Abissinia/Capitolo X
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CAPITOLO X.
Il nostro trattamento offerto dal re. — Gli schiavi. — Presentazione dei doni al re. — Risposta arguta. — Debra-Tabor. — Corsa di cavalli. — Ritratto del re. — Una refezione da Sua Maestà. — Partenza pel lago Tzana. — Corata. — Accoglienza poco cordiale. — Il lago. — Il Nilo Azzurro. — Ponte portoghese. — Ritorno al campo reale. — Un tribunale presieduto dal re. — Decisioni pel ritorno.
Martedì 21. Giornata di riposo dalle fatiche e dalle emozioni di ieri. Naretti è ricevuto dal re che si mostra piuttosto ben disposto a nostro riguardo e fissa a domani il nostro ricevimento ufficiale con presentazione dei doni. Nella giornata è un continuo andirivieni di visite, delle quali parecchie sono seguite da doni per Naretti, di vasi di tecc o vacche. Abbiamo già una massa di queste bestie che da noi rappresenterebbero un capitale. La razione fissata per noi dal re, consiste ogni giorno in due o tre vacche, 300 pani, tre vasi di tecc, tre di miele, di burro, di berberia, trenta candeline, pelli piene di farina, di grano, di biade per le mule, fieno, fasci di legna. E tutto questo portato da una sequela di miserabili schiavi maschi e femmine, che lavorano pel servizio del re e del suo seguito e ricevono nutrimento o qualche cencio di quando in quando per coprirsi.
Sono poco meno che nudi e i pochi panni che li coprono sucidi e cenciosi da far ribrezzo, nerissimi, perchè provenienti dai paesi gallas, e forse fatti schiavi da questi all’interno, e generalmente scarni e avviliti. In Abissinia non è permessa la schia vitù, ma sono tollerati gli schiavi; questi, ad esempio, sono regalati dai vassalli dello Scioa e del Goggiam; il re li tiene come servi che attendono ai più bassi mestieri e non sono ammessi in sua presenza. Questa lunga fila di miserabili che con passo grave entrano portando ognuno sulla testa il proprio fardello coperto da panno rosso, lo depongono al suolo, e, mentre il loro capo fa la consegna, stanno avidi aspettando il pane che ad ognuno di loro si regala, formano uno di quei quadri, imponenti quando riprodotti sulle scene di certi teatri, e che qui ha la grandezza e la vita della realtà. Grandi chiacchiere faccio con Maderakal, il dragomano del re, suo segretario e sedicentesi ministro degli affari esteri. Quando Lefevre viaggiava l’Abissinia, Ubiè che allora era re gli diede questo giovane per guida, e gli permise poi di portarselo in Europa, dove visse parecchi anni in Francia e in Inghilterra. Tornato al suo paese, parlando passabilmente il francese e un pochino l’inglese, fu addetto alla Corte di Teodoro, ed uno dei dodici fatti prigionieri a Magdala a fianco al cadavere del suo Sovrano; poi passò al servizio di re Giovanni.
Giovedì 22. Verso le nove siamo chiamati a Corte e ricevuti, dove lo fummo anche l’altra volta; il re stava ancora seduto sul suo divano, e nella capanna erano una diecina dei suoi fidi e dipendenti. Entrati, facciamo un inchino, ci porge ancora la mano, ci fa dare il buon giorno, poi cominciamo la presentazione dei doni che il comitato milanese gli invia: un fucile della nostra armata con cartucce, due revolvers, un letto da campo in ferro, cuscino in seta rossa con corona reale ricamata, veluti, damaschi, panno di vario colore, fazzoletti di seta, saponi variati, candele, fiammiferi, diversi oggetti in gomma, briglia con striglia e spazzole pei cavalli, bottiglie di cristallo lavorato, alcune piene di liquori che ci invitò ad assaggiare noi, perchè fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. Durante tutta la presentazione, con Made rakal che faceva da interprete per le spiegazioni necessarie, il re stette freddo e impassibile, e sempre con mezzo viso coperto dallo scemma; solo mostrò un po’ di sorpresa e forse anche di soddisfazione allo spiegare il letto da campo e il cuscino che si gonfiava soffiandovi. Con poche parole ci ringraziò e licenziò per far entrare i due svedesi protestanti, che regalarono una pendola e un ombrello di seta rossa, privilegio del re in questo paese. Maderakal mi tradusse il dialogo che ebbe luogo e che qui riporto, perchè mostra il tatto e la finezza di re Giovanni. «Cosa veniste a fare, o signori, in queste terre?» così fece loro domandare.
«A spiegare il Vangelo,» risposero.
«Il Vangelo è uno, Dio è uno, la fede è una; io ho chiese, io ho vescovi, io ho preti, e questi sanno benissimo insegnare da loro il Vangelo al mio popolo. E a chi dunque vorreste più propriamente insegnare il Vangelo?»
