Abissinia/Capitolo XI
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CAPITOLO XI.
Doni del re. — Partenza dal campo reale. — Compagni di viaggio. — Villaggio poco ospitaliero. — Accoglienza poco cordiale di ras Area. — Gondar. — Traccia di strada. — Re Teodoro. — Le piogge. — Il Semien. — Emozioni. — Passaggio del Taccazé. — Arrivo in Adua.
Il re volle consegnarci una sua lettera da presentare al nostro sovrano ed inviargli in dono due piccoli leoni che aveva ricevuti dal Goggiam e stava addomesticando per tenerli a fianco al suo trono, come altre volte faceva e come è tradizione dei re d’Etiopia, e desiderando dare a noi una sua memoria, ed esserci utili nel nostro viaggio di ritorno, ci mandò in regalo tre mule elegantemente bardate con selle di distinzione che non si possono portare in paese se non date dalle sacre mani di Sua Maestà. Sono in pelle rossa e verde, e la gualdrappa che scende a lunghe punte ricamata con disegni originalissimi quanto primitivi che pretendono rappresentare leoni, guerrieri, croci cofte ed altri ornamenti.
La mattina del 21 giugno, lasciamo il colle di Gafat, questa residenza reale dove provammo tante emozioni e tante soddisfazioni, e accompagnati dei Naretti e da qualcuno della Corte che ci vogliono scortare per breve tratto, proseguiamo verso ovest, rifacendo in parte la strada fatta nel venire, e ci fermiamo un’ora prima del tramonto presso un villaggio all’altezza di 2000 metri, dove malgrado gli ordini del re ci rifiutano qualsiasi ospitalità, persino l’acqua.
Al momento della partenza fummo affidati ad un giovane soldato, logoro e schifoso da destare ribrezzo e pietà, che doveva esserci di guida ed ottenerci in nome del suo Sovrano, ad ogni villaggio che incontravamo sulla nostra via, tanta roba da mantenere un reggimento. Una lettera dataci dal re e diretta a tutti i governatori, capi dei villaggi, preti, ci raccomandava e minacciava severe punizioni in caso di rifiuto all’adempimento di questi ordini, ma sono così scarsi quelli che in Abissinia sanno leggere, che anche questo documento finisce per diventare inutile, oso dire, derisorio.
Nove prigionieri abissinesi, tenuti da un tronco d’albero che con una forcella ad un’estremità serra loro il collo, e scortati da parecchi soldati, sono destinati a fare il viaggio con noi fino al campo di ras Area, lo zio del re dal quale siamo chiamati. La compagnia non era certo la più simpatica, ma in questi paesi bisogna sorpassare a molte cose; d’altronde noi siamo a mula e vogliamo fare marce forzate, per cui dopo poco cammino li lasciamo e proseguiamo per conto nostro.
Il giorno appresso la guida lega per bene l’ostile capo del villaggio e lo trascina per portarlo a scontare il fio della sua mancanza, ma i preti si presentano in funzione, colle croci in testa e seguiti da molto popolo ad implorare il nostro perdono che ci mostriamo risoluti a rifiutare. Fatta poca via però siamo fermati da un baccano misto di suoni e gridi; sono l’allarme che i ministri di Dio danno, e la raccolta ai fedeli per inseguirci in massa e colla forza ottenere la libertà del capo. Per evitare guai, nei quali certo saremmo sopraffatti dal numero, e d’altronde avendo ben poco a guadagnare dalla compagnia del nostro prigioniero, testimoni i preti, lo dichiariamo assolto dalla sua colpa, purchè venga ad accompagnarci fino alla sera e ci ottenga dal nuovo capo quello che desideriamo. Così fu pattuito, ma lungo la strada scomparve fra boscaglie e fuggì. Dopo una traversata Spade. 1. biscerina. 2. abissinesi 3. Sella e briglia di distinzione regalateci da Re Giovanni. 4 Decorazione militare. di diverse alture coltivate e ben vestite da vegetazione, dalle quali godiamo sulla nostra sinistra l’esteso panorama del lago Tzana, scendiamo in una sterminata pianura nel mezzo della quale ci andiamo a fermare presso alcune capanne, abitate da miseri pastori che non trovandosi in forza di reagire vengono a supplicarci colle lagrime di risparmiar loro il tributo, perchè mancanti persino del pane per vivere. Ci accontentiamo quindi di qualche piccola cosa che ricompensiamo con moneta.
Tutti i giorni verso le tre il cielo si copre e ci accompagnano pioggie dirotte che ci preparano bene inzuppato il terreno sul quale dobbiamo poi piantare la tenda e sdrajarci, salvo poi continuare la notte e colla pendenza del suolo formarsi una corrente d’acqua, che mentre dormiamo ci cura idroterapicamente il dorso.
Lunedì 23. Proseguendo a nord-ovest attraversiamo la vasta pianura a poca distanza dal lago, con un caldo soffocante; alla nostra destra ci maschera il Gondar una bella catena di monti, uno dei contrafforti del gruppo del Semien che fra pochi giorni visiteremo. Usciamo dalla provincia di Begemeder ed entriamo in quella di Dembea che è sotto il governo del vecchio ras Area che ci fu dipinto come affabile e di modi cortesi cogli Europei, ma il più severo e crudele coi suoi; è il solo che ancora abbia inflitta la pena dell’accecamento, malgrado il re vi sia contrario. Lungo il lago masse di ardee, anatre, oche selvatiche e cento altre varietà di selvaggina, da coprire letteralmente acqua e spiaggia. Sono talmente ingenui sui tranelli che l’uomo può tendere loro, che si lasciano assai facilmente avvicinare, ed al tiro del fucile non fanno che sollevarsi in massa per rimettersi a pochi metri di distanza. Giunti all’estremità del lago pieghiamo leggermente a nord, e, attraversati molti campi coltivati, ci accingiamo alla salita del colle di Genda, i cui versanti sono occupati dall’accampamento delle truppe e il vertice dal solito ricinto entro cui sono le capanne del capo.
