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Capitolo undicesimo. 209

parmi che dopo circa un’ora e mezza, un soldato venne a dirmi mi portassi dal capo. Seguito dal custode, e ancora attraversando tutti quei gruppi di mascalzoni indegni d’esser uomini e di portare il titolo di cristiani, tornai da ras Area e vi incontrai i compagni. Si fece ancora qualche po’ di discussione, ma alla fine fummo liberati dalle catene appoggiando il braccio su d’una pietra e legando un estremo dell’anello con cinghie ad un grosso palo che si tien fermo e appoggiato alla pietra stessa, e forzando a schiudersi l’altro estremo tirandolo con liste di pelle parecchi soldati.

Ras Area si mostrò allora mortificato, avvilito, disse che se volevamo avevamo diritto a bastonarlo, e fingendone l’atto, dichiarò che a lui non restava che presentarsi colla pietra al collo per implorare il nostro perdono.

Quando arrivammo egli era completamente ubbriaco ed i suoi fidi in parte. La nostra guida, un povero cretino, presenta la lettera del re in cui dice: ti invio nove prigionieri, metti loro le catene e mandali alle montagna; e non aggiunge altro a nostro riguardo.

Questo qui-pro-quo, i fumi dell’ubbriacatura che confondevano la mente e offuscavano la vista, il desiderio degli altri ajutanti e seguaci di mettere in catene dei bianchi, ciò che pareva loro gran merito, tutto questo insomma fu la causa dello sbaglio e del fatto avvenutoci. Passata un po’ l’ubbriacatura, avuti maggiori ragguagli dalla guida, ricordatosi che lui stesso aveva domandato questi bianchi che stavano al campo del re, tornò a miglior consiglio.

Per buona fortuna nella lettera del re non era detto di fucilare i prigionieri, chè altrimenti, nè la mente rinfrescata, nè gli schiarimenti della guida avrebbero valso a rimediare alla pena che ci sarebbe stata inflitta.

Fummo subito regalati di una vacca, un montone, pane,