«Agli ebrei, ai musulmani...»
«E non avete ebrei nel vostro paese?... e venendo qui non vi siete accorti di attraversare un paese tutto di mussulmani?... come mai non pensaste di fermarvi fra loro a spiegare il Vangelo? Io accetto volontieri negozianti, viaggiatori, lavoranti in tappeti, in sete, in armi, operai che lavorano il legno, ma non gente che vuole immischiarsi nella religione del mio popolo...»
Non so quale effetto avrà loro fatto questo dialogo, ma credo ne devono esser rimasti poco soddisfatti.
Il villaggio di Debra-Tabor è a poca distanza dal campo reale, che assunse questo nome come quello del più vicino paese, ma il nome propriamente del colle sul quale è piantato il reale accampamento è Gafat, e si eleva 2700 metri sul mare.
Il re Ali fu quegli che scelse questa posizione quasi a capitale del regno, come il punto più centrale delle tre provincie principali, dell’Amara, dello Scioa e del Goggiam.
Non vi fu mai fatto per altro nessun edificio che possa in certo modo materialmente stabilirla come capitale del regno, la quale credo che il giorno che la pace parrà dominare in Abissinia, se pure quel giorno verrà, tornerà a stabilirsi a Gondar.
Vediamo un giorno in un punto della pianura una massa di gente e di cavalli, un insolito movimento; è il re che sta facendo le corse, per cui scendiamo subito. L’ambiente è molto pittoresco; una massa di spettatori delineano come il contorno dell’arena; sulla sinistra, sotto alcune acacie, diversi gruppi di grandi artisticamente avvolti nei loro manti e circondati da servi e seguaci armati; rimpetto a questi il re, all’ombra di un ombrello rosso con frange d’oro sorretto da un servo, e seguito dal numeroso suo stato maggiore; un paesaggio vasto, incantevole, un sole splendido, un cielo del più puro azzurro.
Le corse consistono in sfide parziali di cinque, sei, sette o più cavalieri che galoppano contro una schiera di altrettanti nemici, e giunti all’altezza opportuna, gettano con meravigliosa destrezza un bastone che tien luogo di lancia, e rivoltano precipitosamente il cavallo in ritirata; la parte avversaria cogli scudi si difende dalla grandinata di lance, che vede venire in sua direzione, e quindi insegue il nemico che a sua volta fuggendo è obbligato con destri movimenti del cavallo o collo scudo suo a difendersi dagli attacchi.
È veramente ammirabile la destrezza colla quale girano il cavallo a corsa sfrenata, e intanto si difendono col rivolgersi a vedere da qual parte sopraggiunge il nemico, portando lo scudo da destra a sinistra, dall’avanti all’indietro, dal basso alla testa.
Il re di quando in quando monta a cavallo e fa un giro gettando la sua lancia che molti si fanno premura di raccogliere, cui però nessuno osa rispondere. Belli i cavalli, belli i cavalieri, belle le manovre, pittoreschi quanto mai questi scemma elegantemente gittati sulle spalle e che svolazzano correndo, questi scudi ornati da placche d’argento, queste camicie o manti di distinzione in seta a colori diversi e vivaci, queste bardature ornate con pelli, stoffe o metalli, questi collari a fettucce scendenti in pelle di leone, di leopardo o d’altro, a seconda del grado di distinzione, queste teste brune e ardite, cui aggiunge ancora maggior tipo la pettinatura propria ai guerrieri. Un misto di selvaggio, d’orientale e di medioevale, qualcosa che ricorda la descrizione della sfida di Barletta e il quadro che ad illustrazione ne fece lo stesso d’Azeglio. Scene grandiose che volendole descrivere portano confusione, ma che lasciano un’impressione indelebile.
Alla partenza fu pure fantastico il seguito del re di centinaia di cavalieri e di migliaia di soldati che confusamente lo seguivano galoppando, correndo, gridando. Salutammo S. M. che gentilmente ci rispose portando la mano al fronte.
Le distinzioni concesse dal re ai suoi soldati per fatti militari, consistono in collari con lunghe fettucce scendenti, oppure larghe strisce che si portano unite allo scudo, in pelli d’animali diversi, e dalla qualità di queste dipende il grado di distinzione. Così primo è il leopardo nero, riservato alle teste coronate, poi il leone, il leopardo comune, la capra bianca o nera.
I giorni passano presto e interessanti, chè girando l’accampamento, ad ogni passo si entra a far visita a qualche grande o capo religioso o militare, e sempre vi sono quadri nuovi, sempre nuovi costumi ad osservare. Anche noi riceviamo spesso visite e queste sono piuttosto monotone e noiose, chè tutti vogliono medicine o regali di qualche camicia od oggetto qualunque, e sempre bisogna fare esposizione di tutto quanto abbiamo. Quello che desta maggior interesse e ammirazione sono le armi e fra queste una bella carabina americana; semplice ed elegante, a ripetizione, sistema Winchester, che avevo portato per mio uso.