Ci facciamo annunciare, e dopo una mezz’ora di nojosa anticamera fuori della cinta, circondati da centinaja di impudenti soldati che spingono la loro curiosità all’indiscrezione, non sanno cosa sia cortesia e si divertono a deriderci ed insultarci ripetendo fra loro turco, turco, siamo invitati ad entrare. Attraversata parte del recinto siamo introdotti in un vastissimo tucul dove ras Area sta accovacciato fra una massa di grandi, di generali, di avvocati. La nostra guida ci presenta, o meglio ci presentiamo da noi, ma la guida consegna uno scritto del re. Tutti si alzano vedendo il suggello reale; commentano frase per frase, ci fanno mille domande sul dove andiamo, da dove veniamo, chi siamo, cosa contiamo fare, poi siamo licenziati e affidati ad un individuo che si porta ad un piccolo tucul, in mezzo a tutti gli altri delle truppe, già pieno di soldati che si fanno sgombrare. Non è così che si trattano persone di riguardo, come, senza tema di peccare di superbia, credo siamo noi in questo paese, dove se si fa dell’ospitalità, almeno apparentemente si cerca di farla bene, ma pensiamo saranno stati male eseguiti gli ordini dati, e ci adattiamo alle circostanze, ci spogliamo delle nostre armi e ci sdrajamo in cerca di riposo, sperando arrivi presto anche da soddisfare l’appetito.
Entra poco dopo un messo con un corno di tecc e ci offre a bere, poi ci invita per ordine del capo a portarci da lui. Certo è per darci da mangiare, pensiamo, e pieni di speranze e d’ardire ci avviamo. Ras Area è seduto nell’angolo di un piccolo ricinto e circondato da una ventina dei più fidi compagni; salutiamo e ci disponiamo davanti a loro; un forte battibecco comincia, si fa viva una querela fra loro, dai gesti si vede che vogliono accusarci di qualche cosa; il nostro servo che fa da interprete dice ci ritengono malfattori; pensiamo ci scambino pei condannati che dovevano arrivare con noi e cerchiamo spiegarci, ma ad un cenno del capo una massa di soldati invade, ognuno di noi è preso da due per le braccia che ci tengono rivolte all’indietro; io porto il destro al collo, perchè sempre malato, si insospettiscono nasconda qualche arma, vogliono mostri il mio male. La questione si va facendo più seria, più complicata; il nostro Agos, l’interprete, giovane timido, grida: vi legano, vi legano; poi è preso da timore, piange, non sa più spiegarsi; alcuni soldati entrano con delle catene. In questo frattempo, anzi fin dal principio, il capo e parecchi dei suoi si armarono di carabine, vi misero le cartuccie e pronti tenevano queste armi rivolte a noi. Noi davvero non si sa che pensare; le nostre parole non sono intese, la nostra innocenza non vuol essere ammessa; ci guardiamo l’un l’altro, è inutile fare il forte, tutti son pallidi e come gli altri devo essere anch’io. Ferrari è condotto nel mezzo del recinto, inginocchiato col dorso rivolto alle carabine; in quel momento, confesso, lo vidi finito e immaginai tutti noi stesi con lui. La morte mi parve bella in quel momento e il pensiero correva triste all’idea di non essere finito d’un colpo, delle sofferenze delle ferite, d’esser forse destinati coi nostri patimenti a trastullo di quella canaglia. Nel volgere di pochi secondi migliaia di pensieri mi si presentarono alla mente e una vera lanterna magica dei miei cari, del passato, del mio paese, mi passò davanti agli occhi. È paura questa? se lo è, confesso d’averla avuta e non me ne vergogno; quando è dato mostrare di aver coraggio, credo non sia tanto difficile persuadere che non si ha paura, ma quando si vede la morte vicina e l’impossibilità di muovere dito per respingerla, e senza scopo alcuno, e convinti della propria innocenza, credo non sia gran merito rassegnarsi alla morte, nè demerito dolersi di perdere la vita.
Qualcosa di sereno però siedeva ancora nel mio cuore, e si fece gigante, e una voce interna mi parve dirmi: tua madre prega per te, tu devi riabbracciarla, e mi sentii rassicurato. Le preci di mia madre avevano infatti un eco in questi cuori da belve, e Ferrari fu solo primo ad essere incatenato. Come la catena deve serrare al polso, l’ultimo anello è più largo e aperto per farvi entrare il braccio, che poi si appoggia ad una pietra qualunque, mentre con un’altra picchiando or su un estremo or sull’altro dell’anello, lo si chiude tanto che serri e non possa sortirne la mano. Per questa operazione Ferrari erasi dovuto inginocchiare, anzi dopo quasi sdrajare a terra. Lo stesso fu fatto a tutti noi, con permesso speciale di Sua Eccellenza per mettermi la catena al braccio sinistro essendo il destro il malato, poi fummo separati e condotti attraverso quell’orda selvaggia di vigliacchi che si chiamano soldati e che ci scherzavano, ci insultavano, ridevano della nostra disgrazia al nostro passare. All’altro estremo della catena è legato un mascalzone qualunque pieno di rogna e di pidocchi che è garante del delinquente che gli viene affidato. Così ognuno fu condotto in una capanna e circondato da donne, ragazzacci e soldati che si appropriarono quattrini, fazzoletti, orologi, quanto poteva soddisfare i loro gusti: ci spiegarono come ras Area era come Teodoro e noi gli inglesi che questi aveva incatenato; chi con un fucile spianato mi mostrava che fuori la capanna mi avrebbero fra poco finito, chi con una spada voleva farmi capire che la mia condanna era il taglio del piede e della mano. Intanto i pensieri volavano a casa mia, all’avvenire, ad una lunga prigionia, a sofferenze, alla morte; e per buona sorte la noja insistente di questi importuni non lasciava troppo tempo allo svolgersi dei pensieri, e il succedersi di questi mi calmava l’indignazione della posizione in cui mi trovavo condannato. Oso dire che la risultante fa una buona dose di rassegnazione e mi tranquillai aspettando la mia sorte.
