Achille in Sciro/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I
Logge terrene adornate di statue rappresentanti varie imprese d’Ercole.
Ulisse ed Arcade.
signor, giá preparai. Son pronti i doni
da presentarsi al re. Mischiai fra quelli
il militare arnese
lucido e terso. I tuoi seguaci istrussi,
che simular dovranno
il tumulto guerrier. Spiegami alfine
sí confuso comando:
tutto ciò che ti giova? e dove? e quando?
Ulisse. Fra mille ninfe e mille
per distinguere Achille.
Arcade. E come?
Ulisse. Intorno
a quell’elmo lucente, a quell’usbergo
lo vedrai vaneggiar. Ma, quando ascolti
il suon dell’armi, il generoso invito
delle trombe sonore, allor vedrai
quel fuoco, a forza oppresso,
scoppiar feroce e palesar se stesso.
Arcade. Di troppo ti lusinghi.
Ulisse. Io so d’Achille
l’indole bellicosa; io so che all’armi
si avvezzò dalle fasce, e so che invano
si preme un violento
genio natio, che diventò costume.
Fra le sicure piume,
salvo appena dal mar, giura il nocchiero
giá di nuovo son chiare;
abbandona le piume e corre al mare.
Arcade. Hai pur tant’altri indizi.
Ulisse. Ogni altro indizio,
solo, è dubbioso: a questa prova unito,
certezza diverrá. Quella è la prova,
Arcade, piú sicura,
dove co’ moti suoi parla natura.
Arcade. Ma, se, come supponi,
ama Deidamia, anche palese, a lei
toglierlo non potrem.
Ulisse. Con l’arti occulte
pria s’astringa a scoprirsi; indi, scoperta,
assalirò quell’alma a forza aperta.
Le addormentate allora
fiamme d’onor gli desterò nel seno;
arrossir lo farò.
Arcade. Sí, ma non veggo
agio a parlargli. È custodito in guisa...
Ulisse. L’occasion si attenda; e, se non giunge,
nascer si faccia. Io tenterò...
Arcade. T’accheta:
vien Pirra a noi. Parlale adesso.
Ulisse. Eh! lascia
che venga per se stessa. Ad altro inteso
mi fingerò. Tu destramente intanto
osservane ogni moto.
SCENA II
Achille in disparte e detti.
che la Grecia inviò. Se la mia bella
non lo vietasse, oh qual diletto avrei
ch’io l’osservi, non dee.)
Ulisse. (piano ad Arcade) (Che fa?)
Arcade. (piano ad Ulisse) (Ti mira.)
Ulisse. Di questo albergo invero
ogni arredo è real. Gli sculti marmi
(guardando le statue)
sembran pieni di vita. Eccoti Alcide
che l’idra abbatte. Ah! gli si vede in volto
lo spirito guerrier. L’anima eccelsa
gli ha l’industre maestro in fronte accolta.
(Guarda se m’ode.) (piano ad Arcade)
Arcade. (piano ad Ulisse) (Attentamente ascolta.)
Ulisse. Ecco quando dal suolo
solleva Anteo per atterrarlo; e l’arte
qui superò se stessa. Oh, come accende,
quando è sí al vivo espresso,
di virtude un esempio! Io giá vorrei
essere Alcide. Oh generoso, oh grande,
oh magnanimo eroe! Vivrá il tuo nome
mille secoli e mille.
Achille. (Oh dèi, cosí non si dirá d’Achille!)
Ulisse. (Ed or?) (piano ad Arcade)
Arcade. (S’agita e parla.) (piano ad Ulisse)
Ulisse. (Osserva adesso.)
Che miro! Ecco l’istesso (volgendosi ad altra parte)
terror dell’Erimanto
in gonna avvolto alla sua Iole accanto.
Ah! l’artefice errò. Mai non dovea
a questa di viltá memoria indegna
avvilir lo scarpello:
qui Alcide fa pietá; non è piú quello.
Achille. (È vero, è vero. Oh mia vergogna estrema!)
Ulisse. (Arcade, che ti par?)
Arcade. (Parmi che frema.)
Ulisse. (Dunque si assalga.) (s’incammina verso Achille)
il disegno non scopra.)
Ulisse. (Ah! m’interrompe in sul finir dell’opra.)
SCENA III
Licomede e detti.
Vedi che il sol di giá tramonta: onori
un ospite sí grande
le mense mie.