Ne fu parlato al re e fui pregato mostrargliela, anzi, mi si fece capire che avrei dovuto fargliene dono. Mi doleva privarmene, ma bisognava rassegnarsi, d’altronde il dolore del distacco era mitigato dalla compiacenza di presentarla a chi m’aveva ispirato un certo senso di simpatia. Aggiunsi allora al dono un revolver molto bello che tenevo appunto per una simile occasione, e la mattina della domenica 25 fummo invitati a presentarci a Sua Maestà. Ci riceve nella capanna grande; rimpetto all’entrata, a sinistra, sta il re sul suo solito divano posto davanti al trono; a pochi metri su un tripode quadrangolare di ferro ardono legne odorose; a destra, lungo la parete, colle teste rivolte al centro, sono i cavalli e le mule di S. M.; attorno tutti quanti i dignitari di Corte e i grandi ufficiali; il suolo è tutto sparso di erbe fresche.
Si fa la presentazione delle mie armi che parvero molto gradite; presa la carabina fui invitato a mostrarne i movimenti che il re ammirò e subito comprese; la caricò e mi pregò andare sulla porta e sparare il primo colpo; vedendo il revolver disse: questo è lavoro italiano, perchè, come mostrò, ne teneva un altro dello stesso sistema donatogli da re Menelik che lo aveva avuto dal nostro capitano Martini. Dissi una bugia, ma lasciai che ritenesse questa buona opinione delle industrie nostre.
Il re era questa volta più animato del solito e ne potemmo distinguere tutti i lineamenti; la testa pettinata a trecce in cui è conficcato uno spillone d’argento; pochi baffi corti e poca barba sotto il mento, fronte molto fuggente, occhio penetrante, naso leggermente aquilino, sorriso benevolo, ma serio; zigomi assai pronunciati; in complesso i tratti piuttosto caratteristici e fisonomia cordiale, ma severa; ha 44 anni ed apparentemente tanti ne mostra.
Fra i suoi fidi spiccavano la simpatica figura di ras Alula, governatore in capo del Tigré, e quella di Woldi Michael, il famoso rivoltoso che per tre anni tenne la rivoluzione nell’Amassena, ed ora da pochi mesi si è sottomesso al suo sovrano.
È vecchietto, affabile, apparentemente aperto di modi, ma l’occhio tradisce in lui la coscienza di meditare quello che non confessa. Quando re Giovanni se ne impossessò, invece di castigarlo volle essere generoso, gli perdonò il passato per le promesse di un avvenire di fedeltà e di devozione, e lo nominò governatore della provincia che lui stesso tenne sollevata e in armi per tanto tempo, ma lo confidò alla sorveglianza di ras Alula, e come pegno della sua sincerità ne tenne il figlio addetto alla Corte.
Il re ci fece sedere a fianco al suo divano, e sparsi nella capanna si disposero a gruppi tutti gli altri presenti. Entrò una sequela di servi con grandi panieri di pani, vasi di tecc, bottiglie, e ad ogni gruppo fu destinato un paniere e distribuito ad ogni individuo un coltello; col solito sistema servirono poi la pasta di berberia, una prima portata di carne cruda e una seconda di bue abbrustolito, e di abbondanti libazioni di tecc, usandoci il riguardo di servirlo a noi nelle bottiglie che noi stessi avevamo regalate. Ognuno colle proprie mani principiò a staccare i pezzi di carne che meglio gli confacevano, e una massa di servi intanto andava e veniva rinnovando sempre bibite e portate. Il re non mangiò, ma continuò a discorrere coll’uno e coll’altro, esaminando e compiacendosi delle nuove armi.
Era bella la scena e stupendo il contrasto di questo ricevimento in una capanna di paglia, reggia del re dei re che con un cenno tutto può nel suo regno, misti alle sue mule e ai suoi cavalli, seduti a terra su dell’erba o dei tappeti europei, mangiando colle mani della carne cruda, ai piedi di un trono coperto con sete, damaschi, e ricami in argento, in presenza dei più grandi dignitari di Corte e del paese, frammischiati ad una massa di servi tutti quanti scalzi, tutti quanti coperti dal semplice scemma, spesso piuttosto sdruscito, sempre molto sudicio.
Si mangiò, e la conversazione proseguì ancora dopo che i cesti dei pani furono levati, e si continuò a servire tecc, finchè un usciere gridò alcune parole che fecero sortire tutti quanti, e per ultimi noi che con un inchino ci licenziammo da questo interessante e cordiale banchetto.
