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220 Capitolo undicesimo.

glio, di uno sprone che scende fino al fondo della valle; il terreno di sedimento poco compatto rende ancora più faticosa la marcia, il caldo si fa sempre più soffocante. Eccoci finalmente a circa 1000 metri di elevazione, alle acque che il nostro buon prete ci assicura che passeremo.

Risaliamo per breve tratto lungo le sponde per trovare una posizione propizia al nostro passaggio; parmi il fiume abbia un centinajo o poco più di metri di larghezza, ma la traversata dovendosi operare trasversalmente, perchè la corrente trasporta, diventa assai più lunga; alcuni indigeni entrano nell’acqua e felicemente li vediamo raggiungere l’opposta riva. Quel che fa un abissinese lo sapremo fare anche noi, gridiamo: i nostri spiriti si sono rianimati, in due minuti siamo pronti, e ajutati da due indigeni che gridano e battono l’acqua con un bastone per allontanare i coccodrilli, coll’acqua fino alla gola e facendo ogni sforzo per vincere la corrente, raggiungiamo l’opposta sponda.

Gli stessi uomini si incaricano a diverse riprese di far passare i nostri effetti, le mule nuotano per conto loro, e persino il prete, visto che v’era a guadagnare qualche tallero, smesso quel poco abito e con esso la altrettanto poca dignità sacerdotale, ci apparve in costume perfettamente adamitico per aiutare al passaggio nostro e della nostra roba. Il cielo ci assiste in questo momento, il gran passaggio è fatto, un sole splendido ci riscalda e ci serve ad asciugare la nostra roba, che dal più al meno aveva tutta assaporata l’acqua del Taccazè.

Ci rimettiamo in via. I pasti poco succolenti di parecchi giorni, il digiuno quasi completo e il bagno, fanno i loro effetti, e la debolezza ci permette a stento di reggerci sulle gambe; camminiamo come ubbriachi, e ci sta davanti una salita a fare colle ginocchia in bocca, con un caldo soffocante, obbligati per di più a spingere le mule che per forza brillano come noi, Ci guardiamo in faccia l’un l’altro, per un pane non so