Non saprei precisare quanto tempo durò questo stato di cose, e i minuti devono certo essermi sembrati ben lunghi, ma parmi che dopo circa un’ora e mezza, un soldato venne a dirmi mi portassi dal capo. Seguito dal custode, e ancora attraversando tutti quei gruppi di mascalzoni indegni d’esser uomini e di portare il titolo di cristiani, tornai da ras Area e vi incontrai i compagni. Si fece ancora qualche po’ di discussione, ma alla fine fummo liberati dalle catene appoggiando il braccio su d’una pietra e legando un estremo dell’anello con cinghie ad un grosso palo che si tien fermo e appoggiato alla pietra stessa, e forzando a schiudersi l’altro estremo tirandolo con liste di pelle parecchi soldati.
Ras Area si mostrò allora mortificato, avvilito, disse che se volevamo avevamo diritto a bastonarlo, e fingendone l’atto, dichiarò che a lui non restava che presentarsi colla pietra al collo per implorare il nostro perdono.
Quando arrivammo egli era completamente ubbriaco ed i suoi fidi in parte. La nostra guida, un povero cretino, presenta la lettera del re in cui dice: ti invio nove prigionieri, metti loro le catene e mandali alle montagna; e non aggiunge altro a nostro riguardo.
Questo qui-pro-quo, i fumi dell’ubbriacatura che confondevano la mente e offuscavano la vista, il desiderio degli altri ajutanti e seguaci di mettere in catene dei bianchi, ciò che pareva loro gran merito, tutto questo insomma fu la causa dello sbaglio e del fatto avvenutoci. Passata un po’ l’ubbriacatura, avuti maggiori ragguagli dalla guida, ricordatosi che lui stesso aveva domandato questi bianchi che stavano al campo del re, tornò a miglior consiglio.
Per buona fortuna nella lettera del re non era detto di fucilare i prigionieri, chè altrimenti, nè la mente rinfrescata, nè gli schiarimenti della guida avrebbero valso a rimediare alla pena che ci sarebbe stata inflitta.
Fummo subito regalati di una vacca, un montone, pane, tecc, miele, burro, ecc., e l’emozione in generale non aveva poi avuto grandissima influenza sull’appetito.
Vorremmo partire la mattina dopo, ma il ras ci prega restare, dicendo ci vuole almeno una giornata su suoi ospiti per mostrargli che non conserviamo rancori per l’avventura di ieri; ma in fondo il vero motivo è che teme che noi ritorniamo direttamente dal re a fare le nostre lagnanze, ed egli vuole prima spedire un corriere con una sua lettera in cui dà ragione dell’equivoco e implora la sovrana grazia. Per quanto instare si faccia, mostrando che una giornata per noi è preziosa e può avere grandi conseguenze, non ci è dato liberarcene e ci è forza rassegnarci a restare, Passiamo la giornata visitando l’accampamento che in piccolo è una ripetizione di quello di Debra-Tabor, e ricevendo visite da diversi capi e ufficiali che fingono dolersi del fatto accadutoci. La sera siamo invitati dal capo. Pronti ad una ripetizione del ricevimento di ieri, lo troviamo invece nella stessa gran capanna, ma steso su alcuni tappeti, avanti un gran fuoco, circondato dai soliti grandi che per turno si rubavano l’alto onore di accarezzargli piedi e gambe, leggermente ubbriaco di tecc che ci fa servire in abbondanza, non trascurando di continuare anche da parte sua a vuotarne delle intere bottiglie. Ci rivolse mille domande sul nostro paese e sui nostri usi e costumi, ma il discorso volse specialmente sulla poco cordiale accoglienza fattaci al nostro arrivo, e disse che noi potevamo essere paragonati a Gesù Cristo, e lui al diavolo, che era stato ben cattivo, che si riconosceva per un vero bue, e così trascese ad appropriarsi tanti e tali epiteti che, per quanto si riconoscesse peccatore e lo confessasse, mostravano certo in lui maggiore mancanza di dignità che vero buon cuore e schietto rimorso.
Mercoledì 25. Alle nove lasciamo questa poco simpatica residenza, e volgiamo a nord-est, attraversando continuamente pianure coltivate, alternate a colline, coperte da folta vegetazione; paesag gio in complesso bello e grandioso. Alle due ci si presenta il Gondar disteso sui versanti di un’altura, ai piedi della quale sorge una borgata abitata da mussulmani, e il ciglio è coronato da un ammasso di costruzioni alte e rettangolari, dall’aspetto di castelli, di torri, di mura merlate; sono gli avanzi dei palazzi portoghesi.