Le piogge hanno incominciato, e prima che il forte ci sorprenda vorremmo vedere quanto ancora ci interessa, per poi metterci sulla via del ritorno. Si stabilisce quindi che chi deve interessarsi di affari commerciali vi attenda per proprio conto, mentre Ferrari ed io andremo a visitare il lago Tzana, e il Nilo Azzurro; Legnani ci sarà compagno, e tutti ci riuniremo a Debra-Tabor ancora, per tornare dal Galabat visitando sulla strada il Gondar.
La mattina del martedì 27 il re ci manda a chiamare, e tenendosi al fianco uno dei capi della chiesa, ci riceve insieme ai protestanti: vuole la presentazione di quelli fra noi che partono per affari commerciali per la via del Goggiam, e di quelli che se ne vanno alle rive del lago Tzana, ci augura il buon viaggio, aggiungendo che tutto già pensò per le guide che ci devono accompagnare. Fa poi dire ai protestanti che non mutò consiglio dalla prima udienza che loro concesse, ed ingiunge che in giornata partano per raggiungere Massaua al più presto possibile, con una fermata di non più di tre giorni in Adua, assicurandoli che lungo tutta la via godranno della maggiore sicurezza. Saputo da Naretti che gli oggetti che gli avevano regalati potevano valere da cinquanta a sessanta talleri, ne diede loro cento, dicendo non se ne offendessero, che non intendeva con questo pagare i loro doni, ma solo compensarli delle spese di un viaggio fatto inutilmente.
Alle due, il cerimoniere di corte ci presenta la nostra guida assicurandoci che provvederà a tutto quanto ci sarà necessario, e ci raccomanda pazienza colle popolazioni se alle volte vorranno insultarci dandoci del turco. Ferrari, Legnani ed io volgiamo a sud-ovest, attraversiamo per lungo tratto l’accampamento, passiamo ai piedi dell’altura sulla quale sta la chiesa del Salvatore con gran sfarzo cominciata da Teodoro, proseguiamo, discendendo entro un vallone, più ad ovest, ed alle cinque la guida ci consiglia fermarci presso alcune capanne, dicendo essere lontani altri villaggi. La sera ci portano pani, burro, uova, birra e una gallina.
Mercoledì 28. Discendiamo per vallate assai popolate e coltivate, verdeggianti di pascoli e di folta vegetazione. Predominano acacie, lauri, gelsomini, rose, muse e cento altre varietà che non so qualificare. In molti punti il sentiero è cattivo sia per la ripidità, sia per le pietre e i rami che lo ingombrano e non permettono di passarvi sotto a cavallo. Alle due, in un punto ove la vallata si allarga, vediamo molta gente radunata ad un mercato: ci fermiamo per comperare del caffè, ma la nostra apparizione produce un tal panico che tutti i venditori raccolgono le loro merci e se le portano via lasciandoci pienamente padroni del terreno.
Mezz’ora ancora, e facciamo sosta al villaggio di Dora a circa 2100 metri. Il capo ci si mostra cordialissimo e vuole che accettiamo una capanna per la notte, amabilità troppo spinta, chè preferiamo la tenda, ma il rifiuto sarebbe offesa. Notte infernale: abbiamo a compagni una raccolta di donne, uomini, bambini, cani, gatti, galline, e una miriade di insetti d’ogni specie che non ci lasciano chiudere occhio; io per di più soffro immensamente all’indice della mano destra, che da qualche giorno ha cominciato a tormentarmi.
La mattina seguente il capo del villaggio viene a complimentarci, e dichiara di volerci accompagnare qualche poco: sarà in parte effetto di cortesia, ma si deve un pochino anche attribuirlo al desiderio che ci espresse d’avere della polvere da fucile. Dopo un’ora di discesa vuole ci fermiamo all’ombra di un gruppo di palme per prendere del latte che fa portare da pastori suoi dipendenti. Attraversiamo quindi una vasta pianura, discendiamo per vallate attraversando diversi torrenti che mandano le loro acque al lago; abbiamo buona caccia di oche e gazzelle. Verso le quattro ci fermiamo presso alcune meschine capanne che non ebbero forse mai neppur l’onore del battesimo.