Ulisse. Mi sará legge il cenno,
invittissimo re. (in atto di ritirarsi, si ferma per ascoltar quanto gli dice Licomede)
Licomede. Le navi e l’armi,
che a chieder mi venisti, al nuovo giorno
radunate vedrai; vedrai di quanto
superai la richiesta, ed a qual segno
gli amici onoro e un messaggier sí degno.
Ulisse. Sempre eguale a se stesso
è del gran Licomede
il magnanimo cor. Da me sapranno
i congiurati a danno
della Frigia infedel principi achei
quanto amico tu sei. Né lieve prova
ne fian l’armi e le navi,
che ti piacque apprestarmi.
(Altro quindi io trarrò che navi ed armi.)
Quando il soccorso apprenda
che dal tuo regno io guido,
dovrá sul frigio lido
Ettore impallidir.
Piú gli fará spavento
questo soccorso solo,
che ogni guerriero stuolo,
che quante vele al vento
seppe la Grecia aprir. (parte con Arcade)
SCENA IV
Licomede, Achille e poi Nearco.
da te la pace mia.
Achille. Perché?
Licomede. Se vuoi
impiegarti al mio pro, rendi felice
un grato re.
Achille. Che far poss’io?
Licomede. M’avveggo
che a Deidamia spiace
unirsi a Teagene.
Achille. (comincia a turbarsi) E ben?
Licomede. Tu puoi
tutto sul cor di lei.
Achille. Come! e vorresti
da me...
Licomede. Sí, che la scelta
tu le insegnassi a rispettar d’un padre;
ché i merti del suo sposo
le facessi osservar; che amor per lui
le inspirassi nel seno, onde l’accolga
com’è il dover d’un’amorosa moglie.
Achille. (Questo pur deggio a voi, misere spoglie!) (con ira)
Licomede. Che dici?
Achille. E tu mi credi (reprimendosi a forza)
opportuno istromento... Ah! Licomede,
mal mi conosci. Io!... numi eterni, io!... Cerca
mezzo miglior.
Teagene uno sposo
che non meriti amor?
Achille. (Mi perdo. Io sento
che soffrir piú non posso.)
Licomede. Alfin la figlia,
dimmi, a qual altro mai
meglio unir si potea?
Achille. (Soffersi assai.)
Signor... (risoluto)
Nearco. Le regie mense,
Licomede, son pronte.
Licomede. Andiamo. Udisti,
Pirra, i miei sensi: a te mi fido. Ah! sia
frutto del tuo sudor la pace mia.
Fa’ che si spieghi almeno
quell’alma contumace:
se l’amor mio le piace,
se vuol rigor da me.
Di’ che ho per lei nel seno
di re, di padre il core:
che appaghi il genitore,
o che ubbidisca il re. (parte)
SCENA V
Achille e Nearco.
piú di riguardi: ho stabilito. Adesso
non sperar di sedurmi. Andiamo.
Nearco. E dove?
Achille. A depor queste vesti. E che! degg’io
passar cosí vilmente
tutti gli anni migliori? E quanti oltraggi
ch’altri deride; ingiurioso impiego
or m’odo imporre; or negli esempi altrui
i falli miei rimproverar mi sento.
Son stanco d’arrossirmi ogni momento.
Nearco. Un rossor ti figuri...
Achille. Ah! taci: assai
ho tollerato i tuoi
vilissimi consigli. Altri ne intesi
dal tessalo maestro; e allor sapea
vincer nel corso i venti,
abbatter fiere e valicar torrenti.
Ed ora... Ah! che direbbe,
se in questa gonna effeminato e molle
mi vedesse Chirone? Ove da lui
m’asconderei? Che replicar, se in volto
rigido mi chiedesse: — Ov’è la spada,
ove l’altr’armi, Achille? Ah! di mie scuole
tu non serbi altro segno
che la cetra avvilita ad uso indegno. —
Nearco. Basta, signor: piú non m’oppongo. Alfine
son persuaso anch’io.
Achille. Ti par, Nearco,
quest’ozio vergognoso
degno di me?
Nearco. No: lo conosco; è tempo
che dal sonno ti desti,
che ti svolga da questi
impacci femminili, e corra altrove
a dar del tuo gran cor nobili prove.
È ver che Deidamia,
priva di te, non avrá pace, e forse
ne morrá di dolor; ma, quando ancora
n’abbia a morir, non t’arrestar per lei:
vagliono la sua vita i tuoi trofei.
Achille. Morir! Dunque tu credi
di vedersi lasciar?
Nearco. Costanza! E come
potrebbe averne una donzella amante,
che perda il solo oggetto
della sua tenerezza, il sol conforto,
l’unica sua speranza?
Achille. Oh dèi!