Gondar, l’antica capitale dell’impero, sorge a 12°, 36’ lat. settentrionale e 35°, 11’ long. est, e l’altura che gli è per così dire base, è bagnata da due corsi d’acqua, l’Anguereb all’est e il Kaha all’ovest, che a poca distanza si riuniscono e vanno a versare le loro acque nel lago Tzana. L’attuale città non differisce punto da tutti gli altri villaggi d’Abissinia, sia pel genere delle costruzioni, sia per l’irregolarità e il sudiciume delle vie; solo la popolazione non è molto agglomerata, le capanne divise a diversi gruppi, lasciando così molti spazii liberi che potrebbero dirsi piazze, e permettendo che molte piante vi possano così allignare. È la città della fede per eccellenza, chè oggi vi si contano quarantaquattro chiese che come edificio non offrono nulla di rimarchevole, ma riposano sempre all’ombra di grossi alberi. Il quartiere più ordinato e pulito è quello che sta al basso, riservato ai mussulmanni e per questo chiamato Bet-islam; vi godono di piena libertà e sicurezza, ma non hanno facoltà di erigervi moschee. La cosa più attraente di Gondar sono certamente le rovine che si distendono ad occupare tutta la parte superiore dell’altura. Le costruzioni sono opera dei Portoghesi e datano dal secolo decimosesto; sono tutte racchiuse entro una cinta ovale, in parte merlata, che di quando in quando offre larghe aperture con arcate.
Gli edificii sono parecchi, in parte isolati e in parte collegati fra loro; tutti rettangolari, cogli angoli spesso terminati a torri quadrate o circolari, Il tempo e lo spirito devastatore hanno molto distrutto, ma in alcuni, e in quello detto il palazzo dell’Imperatore che è anche il più vasto, si conservano ancora perfettamente le scale, alcune porte, soffitte, e vi si vedono le aperture dei trabochelli che nei pavimenti o negli spessori delle mura portano dai piani superiori ai sotterranei. Tutto porta traccie dell’incendio che fu uno degli ultimi sfoghi delle pazzie e degli spiriti perversi di re Teodoro. Le principali mutilazioni di questi monumenti storici sono però dovute alla madre di ras Ali, la rinomata Iteghé Menéne che, furiosa dell’impopolarità della sua famiglia, volle distruggere parte di questi edificii, dicendo: dacchè non dobbiamo lasciare monumenti del nostro potere, è inutile che lasciamo sopravvivere quelli degli altri.
La nessuna proprietà, in generale, dei terreni, la facilità del costruirsi le abitazioni, la mancanza di suppellettili da trasportare, forse il poco attaccamento alla casa paterna che è nel carattere delle popolazioni, le continue guerre che trascinano vagabonda pel paese gran parte delle sue genti, e cento altre cause forse, rendono difficile lo stabilire una cifra di censimento per gli abitanti di una città. Così per Gondar vediamo Bruce stimarne la popolazione fino a 30,000 anime, D’Abbadie a circa 12,000, e Ruppel che vi fu a non grande distanza da quest’ultimo a 6,000. A me dissero 8,000; lo ripeto senza farmene per nulla responsabile, tanto più che un altro Abissinese è capacissimo di dirvi la metà o il doppio. Gondar è sempre la città commerciale per eccellenza in Abissinia, e per tradizione e per la sua posizione, facendovi punto le carovane che provengono dal Goggiam coi prodotti delle provincie Gallas, e da qui partendo per le diverse vie di Adua e Massaua, oppure Metemma e quindi Cartum o Suakin per Kassala.
M’avrebbe interessato assai di fermarmi qualche tempo a vivere della vita abissinese e visitare un po’ minutamente le rovine portoghesi, ma le maledette piogge parevano dirci: avanzate, avanzate, che siete agli ultimi, e la mattina del giovedì 26 Rovine degli antichi palazzi portoghesi a Gondar rimontammo quindi a mulo per metterci seriamente sulla via del ritorno.
L’elevazione di Gondar mi risulta di 2300 metri.
Il giovedì 26 facciamo i saluti al compagno Bianchi che da qui torna al campo reale per passarvi coi Naretti il cherif, e rappresentarvi in certo modo il Comitato milanese di esplorazione, nella speranza di potervi seriamente trattare col re qualche affare ed ottenere in seguito di visitare e studiare commercialmente il Goggiam o lo Scioa, e noi proseguiamo a nord-est attraverso montagne verdeggianti, e seguendo una strada tracciata da Teodoro, quando voleva fare del suo paese una nazione civile e del Gondar la gran capitale. Si direbbe che avuta da natura una mente elevata, un carattere ardito ed un cuore che non conosceva ostacoli a soddisfare la propria ambizione, tutta la parte che era a lui destinata di bontà e malvagità si concentrarono, per segregarsi l’una dall’altra e svilupparsi coll’impeto che doveva esser proprio d’ogni sua azione. Così dapprima concepì idee civilizzatrici di gran lunga superiori al possibile e volle tentarne l’effettuazione, ma fu subito assalito dallo svilupparsi del secondo elemento, l’istinto perverso, cui non potè esser freno ragione nè educazione, vestì il carattere di pazzia e gli fece commettere quegli eccessi che rovinarono il paese e furono causa della sua miseranda fine.
Verso le tre ci fermiamo ad un piccolo villaggio presso la chiesa Georgis a 2950 metri.