Venerdì 30. Larghe vallate con moltissima vegetazione: ficus giganteschi, sempre le eleganti acacie; tornano gli alberi di gardenie. Scorgiamo il lago vastissimo, con qualche isola, attraversiamo fittissime boscaglie, e poco dopo mezzogiorno ci si presenta Corata, la capitale, per così dire, del lago Tzana. Essendo questa una città tenuta in conto di mezza santità, per le etichette usate ci fanno scendere da cavallo, consegnare i fucili ai servi ed aprire i nostri ombrelli, ciò che pare accresca la grandezza e la dignità, e così avanziamo verso il villaggio che si presenta grande, ben disposto fra folta verdura, su una altura che quasi a penisola si protende nel lago e ne delinea un piccolo golfo. Peccato che sia per bassi fondi, sia per le piogge del Goggiam, da dove vi scolano le acque, queste non appaiono troppo limpide. Il lago è assai vasto e sparso di parecchie isole fra cui alcune popolate e tenute in conto di sacre. La sua lunghezza è di quasi cento chilometri, per circa cinquanta di larghezza e quasi trecento di circonferenza. Il villaggio è originalissimo: ogni capanna è rinserrata in un cortile e circondata da folte boscaglie, e le viuzze tutte fiancheggiate da mura o da verdi siepi e ombreggiate da alberi giganteschi: crescono spontanei il caffè, la musa, le palme, il limone, il ricino che raggiunge grandissime proporzioni, parecchie dracene, gli aranci e mille altre varietà di piante rare per noi e che ben coltivate potrebbero esser fonte di grandi ricchezze e benessere. L’elevazione è di 1900 metri sul mare. Andiamo dal capo del villaggio che ci fa aspettare una buona mezz’ora fuori la porta, poi ci riceve nel Corata — Lago Tzana suo cortile, seduto con grande importanza su una pelle da gazzella.
Accoglienza fredda; non vuol riconoscere l’autorità della nostra guida. Lo riduciamo però a miglior consiglio, e come noi pensavamo stabilire qui il quartier generale per fare delle escursioni sul lago, domandiamo d’avere un tucul, disposti a pagarne l’affitto. Pareva le cose si disponessero per bene, quando arrivano un paio di preti a mettere dei bastoni nelle ruote; ci fanno perdere del gran tempo in discussioni, poi ci invitano di seguirli alla chiesa dove si deciderà. Vi suonano le campane e arriva una ventina di sacerdoti che cominciano a questionare fra loro e colla nostra guida. Le cose vanno per le lunghe e la pazienza scappa anche ai santi, per cui in modo risoluto faccio capire che sono disposto a pagare, ma voglio e subito una casa, altrimenti farò le mie lagnanze al re. Per tutta risposta mi dicono d’andarcene al lago a cacciare l’ippopotamo, che nel frattempo loro decideranno. Siamo stanchi, rispondo, e vogliamo riposare e non cacciare per ora, e pretendo mi diate una casa. Ci fanno allora accompagnare ad una capanna che ci dicono destinata, ma alcune donne strillano e non vogliono permetterci d’entrare: c’era un morto. Indispettiti torniamo alla casa del capo, piantiamo la nostra tenda nel suo cortile e dichiariamo che non ci muoveremo se non ci sarà data una buona abitazione.
I preti tornano e gridano; ma noi gridiamo più di loro, e ci mostriamo risoluti, finchè ci destinano un tucul, al quale andiamo senza fare alcun saluto a nessuno dei presenti.
Il capo, forse intimorito, viene subito a farci una visita e ci porta del pesce, galline, birra, pane e miele.
Sabato 31. Tanto antipatica e scortese è la popolazione, altrettanto simpatico ed originale è il villaggio, nel quale si incontrano frequenti avanzi di muraglie costrutte con grossi bloc
chi, ciò che mi fa supporre siano resti di una piazza forte dei Portoghesi. Il lago aggiunge maggior vita al paesaggio, e non possiamo abbastanza bearci della sua vista e della sua frescura, dopo tanti mesi che l’occhio nostro non trova più a riposare su una massa di questo simpatico elemento. Sono strane le barche usate, a forma di pantofola ricurva alla punta, e costrutte con grosse canne palustri strettamente legate fra loro con scorze d’alberi. Dalla spiaggia si vedono frequenti ippopotami che sollevano le loro enormi teste fuori dall’acqua per respirare.
Tutti si mostrano così inospitali e nel trattarci e nel provvederci di quanto fu loro ordinato dalla guida nostra, che decidiamo la partenza per domani, risoluti di fare al re un rapporto che guadagni il meritato castigo a questi scortesi sacerdoti.
Quando il giorno dopo videro la nostra decisione di partire, temendo le conseguenze del nostro malcontento, vennero in processione a dichiararci la più profonda simpatia ed amicizia e prometterci che se restavamo, ci avrebbero mandato ogni sorta di viveri, ma noi ci mostrammo fermi, e caricate le mule, proseguimmo verso sud, lungo il lago, e piantammo le tende in riva a questo, dopo due ore di cammino, presso alcune meschinissime capanne basse, ristrette e totalmente coniche, costrutte con erba e canne palustri e abitate da pochi miserabili pastori. La natura è grandiosa, il paesaggio bello, ma le sofferenze pel dito malato mi tolgono gran parte del piacere che proverei. Da parecchie notti mi è impossibile dormire, si è terribilmente ingrossato, non sono più dolori, ma spasimi; la natura stessa mi fa sentire il bisogno di aprire una via al male che internamente corrode.