Nearco. Non sai
che, se ti scosti mai
da’ suoi sguardi un momento, è giá smarrita,
non ha riposo, a ciaschedun ti chiede,
ti vuol da tutti? E in questo punto istesso
come credi che stia? Giá non ha pace,
giá dubbiosa e tremante...
Achille. Andiamo!
Nearco. E sei
pronto a partir?
Achille. No: ritorniamo a lei.
Potria fra tante pene
lasciar l’amato bene
chi un cor di tigre avesse.
Né basterebbe ancor;
ché quel pietoso affetto,
che a me si desta in petto,
senton le tigri istesse,
quando le accende amor. (parte)
SCENA VI
Nearco solo.
miracolo d’amor! Si muova all’ira,
è terribile Achille; arte non giova,
nudo in mezzo agl’incendi, andrebbe solo
ad affrontar mille nemici e mille.
Pensi a Deidamia, è mansueto Achille.
Cosí leon feroce,
che sdegna i lacci e freme,
al cenno d’una voce
perde l’usato ardir,
ed a tal segno obblia
la feritá natia,
che quella man che teme
va placido a lambir. (parte)
SCENA VII
Gran sala illuminata in tempo di notte, corrispondente a diversi appartamenti, parimente illuminati. Tavola nel mezzo; credenze all’intorno; logge nell’alto, ripiene di musici e spettatori.
Licomede, Teagene, Ulisse e Deidamia, seduti a mensa; Arcade in piedi, accanto ad Ulisse; Achille in piedi, accanto a Deidamia; e per tutto cavalieri, damigelle e paggi.
cure ingrate, molesti pensieri;
no, non lice — del giorno felice
che un istante si venga a turbar.
Dolci affetti, diletti sinceri
porga Amore, ministri la Pace,
e da’ moti di gioia verace
lieta ogni alma si senta agitar.
Lungi lungi fuggite fuggite,
cure ingrate, molesti pensieri;
no, non lice — del giorno felice
che un istante si venga a turbar.
di cretense liquor.
Deidamia. Pirra, lo sai:
se di tua man non viene,
l’ambrosia degli dèi
vil bevanda parrebbe a’ labbri miei.
Achille. Ubbidisco. Ah! da questa
ubbidienza mia
vedi se fido sia di Pirra il core.
Teagene. (Che strano affetto!) (guardando Deidamia ed Achille)
Achille. (nell’andar a prender la tazza) (Oh tirannia d’amore!)
Licomede. Quando da’ greci lidi i vostri legni
l’áncora scioglieranno? (ad Ulisse)
Ulisse. Al mio ritorno.
Teagene. Son giá tutti raccolti?
Ulisse. Altro non manca
che il soccorso di Sciro.
Licomede. Oh, qual mi toglie
spettacolo sublime
la mia canuta etá!
Un paggio porge la tazza ad Achille: egli, nel prenderla resta attonito ad ascoltare il discorso artifizioso di Ulisse.
l’opportuno momento.) È di te degna,
gran re, la brama. Ove mirar piú mai
tant’armi, tanti duci,
tante squadre guerriere,
tende, navi, cavalli, aste e bandiere?
Tutta Europa v’accorre. Ormai son vuote
le selve e le cittá. Da’ padri istessi,
da’ vecchi padri invidiata e spinta,
la gioventú proterva
corre all’armi fremendo. (Arcade, osserva.)
Deidamia. Pirra!
Achille. È ver. (si riscuote, prende la tazza, s’incammina, poi torna a fermarsi)
sente stimoli in sen, chi sa che sia
desio di gloria, or non rimane. Appena
restano, e quasi a forza,
le vergini, le spose; e alcun, che dura
necessitá trattien, col ciel s’adira,
come tutti gli dèi l’abbiano in ira.
Deidamia. Ma Pirra!
Achille. Eccomi. (va colla tazza a Deidamia)
Deidamia. (piano ad Achille, nel prendere la tazza)
(Ingrato!
questi di poco amor segni non sono?)
Achille. (Non ti sdegnar, bell’idol mio: perdono!)
Licomede. Olá! rechisi a Pirra
l’usata cetra. A lei, Deidamia, imponi
che alle corde sonore
la voce unisca e la maestra mano:
tutto fará per te.
Deidamia. Pirra, se m’ami,
seconda il genitore.
Achille. Tu il vuoi? Si faccia. (Oh tirannia d’amore!)
Un paggio gli presenta la cetra: altri pongono un sedile da un de’ lati, a vista della mensa.
