da te, tanto prevale
tuo seguace son io, non tuo rivale.
Il Tempo. Né me, dea degli eroi,
tuo nemico chiamar. Come oscurarti
dopo un tale imeneo? Su’ grandi esempi
e di Carlo e d’Elisa i regi sposi
formâr se stessi. Or che gli accoppia il cielo
propagheran ne’ figli
le cesaree virtú. Qual ombra opporre
a tanto lume? Ah! non lo bramo: altèro
son d’esser vinto. A’ secoli venturi
dian nome i grandi eredi. Io della loro
inestinguibil lode
farò tesoro e ne sarò custode.
La Gloria. Giunse dunque una volta il dí felice,
di cui tanto nel cielo
si ragionò? che le speranze accoglie
di tanti regni, e che precorso arriva
da tanti voti? Oh lieto dí! Corriamo,
amici dèi, della festiva reggia
ad accrescer la pompa. Unir conviene
a pro de’ chiari sposi
tutte le nostre cure.
Amore.   Al nobil fuoco,
che in lor destai, somministrar vogl’io
sempre nuovo alimento.
Il Tempo.   Io de’ lor anni
lunghissimo e tranquillo
il corso reggerò.
Amore.   Per me d’eroi
il talamo reale
sará fecondo.
Il Tempo.   Io serberò gli esempi

[p. 262 modifica]
degli atavi remoti

ai piú tardi nipoti.
La Gloria.   Io fui di quelli,
io di questi sarò compagna e duce:
tutti i lor nomi io vestirò di luce.
Tutti tre.   Tutti venite, o dèi,
     il nodo a celebrar,
     i dolci ad affrettar
     bramati istanti.
Coro.   Ecco, felici amanti,
     ecco Imeneo giá scende:
     giá la sua face accende,
     spiega il purpureo vel.
Tutti.   Ecco a recar sen viene
     le amabili catene,
     a voi, per man de’ numi,
     giá fabbricate in ciel.