La farmacia e i pochi ferri chirurgici li lasciammo a Debra-Tabor, dovendo tornarvi, quindi con un coltellaccio qualunque tento fare quanto l’istinto mi suggerisce, ma la mano malata, Dove il Nilo Azzurro sorge dal lago Tzana ridotta doppiamente sensibile dall’infiammazione, cede sotto l’altra, e solo dopo parecchi tentativi mi riesce aprire un piccolo taglio.
Lunedì 2 giugno. In direzione sud marciamo per quattro ore e piantiamo le tende in un magnifico altipiano, precisamente all’altezza dove il Nilo Azzurro esce dal lago. Questo comincia già un pochino a ristringersi poco sotto Corata, e dove accampammo ieri principia a fare imbuto, sparso di isolotti e lingue di terra che dalla spiaggia, basse si protendono all’interno. Il cammino percorso oggi è sempre parallelo al lago e in qualche punto lambe le sue acque. È sempre alternato fra basse pianure a pascoli popolate da bestiame, ed alture che si stendono lunghe verso il lago, quasi come radici della catena che ci sta sulla sinistra. Attraversando queste la natura è selvaggia e grandiosa, e popolata solo da fiere che non osano mostrarcisi e da una massa di caccia, specialmente faraone e gazzelle: alberi secolari d’ogni forma ed altezza, tronchi caduti per vecchiaia o per forza di bufere ed artisticamente rovesciati gli uni sugli altri, liane che tutte avvingono fra loro le diverse varietà, fiori che coprono il suolo: la mano dell’uomo non entrò certo mai a togliere nulla alle bellezze che natura ha prodigato a questo cantuccio. Il capo del villaggio è cordialissimo e ci manda ogni ben di Dio.
Martedì 3. Restiamo qui per la caccia all’ippopotamo cui prende parte Ferrari: io non lo posso pel mio dito che va di male in peggio: non un istante di riposo nella notte. Con un rasoio prestatomi dai servi tento ancora di farmi da chirurgo, ma di poco riesco ad approfondire il taglio già fatto. Nella notte abbiamo per due volte invasione di grosse formiche nella tenda, che ci obbligano di trasportarla; mi sento sfinito dalla stanchezza, provo necessità assoluta del riposo, sento la sofferenza del bisogno di sonno, mi par di perdere la ragione, gli
occhi vorrebbero chiudersi, ma gli spasimi superano tutto e assolutamente m’è proibito ogni riposo. Ora poi si aggiunge anche questo trambusto. La mattina giunge, e davvero non avrei creduto di poter sopportare tante sì terribili pene.
Mercoledì 4. Per un quarto d’ora ci andiamo innalzando per poi scendere in una vastissima pianura poco più elevata del lago, che tutta attraversiamo: durante la discesa seguiamo coll’occhio il corso del Nilo che dal lato sud-ovest, in fondo alla pianura, va serpeggiando fiancheggiato da due strisce di folta verdura, frutto delle terre che egli lambe e fertilizza.
Appena abbiamo messa la tenda, siamo raggiunti dal fratello del capo del villaggio di ieri, che giunge seguito da gran corteo di servi ed armati: è tanto cordiale con noi, che subito sospettiamo, abituati come ormai siamo che in questo paese c’è ben poca cordialità e spontaneità, e se qualcuno ne mostra è per raggiungere altro fine che si è prefisso. Poco dopo infatti ci fa chiedere delle munizioni.
Continuiamo il giovedì 5 col solito alternarsi di pianure e di alture; attraversiamo diversi corsi d’acqua che vanno a portare il loro obolo a papà Nilo; saliamo un’erta collina, e ridiscesi dall’altro versante ci troviamo al ponte che i Portoghesi costrussero per unire il Goggiam all’Amara, e che oggi potrebbe essere scuola ed invece è onta a questo popolo.
La posizione è delle più tetre che si possano immaginare. Giace questo testimonio dell’antico potere incassato fra alture dai profili quasi orizzontali, sulle quali la vegetazione cessa a metà dell’altezza per dar luogo a pareti di rocce nude e nerastre, in fondo alle quali il fiume scorre accompagnato da un monotono rumoreggiare, che unito al cielo bigio e all’atmosfera cupa del momento per minaccia di temporale, aveva del sepolcrale. Il ponte poggia su roccie di diversa altezza: l’arco maggiore sovrasta la maggiore profondità, quindi sempre vi Antico ponte portoghese sul Nilo Azzurro scorre acqua: i secondarii servono nei casi di grandi piene. Dal lato dell’Amara è l’abitazione di un guardiano che non ne permette il passaggio a chi non è munito di speciale permesso del re. Non volle lasciarci piantare la tenda, per cui ripassammo l’ultima altura per andarci ad accampare ad un paio d’ore di distanza.