Ulisse. (Arcade, adesso è tempo: intendi?) (piano ad Arcade)
Arcade. (piano ad Ulisse) (Intendo.) (parte)
Achille. (canta, accompagnandosi con la lira)
Se un core annodi,
se un’alma accendi,
che non pretendi,
tiranno Amor?
Vuoi che al potere
delle tue frodi
ceda il sapere,
ceda il valor.
se un’alma accendi,
che non pretendi,
tiranno Amor?
Achille. Se in bianche piume
de’ numi il nume
canori accenti
spiegò talor;
se fra gli armenti
muggí negletto,
fu solo effetto
del tuo rigor.
Coro. Se un core annodi,
se un’alma accendi,
che non pretendi,
tiranno Amor?
Achille. De’ tuoi seguaci
se a far si viene,
sempre in tormento
si trova un cor;
e vuoi che baci
le sue catene,
che sia contento
del suo dolor.
Coro. Se un core annodi,
se un’alma accendi,
che non pretendi,
tiranno Amor?
Al comparir dei doni portati da’ seguaci di Ulisse s’interrompe il canto d’Achille.
Ulisse. Son miei seguaci; e al piede
portan di Licomede
questi, per cenno mio, piccioli doni,
che d’Itaca recai. Lo stile usato
d’ospite non ingrato
il costume m’assolva.
Licomede. Eccede i segni
sí generosa cura.
Achille. (Oh ciel, che miro!)
(avvedendosi d’un’armatura, che venne fra’ doni)
Licomede. Mai non si tinse in Tiro
porpora piú vivace. (ammirando le vesti)
Teagene. (ammirando i vasi) Altri finora
sculti vasi io non vidi
di magistero egual.
Deidamia. (ammirando le gemme) L’eoa marina
non ha lucide gemme al par di quelle.
Achille. Ah, chi vide finora armi piú belle!
(si leva, per andare a veder piú da vicino le armi)
Deidamia. Pirra, che fai? Ritorna
agl’interrotti carmi.
Achille. (Che tormento crudele!) (torna a sedere)
Di dentro. All’armi! all’armi!
Arcade. (esce, simulando spavento) Ah! corri Ulisse,
corri l’impeto insano
de’ tuoi seguaci a raffrenar.
Ulisse. (fingendo esser sorpreso) Che avvenne?
Arcade. Non so per qual cagion fra lor s’accese
e i custodi reali
feroce pugna. Ah! qui vedrai fra poco
lampeggiar mille spade.
Deidamia. Aita, o numi!
dove corro a celarmi? (parte intimorita)
Teagene. Férmati, principessa. (parte, seguendola)
Di dentro. All’armi! all’armi!
SCENA VIII
Achille, ed Ulisse con Arcade in disparte.
le chiome sollevar! Qual nebbia i lumi
offuscando mi va? Che fiamma è questa,
onde sento avvamparmi?
Ah! frenar non mi posso: all’armi! all’armi!
(s’incammina furioso, e poi si ferma, avvedendosi d’avere in mano la cetra)
Achille. E questa cetra
dunque è l’arme d’Achille? Ah! no; la sorte
altre n’offre, e piú degne. A terra, a terra,
vile stromento!
(getta la cetra e va all'armi, portate co’ doni di Ulisse)
All’onorato incarco
dello scudo pesante
torni il braccio avvilito: (imbraccia lo scudo)
in questa mano
lampeggi il ferro. (impugna la spada)
Ah! ricomincio adesso
a ravvisar me stesso. Ah, fossi a fronte
a mille squadre e mille!
Ulisse. E qual sará, se non è questo, Achille? (palesandosi)
Achille. Numi! Ulisse, che dici?
Ulisse. Anima grande,
prole de’ numi, invitto Achille, alfine
lascia che al sen ti stringa. Eh! non è tempo
di finger piú. Sí, tu la speme sei,
tu l’onor della Grecia,
tu dell’Asia il terror. Perché reprimi
gl’impeti generosi
secondali, signor. Lo so, lo veggo,
raffrenar non ti puoi. Vieni: io ti guido
alle palme, a’ trofei. La Grecia armata
non aspetta che te. L’Asia nemica
non trema che al tuo nome. Andiam!
Achille. (risoluto) Sí, vengo.
Guidami dove vuoi... Ma... (si ferma)
Ulisse. Che t’arresta?
Achille. E Deidamia?
Ulisse. E Deidamia un giorno
ritornar ti vedrá cinto d’allori
e piú degno d’amore.
Achille. E intanto...