Continuando il venerdì 27 in un vero parco inglese dove la grandiosità è sconfinata e la natura non studiata nè inventata, ma quale solo il tempo ha creata, incrociamo dopo circa quattro ore di cammino la via tenuta nell’andare a Debra-Tabor, e volgendo più ad est attraverso estesi bacini a pascoli e coltivo, saliamo verso le tre un colle che spicca fra gli altri e alla vetta del quale è la residenza di degiatch-Semma, figlio di ras Gara maden, giovane simpatico che ci usa mille riguardi e mille cortesie, trattandoci come si usa trattare fra amici in Europa, mostrandosi beato di vederci e di poterci ospitare. Tutto il resto della giornata volle che stessimo con lui, ci destinò una capanna vicina alla sua, volle prendessimo parte alla sua refezione. Entusiasta delle nostre armi chiese poter fare qualche tiro, e più di una volta colpì perfettamente a palla uno dei nostri cappelli messo come bersaglio a discreta distanza. La contentezza di questo giovane e l’ammirazione dei suoi non aveva più limiti e ci dichiarò che sarebbe il più felice dei mortali se dall’Italia gli mandissimo un fucile simile. Il buon Ferrari, intenerito dal trovare un’accoglienza veramente schietta e cordiale, prese a due mani il suo cuore sempre grande e sempre aperto, e volle far dono della sua fida arma. Vera eccezione fra gli Abissinesi, si dovette insistere per farla accettare.
Dirò ora che la parola ras tante volte usata significa capo; è araba e fu introdotta e si usa sempre oggi in Abissinia. Degiatch corrisponde a governatore con pieni poteri conferiti dal re.
Siamo pregati di restare ospiti per qualche giorno, ma ci è impossibile, quindi il giorno appresso proseguiamo per la nostra via, ritroviamo quella percorsa nell’andata, nelle vicinanze di Ciambilghé, che lasciamo alla sinistra, per raggiungere il villaggio di Dewark, a circa 3000 metri di elevazione. Il villaggio è costituito da due aggruppamenti di capanne poste a qualche distanza, ma distinte collo stesso nome. A poca distanza dalla frazione più a nord, già accampammo nell’andata, ora abbiamo preso stanza all’estremità opposta.
Per essere più lesti viaggiamo senza provvigioni nè tende, e solo abbiamo presa una piccola tenda nera, come si fanno allo Scioa, pei casi estremi. Siamo quindi costretti di ricoverarci tutte le sere ai villaggi, e chiedere una capanna, e farci dare col mezzo della guida del re o più spesso col mezzo dei nostri talleri, quel che si può trovare non per mangiare, ma per vivere. Come si stia la notte in questi tuguri con ogni sorta di compagnia, e cosa si debba ingojare, risparmio descrivere per evitare un disgusto. La stanchezza e l’appetito rendono però soffice qualunque giaciglio e gustoso qualunque cosa sia materialmente mangiabile; la necessità fa trovare superflua la maggior parte delle cose che si ritengono necessarie, e si capisce allora quanto di inutile abbiamo nelle nostre abitudini, e quante pene e quante noje ci procuriamo per soddisfarle.
La domenica 29 siamo svegliati dal grido di el matera, el matera, cavaga, la pioggia, signori, che i nostri servi ci fanno intendere, sapendo quanto ci stesse a cuore questa brutta compagna, perchè nojosa nel viaggio e più che per questo, perchè gonfiando il Taccazè potrebbe tagliarci la via al ritorno. Una fitta pioggia aveva infatti durato tutta la notte e ancora continuava, ma bisogna prendersela con disinvoltura, sellare le mule e come splendesse il più limpido sole, mettersi in cammino. Ci avviciniamo alla gran catena del Semien, e diamo scalata ad un’altura ertissima dove il terreno bagnato rende il salirvi doppiamente faticoso e per noi e per le mule. Il cammino continua poi molto accidentato in continue discese e salite; per lungo tratto corre anzi su di una via dove la mano dell’uomo rese possibile il percorrere il versante di un enorme vallone, da dove durante qualche lucido intervallo in cui il vento ci libera per pochi istanti dalle moleste compagne, la pioggia e le nebbie, si intravedono valli scoscese e pareti rocciose di monti a profili orizzontali, interrotti da guglie. Siamo in una regione veramente alpestre, dove un vero sistema costituito, per così dire, di catene montuose surroga quel caos di natura sconvolta che percorremmo nell’andata, più al basso parallelamente a questa altezza. Frequenti corsi d’acqua gonfi in questa stagione abbiamo a guadare, e dopo una giornata veramente campale ci fermiamo verso il tramonto chiedendo ospitalità a poche misere capanne a 3450 metri d’elevazione.