Il venerdì restiamo qui fermi, e Ferrari in un giro di caccia trova ad ammirare una stupenda cascata del Nilo poco superiormente al ponte. Io non mi sento la forza d’andarvi, e tento invece un rimedio preparatomi da un soldato con radici essicate e polverizzate, quindi impastate con burro. Copertane la parte ammalata, dopo un paio d’ore mi cessano i dolori, posso riposare la notte, e in poco tempo il taglio da me fatto si è di molto allargato e due nuove aperture laterali si sono formate. Il povero dito è spaventoso, rassomiglia un cavolfiore, ma io sento sollievo, non penso tanto all’avvenire, e mi par rinascere per ora a nuova vita.
Per qualche giorno proseguiamo a piccole tappe, per non stancarmi troppo, e senza notevoli incidenti, tranne fortissimi acquazzoni contro i quali non ci sono coperture nè tende che tengano, e una gherminella delle guide che invece di farci tenere la via più breve come era nostro desiderio, ci fanno deviare per passare da un capo villaggio che aveva loro promesso abbondante tecc. Si percorrono sentieri impossibili attraverso campi e boschi: la natura abbastanza grandiosa e selvaggia: spesso alture coronate da folto verde fra cui giganteggiano le tuje, indizio che vi nascondono qualche chiesa in cui i preti si beano nel far niente, vivendo alle spalle dei poveri contadini. Al famoso villaggio cui tanto tenevano le nostre guide troviamo il capo assente, ma l’invisibile consorte ci usa ogni cordialità, destinandoci un buon tucul e regalandoci di tecc, uova, latte, galline.
Si credeva arrivare a Debra-Tabor il martedì, ma dopo cinque ore di cammino le guide ci consigliano fermarci, pretendendo esservi ancora parecchie ore e non essere conveniente arrivare verso sera e presentarsi al re, come di prammatica.
Mercoledì 11. Per accorciatoio ci fanno fare un’ertissima salita per un sentiero a grossi ciottoli e fra tali boscaglie, che le mule per poco non si accoppano e noi siamo forzati andare a piedi. Attraversiamo così un’altura che determina la vallata in cui dormimmo la prima notte di questa escursione, e ridiscesi per poco dal versante opposto, ci troviamo presso la chiesa del Salvatore. Ai piedi del colle sul quale si trova, stanno parecchi avanzi di edificii che sentono della mano civile, e sono infatti i resti delle abitazioni e officine degli Europei chiamati da Teodoro a portare la civiltà in paese. Da qui per la strada già percorsa siamo in poco più di un’ora a Debra-Tabor, dove il bravo signor Giacomo Naretti e gli altri compagni mi spaventano col loro spavento nel vedere la mia mano, e subito s’accingono ad applicarmi i rimedii necessari.
Giovedì 12. Andiamo dal re per augurargli il buon giorno, frase sacramentale in Abissinia, dargli rapporto della nostra escursione e ringraziarlo delle guide forniteci, ma lo incontriamo che esce per tenere pubblico tribunale. Sulla piattaforma avanti la porta d’ingresso è improvvisata come una gradinata con quattro o cinque angareb di diversa altezza, tutti coperti con stoffe e tappeti: S. M. è accovacciato sul più alto, ai suoi fianchi stanno in piedi i più fidi della corte, dietro lui qualche soldato custodisce una bandiera regalata un tempo dalla regina d’Inghilterra. Sul davanti la collina scende fino alla piazza del mercato dove stanno migliaia di curiosi, e in prima linea tutti i giudicandi che avanzano man mano che i pretesi uscieri li chiamano. Si fanno salire sul versante dell’altura fino ad una ventina di metri dal palco reale, e qui trovano i loro avvocati elegantemente vestiti con camice rosse, depongono a terra alcuni vasi che portavano, espongono la loro querela. Gli avvocati fanno la loro controscena, il re ascolta, si consulta qualche volta coi suoi vicini, poi emette un giudizio che è inappellabile e trasmesso ad alta voce in modo che possa essere inteso da tutto quanto il numeroso uditorio. Non si trattano qui che cause civili, e i vasi deposti contengono miele, tributo dovuto pel trattamento della causa, che in parte è devoluto al re ed in parte agli avvocati. Ben considerata la cosa per se è ridicola, se si pensa al profondo sapere e alla serietà di questi giudici e all’equità delle sentenze che possono emettere, ma come scena non potrebbe essere più grandiosa, e l’immensità dell’ambiente, e la folla degli uditori, e il loro silenzio sepolcrale, l’enfasi delle difese degli avvocati, la parola calma e incisiva del re che col suo volere, con un suo cenno, poteva in quel momento decidere fra la libertà e le catene, la vita o la morte di quei disgraziati che gli si presentavano, tutto concorreva a dare un tal carattere di imponenza che mi lasciò profonda impressione, come certamente non ne può aver lasciata nessuna aula dei nostri tribunali.