Ulisse. E intanto,
che d’incendio di guerra
tutta avvampa la terra, a tutti ascoso,
qui languir tu vorresti in vil riposo?
Diria l’etá futura;
— Di Dardano le mura
Diomede espugnò; d’Ettore ottenne
le spoglie Idomeneo; di Priamo il trono
miser tutto in faville
Stenelo, Aiace... E che faceva Achille?
Achille, in gonna avvolto,
traea, misto e sepolto
fra le ancelle di Sciro, i giorni sui,
dormendo al suon delle fatiche altrui. —
Ah! non sia ver. Dèstati alfine; emenda
il grave error: piú non soffrir che alcuno
ti miri in queste spoglie. Ah, se vedessi
quale oggetto di riso
con que’ fregi è un guerriero! In questo scudo
lo puoi veder. Guardati, Achille. (gli leva lo scudo)
Dimmi:
ti riconosci? (presentandogli lo scudo)
impacci del valor, come finora
tollerar vi potei? Guidami, Ulisse,
l’armi a vestir. Fra questi ceppi avvinto
piú non farmi penar.
Ulisse. Sieguimi. (Ho vinto.) (s’incamminano)
SCENA IX
Nearco e detti.
Achille. (rivolgendosi con isdegno) Anima vile!
quel vergognoso nome
piú non t’esca da’ labbri: i miei rossori
non farmi rammentar. (partendo)
Nearco. Senti: tu parti?
E la tua principessa?
Achille. (rivolgendosi) A lei dirai...
Ulisse. Achille, andiam!
Nearco. Che posso dirle mai?
Achille. Dille che si consoli;
dille che m’ami; e dille
che partí fido Achille,
che fido tornerá.
Che a’ suoi begli occhi soli
vuo’ che il mio cor si stempre;
che l’idol mio fu sempre,
che l’idol mio sará.
(parte con Ulisse ed Arcade)
SCENA X
Nearco, poi Deidamia.
strugge ogni mia speranza! Ove m’ascondo,
se parte Achille? e chi di Teti all’ira
m’involerá? Tanti sudori, oh stelle!
tant’arte, tanta cura...
Deidamia. Ov’è, Nearco,
il mio tesoro?
Nearco. Ah! principessa, Achille
non è piú tuo.
Deidamia. Che!
Nearco. T’abbandona.
Deidamia. I tuoi
vani sospetti io giá conosco. Ognora
cosí mi torni a dir.
Nearco. Volesse il ciclo
ch’or m’ingannassi. Ah! l’ha scoperto Ulisse,
l’ha sedotto, il rapisce.
Deidamia. E tu, Nearco,
cosí partir lo lasci? Ah, corri! ah, vola!...
Misera me! Senti. Son morta! Ah, troppo,
troppo il colpo è inumano!
Che fai? non parti?
Nearco. Io partirò, ma invano. (parte)
SCENA XI
Deidamia, poi Teagene.
mi lascia Achille! E sará vero? E come,
come poté l’ingrato
le promesse di fede?
le proteste d’amor? Cosí... Ma, intanto
ch’io mi struggo in querele,
l’empio scioglie le vele. Andiam: si tenti
di trattenerlo. Il mio dolor capace
di riguardi or non è. Vadasi; e, quando
né pur questo mi giovi, almen sul lido
spirar mi vegga, e parta poi l’infido.
Teagene. Amata principessa.
Deidamia. (con impazienza) (Oh me infelice!
che inciampo è questo!)
Teagene. Io del tuo cor vorrei
intender meglio...
Deidamia. Or non è tempo. (in atto di partire)
Teagene. (seguendola) Ascolta.
Deidamia. Non posso.
Teagene. Un solo istante.
Deidamia. (impaziente) Oh numi!
Teagene. Alfine
mia sposa al nuovo giorno...
Deidamia. Ma, per pietá, non mi venir d’intorno!
Non vedi, tiranno,
ch’io moro d’affanno;
che bramo che in pace
mi lasci morir?
che ho l’alma sí oppressa,
che tutto mi spiace,
che quasi me stessa
non posso soffrir? (parte)
SCENA XII
Teagene solo.
stravaganze sí nuove? A che mi parla
Deidamia cosí? Delira o cerca
di farmi delirar? Sogno? son desto?
Dove son mai? Che laberinto è questo!
Disse il ver? parlò per gioco?
Mi confondo a’ detti sui,
e comincio a poco a poco
di me stesso a dubitar.
Pianger fanno i pianti altrui,
sospirar gli altrui sospiri;
ben potrian gli altrui deliri
insegnarmi a delirar. (parte)