Lunedì 30. Saliamo sempre attraverso terreni coltivati e pascoli, fino a raggiungere lo spigolo di una catena che davanti a noi, dal versante nord, si presenta scendere a picco, determinata da una di quelle pareti verticali basaltiche, tanto caratteristiche di queste formazioni e di questo paese. Per un sentiero da camosci discendiamo o meglio precipitiamo fino a raggiungere un terreno meno ingrato; costretti di marciare a piedi, anzi di ajutare qualche volta le mule che affievolite dagli stenti e intimidite dal pericolo si rifiutano di continuare, nell’acqua fin quasi alle ginocchia, chè il poco sentiero raccoglie lo scolo del versante, e sotto una continua pioggia dirotta, avanziamo taciti e pensierosi, preoccupati dal caso di non poter passare il Taccazè e di dover quindi forse rifare questa strada fra pochi giorni, e in condizioni ancora peggiori, ma animati dalle speranze del caso contrario, e di poter quindi essere fra qualche giorno rassicurati che ci sarà libera la via del ritorno. La fitta nebbia continua ci toglie oggi quasi ogni vista sulle regioni più elevate, e solo di quando in quando si scorge al basso il passo di Wogara e parte della via che percorremmo per arrivarvi. Verso le quattro ci fermiamo ad un piccolo villaggio a 3350 metri. Gli abitanti sono tutti pastori che coltivano quel poco di grano che basta pel loro pane, ma il benessere, se benessere conoscono in questo paese, lo ricavano dal bestiame. Sono piuttosto poveri, ma cordiali ed abbiamo certo a lodarci di loro meglio che di tutti gli altri abitanti d’Abissinia. L’elevazione non permette vegetazione alcuna e solo vi allignano pascoli, per cui nemmeno pel fuoco si può aver legna, e per l’uso degli abitanti essicano nell’estate lo sterco vaccino, e lo conservano come combustibile. Questo non dà fiamma, poca bragia e lascio pensare quale fumo puzzolente, e per noi che si arriva la sera inzuppati d’acqua fino alle ossa, non è certo di gran risorsa. Pure, così come siamo ci si sdraja per terra, e con una pelle da bue per tutto letto, e poco meno che nel fango, si aspetta la mattina: si riposa benissimo e la nostra stella ci preserva da qualunque male.
1.° Luglio. Si sale sempre percorrendo i pascoli stesi su una striscia di piano inclinato che forma quasi gradino fra due pareti verticali di roccia. Sono sparse masse di piante simili ad yuka, dalla foglia più larga e grigiastra. Il tempo è un po’ migliore, chè il vento ritiene di quando in quando la pioggia e siamo invece accompagnati da un freddo intenso. Giunti a 3950 metri ci si presenta una precipitosa discesa che è forza percorrere a piedi: bisogna alle volte lasciarsi sdrucciolare su nuda roccia bagnata, dove è miracolo che le mule possano reggersi. Raggiunto il fondo della valle seguiamo il torrente impetuoso che replicatamente attraversiamo. La vegetazione è foltissima e rivediamo, man mano si va scendendo, tutte le varietà di piante che allignano alle diverse altezze e che già ci furono compagne; fra queste abbondano gli esemplari del cusso e stupendi lauri. È tale l’intreccio dei rami, che si cammina in una vera galleria di verde ed è impossibile stare a cavallo, che anzi spesso siamo obbligati di sollevare tronchi che sporgono orizzontalmente per lasciarvi passare i nostri quadrupedi. Questi sono sfiniti dalla fatica e dal digiuno; non hanno tempo a pascolare il giorno e non lo possono la notte, chè piove e l’erba è troppo inzuppata d’acqua, per cui appena possono reggere con biade e orzo che cerchiamo procurar loro quando se ne trova. Due già li lasciammo sfiniti per la strada ed un terzo comincia ora a mostrarsi impotente a proseguire; ad ogni passo cade. La notte arriva, un acquazzone indiavolato ci sorprende; siamo in un fitto bosco e senza sapere a quale distanza sia il primo villaggio. Nessun mezzo serve più a ravvivare almeno momentaneamente ed apparentemente le forze della mula, quindi la lasciamo a farsi fi nire dalle jene nella notte, diamo a portare ai servi parte del carico e parte lo lasciamo pel primo che avrà la fortuna di trovarselo, e a notte fatta raggiungiamo alcune capanne a 2600 metri. Di mangiare già non se ne parla, e basta qualche po’ di farina, del pane acido del paese e del berberia per far tacere le esigenze dello stomaco. È fortuna rara quando si arriva a trovare una capra, e si ha il tempo di ammazzarla ed abbruciarne un po’ le carni per divorarle, come fossimo diventati anche noi abissinesi.
Il due luglio continuiamo a discendere la lunghissima vallata; grandiosissimo il panorama che si svolge alle nostre spalle, delle montagne che veniamo d’attraversare e che hanno tutta l’apparenza d’inacessibili. Al tramonto arriviamo laddove la gran catena che fiancheggiamo muore, per dar luogo ad un vastissimo orizzonte. I profili dei monti sono belli ed originali avendo sempre l’apparenza d’essere coronati da torri e da castelli in rovina; la vegetazione scarsa, tranne in qualche punto, e credo a causa delle sostanze minerali, specialmente rame, che si vedono sparse nelle rocce. Il tempo ci favorisce, chè per quanto circondati da continui temporali, pochi arrivano a regalarci le ultime loro grazie.
Ci fermiamo a 1800 metri, dove il suolo è perfettamente arido e sabbioso e solo vi allignano tristi acacie; le abitazioni differiscono dalle solite d’Abissinia essendo basse, in pietra, circolari, col tetto quasi piatto e coperto da terra sostenuta da travi. Lungo la strada bellissimi marmi rossastri, giallognoli e verdastri. Gran battibecco per avere un ricovero, e ci vien poi data una mezza stalla, dove ce la passiamo con delle capre e tutto quello che si può trovare nel loro asilo notturno.