L’organizzazione della casa reale o di un gran capo qualunque, è in questo paese affare grandioso e complicato, ma certo ridicolo più che serio per chi pretendesse che avesse a corrispondere alla parola organizzazione nel suo stretto senso. Presa dal lato apparato e importanza, merita per altro qualche considerazione od almeno due parole di descrizione. Comincio dal notare che nessuno fra tutti questi alti dignitari ha fatto studii speciali od ha acquisita esperienza che gli possa meritamente attribuire il grado che occupa: tutto è questione di favoritismo, d’occasione, di spigliatezza più che di ingegno, e spesso di intrigo riuscito. Tutti però occupano il loro posto e disimpegnano le loro funzioni con una serietà, una importanza ed un affacendarsi, come tenessero le redini della politica europea.
Nel costume abituale nessuna distinzione, solo nelle grandi occasioni sono vestiti di camicie in seta con ornati tessuti o ricamati a diversi colori, e questo generalmente è dono particolare del re. I gradi di tutta la coorte, per non dire baraonda, che segue la corte sono così distribuiti: comandante l’avanguardia, gran mastro di cerimonie, gran sorvegliante l’andamento di casa o maggiordomo, tesoriere, segretario particolare per le corrispondenze, dragomanno e ministro per gli affari esteri, scrivani, custode al tesoro, custode alle guardarobe reali, scudiere o sorvegliante i cavalli e le mule, sorveglianti alla carne, alla farina, al pane, al tecc, ecc. Fra le donne, le direttrici alle cucine, alle panattiere, alle fabbricatrici di tecc e di birra, alle portatrici dei vasi per queste bevande.
Ogni dignitario segue il re, forma parte del suo stato maggiore e comanda un certo numero di soldati. In marcia seguono poi come addetti alla corte, una massa infinita di portatori delle tende, del tesoro, delle provvigioni, ecc.
Il re detta le corrispondenze o le fa scrivere dando a svolgere il suo concetto, poi le rilegge e allora vi applica il sigillo reale etiope.
Si passa ancora qualche giorno al campo reale e intanto si fanno tutti i progetti e i preparativi per la partenza, quantunque le piogge abbiano già cominciato giornaliere e forti. Si tratta di decidersi freddamente a passare due o tre mesi di inazione sotto una capanna, atrofizzando persino il cervello, chè, non essendovi preparati, non abbiamo neppur libri da leggere con noi, o partire, disposti a vivere nell’umido tutto quanto il viaggio, e confidare nella buona stella sia per la salute, sia per la possibilità di guadare i torrenti che scendono impetuosi. Se fossimo stati guidati da un po’ più di esperienza nel fare i preparativi di questo viaggio, la cosa non si sarebbe presentata tanto disastrosa, ma equipaggiati come eravamo noi, che mancavamo persino dello stretto necessario, pareva quasi temerità l’intraprendere in questa stagione il viaggio del ritorno. Ma tanto si volle tentare, e si decide di prendere la via di Galabat, Kassala, Suakin. Il re ci prega però di tornare da Massaua, dicendo essere l’altra via pericolosissima in questa epoca per le febbri, ed assicurando che almeno un paio di noi vi avrebbe lasciata la vita.
Dovendo noi andarcene all’estremità nord del lago Tzana a visitare uno zio del re, malato, e desiderando nel ritorno percorrere la via del Semien, per vedere paesi nuovi, facciamo partire subito la carovana del bagaglio che percorrerà la strada fatta nel venire, più lunga ma comoda per le mule, e noi decidiamo che partiremo con pochi servi e nessun carico per esser lesti a superare certi passi rocciosi che ci dipingono orrendi.
L’incontro delle due carovane è deciso sarà in Adua.
Fissato il giorno della partenza andiamo a congedarci dal re che ci saluta colla solita freddezza, nella quale bisogna leggere la cordialità, sapendo essere effetto del carattere.
In Abissinia questo re è generalmente piuttosto amato, se si può ammettere che questo popolo ami un sovrano od un capo qualunque. Io credo che in questo paese si ama il re in generale perchè si ha l’abitudine di temerlo, e si ama re Giovanni per l’ammirazione che si ha per la sua abilità e fortuna colle armi. Ma se domani un altro individuo qualunque sorgesse, trovasse proseliti, bandisse una crociata, fosse tanto abile e fortunato da vincere le truppe reali e si proclamasse re, tutto il popolo dimentica chi è caduto in disgrazia e plaude e fanatizza pel nuovo che li guida alla vittoria e cinge la corona del re dei re.
Il gran merito che in generale si fa a re Giovanni è quello della serietà, del non essere crudele, e dell’imparzialità, avendo dato prova che quando un castigo è meritato non usa riguardo nè ad amici nè a parenti: sono qualità che non dovrebbero essere meriti in nessuno queste, ma fra un popolo come l’abissino, fresco ancora delle memorie di Teodoro e delle più vecchie tradizioni, è permesso che se ne faccia gran conto.