La mattina dopo però il capo del villaggio ci invita a bere del tecc, ci usa mille riguardi e ci domanda mille scuse pel modo con cui fummo alloggiati, essendo lui assente e arrivato solo durante la notte. Dietro il villaggio è un erto colle che saliamo fino a 2200 metri da dove scorgiamo da lontano il sospirato Taccazè che appare in una svoltata, in fondo a profonde valli, e dopo una lunga distesa di alture che dovremo pur troppo digerirci una ad una. Proseguiamo su e giù per creste d’alture e dentro e fuori da vallate seminate sempre da stupendi marmi e belle cristalizzazioni, e sparse di acacie e qualche baobab, dove il suolo ha però apparenza arida, per fermarci verso sera a 1800 metri ad un villaggio dove risiede il preteso capo del Taccazè, quello cioè che dirige il passaggio del fiume per le carovane, e che troviamo briaco fradicio, talchè ci rifiuta qualunque asilo per la notte e assistenza per l’indomani. Un galantuomo di prete però prende le nostre parti e non curandosi dell’ostinato e poco cordiale seguace di Bacco, ci assiste in tutto quanto ne occorre.
Il giorno quattro ci avviamo pieni di emozione chè la giornata può essere decisiva per noi; per quanto ci si assicuri che il fiume è guadabile, potrebbero esser cadute forti piogge la notte nell’alto Semien o nel Lasta, il Taccazè esserne gonfio e quindi trovarci tagliata la via al ritorno, costretti a passare qualche giorno in attesa di decrescenza delle acque in questo poco simpatico soggiorno, poi forse rifare la via fatta per andarcene un’altra volta a Debra-Tabor a svernare. Il nostro bravo Legnani, preoccupato da questi pensieri e rimasto a qualche distanza da noi, invece di seguire le orme nostre scende per una vallata trasversale, ed anzi accelera il passo per raggiungerci, mentre noi proseguendo in direzione quasi opposta ci accorgiamo della sua mancanza, e ci volle buona forza di nostre voci e di sue gambe per poterci ritrovare. Sali e scendi per alcune alture, ci si presenta nel fondo il Taccazè che colle acque sue fangose va tortuosamente seguendo il suo corso; mille commenti, nuove emozioni, i cuori si allargano a nuove speranze per riserrarsi a tristi presentimenti. Discesa vertiginosa e lunga, sempre sul ci glio, di uno sprone che scende fino al fondo della valle; il terreno di sedimento poco compatto rende ancora più faticosa la marcia, il caldo si fa sempre più soffocante. Eccoci finalmente a circa 1000 metri di elevazione, alle acque che il nostro buon prete ci assicura che passeremo.
Risaliamo per breve tratto lungo le sponde per trovare una posizione propizia al nostro passaggio; parmi il fiume abbia un centinajo o poco più di metri di larghezza, ma la traversata dovendosi operare trasversalmente, perchè la corrente trasporta, diventa assai più lunga; alcuni indigeni entrano nell’acqua e felicemente li vediamo raggiungere l’opposta riva. Quel che fa un abissinese lo sapremo fare anche noi, gridiamo: i nostri spiriti si sono rianimati, in due minuti siamo pronti, e ajutati da due indigeni che gridano e battono l’acqua con un bastone per allontanare i coccodrilli, coll’acqua fino alla gola e facendo ogni sforzo per vincere la corrente, raggiungiamo l’opposta sponda.
Gli stessi uomini si incaricano a diverse riprese di far passare i nostri effetti, le mule nuotano per conto loro, e persino il prete, visto che v’era a guadagnare qualche tallero, smesso quel poco abito e con esso la altrettanto poca dignità sacerdotale, ci apparve in costume perfettamente adamitico per aiutare al passaggio nostro e della nostra roba. Il cielo ci assiste in questo momento, il gran passaggio è fatto, un sole splendido ci riscalda e ci serve ad asciugare la nostra roba, che dal più al meno aveva tutta assaporata l’acqua del Taccazè.
Ci rimettiamo in via. I pasti poco succolenti di parecchi giorni, il digiuno quasi completo e il bagno, fanno i loro effetti, e la debolezza ci permette a stento di reggerci sulle gambe; camminiamo come ubbriachi, e ci sta davanti una salita a fare colle ginocchia in bocca, con un caldo soffocante, obbligati per di più a spingere le mule che per forza brillano come noi, Ci guardiamo in faccia l’un l’altro, per un pane non so cosa daressimo, ma tanto non ce n’è, dunque allegri, che anche questa sarà da ricordare, e avanti. Il morale agisce sul fisico, dunque se la forza manca, perchè la macchina non è alimentata, cerchiamo almeno di non deprimerla ancor più col perderci d’animo.
Si ride dell’avventura, si siede ad ogni passo, si spera per la sera, e intanto s’arriva a 1700 metri, dove si trova un piccolo villaggio. L’accoglienza non è delle più festose, chè ci vuole il poco fiato che ci resta a far capire che pagheremo, ma vogliamo un montone. A notte fatta finalmente ce lo portano, e senza tanti rispetti all’arte culinaria ce lo divoriamo.
Ci è forza la mattina dopo salire ancora fino a 2200 metri per seguitare poi su un altipiano che conduce ad alcune cime, sulla costa delle quali prosegue il sentiero. Dietro noi la distesa dei monti che veniamo di attraversare, alla nostra destra altra distesa che si protende in direzione sud-est, e avanti a noi riconosciamo dei vecchi amici nei caratteristici profili dei monti di Adua. Un’ora prima del tramonto lasciamo il sentiero per discendere in un vallone circondato da pareti rocciose, quasi a picco, al fondo del quale vediamo buon pascolo e un villaggio.
Ci vien negata ospitalità, se non vogliamo dividerci ed essere ricoverati ognuno in diversa abitazione, ciò che rifiutiamo e passiamo piuttosto la notte coperti dalle fronde di una acacia.
Si continua da qui per vasti altipiani spesso fessi da larghi valloni che, come già dissi, ricordano i crepacci da ghiacciai, e che obbligano alle volte a lunghe deviazioni per evitarli. Un torrente, guadabile pochi minuti prima, come ce lo provano dei boricchi carichi che incontrammo e che venivano d’attraversarlo, scende tanto gonfio e impetuoso per piogge improvvisamente cadute alla montagna, che ci è forza aspettare più d’un’ora prima che le acque si calmino e vi si possa azzardare.
Il soldato che ci fu dato come guida è dei più sucidi che si possano vedere. Ad un lembo del suo scemma tiene un grosso nodo che rappresenta nientemeno che la valigia di un corriere reale, avendovi avvolte le lettere che il re, approfittando dell’occasione, invia a ras Alula. Questi è suo amico intimo, ed ora muove col suo esercito per far guerra agli Egiziani, per cui quelle lettere possono, anzi devono, essere ben importanti, e vedere a quali mani sono affidate e in quali condizioni hanno fatto tutto quanto il viaggio, è cosa che basta per dare idea di questi cervelli e della loro organizzazione.
Il 7 luglio continuano larghe vallate, spesso coronate da pareti rocciose granitiche: poco a poco vanno allargandosi e noi teniamo a girare a nord di quel picco isolato che raffrontai al Cervino e che come questo si eleva a dirupo. Raggiungiamo un altipiano sparso di villaggi e coltivato: a nord-ovest in lontananza scorgiamo Axum, e noi proseguiamo direttamente verso il gruppo dei monti di Adua che da qui si presenta disteso e maestoso. Scorgiamo anche Adua stessa, che trovandoci noi a 2200 metti si presenta come infossata: discendiamo una delle di pareti rocciose quasi a picco, e proseguiamo nel fondo della vallata che rinserra. Un acquazzone tanto forte ci sorprende, che venendoci di fronte, accompagnato da vento, è impossibile avanzare e per istinto le mule si rivolgono, abbassano la testa e se ne stanno così finchè non sia cessato, od almeno di molto diminuito. Costeggiamo il versante di un’altura che è convertito letteralmente in un letto da torrente, tanta è l’acqua che vi scorre.
In uno stato veramente compassionevole raggiungiamo Adua verso le due e ci andiamo a stabilire in casa di Naretti. I nostri servi che spedimmo da Debra-Tabor col bagaglio per la via più comoda del Sirié non sono ancora arrivati, e questa notizia ci sconforta assai, potendosi dare il caso che qualche giorno di ritardo non permetta più loro di passare il Taccazè, e quindi ne restiamo divisi Dio sa fin quando, e la nostra roba vada perduta. La casa che occupavamo noi è abitata dal console di Grecia in Suez che aspetta di poter partire pel campo del re. È persona gentile e cordiale quanto mai, che appena saputo del nostro arrivo ci manda in regalo vino, cognac e qualche scatola di conserve. È inutile e impossibile dire con quanta festa le accogliemmo e con quanto gusto le divorammo.
Passiamo qualche giorno in Adua in attesa del nostro bagaglio sulla sorte del quale siamo molto inquieti, non avendosi notizia alcuna. Finalmente il fido Baramascal, il capo dei servi, arriva e ci porta la grata nuova che le casse sono in Axum e ci raggiungeranno l’indomani. A due giornate da Debra-Tabor le mule sentirono ancora degli strapazzi del viaggio di andata e non furono più in grado di portare il loro carico che si dovette fare in gran parte trasportare a spalla d’uomini: stettero quattro giorni accampati al Taccazè in attesa della possibilità di passarlo. Legata ogni cassa ad un lungo bastone, due nativi che tenevano questo alle estremità, nuotando le trascinarono nell’acqua, per modo che tutte se ne riempirono e la roba nostra ci arriva tanto bagnata e sudicia da far pietà: in parte anzi completamente rovinata, tanto da doversi abbandonare. Due mule morirono per strada e le altre ci arrivano in uno stato miserando per piaghe e magrezza, talchè siamo costretti a subito procurarcene altre per proseguire il viaggio. Accompagnati come siamo da una guida del re, avremmo diritto a pretendere che di villaggio in villaggio ci si trasporti il nostro bagaglio a spalle d’uomini, ma questo sistema offre molti inconvenienti, primo dei quali una massa di perditempo.
Ad ogni paese c’è a questionare e ad aspettare delle ore e dei giorni prima che si trovino portatori sufficienti; poi bisogna continuamente andare a zig-zag, chè i contadini, se fuori strada v’è un villaggio più vicino che non il primo sulla via, non ri sparmiamo di allungare il cammino vostro se possono accorciare il loro. È sempre meglio quindi di emanciparsi da questa schiavitù.
In Adua non troviamo alcun che di nuovo, tranne i dintorni resi più verdeggianti dalle continue piogge. Per non rifare la strada fatta decidiamo prendere la via di Gura, così potremo visitarvi il campo di battaglia ed incontrarvi ras Alula che col suo esercito marcia a quella volta per tentare, a quanto si dice, un colpo di mano sulla costa, mentre ras Woldi Michael andrebbe ad occupare i Bogos.
Un corriere arriva dal campo reale e ci porta notizie della triste impressione avuta da Naretti per l’avventura toccataci da ras Area. Tutta la Corte era sossopra per celarlo al re, temendo avesse ad usare troppi rigori verso lo zio, e ci si dice che tutti i grandi si presentarono a Naretti con una pietra al collo, supplicandolo di non farne rapporto al Sovrano.