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Capitolo undicesimo. 223

restiamo divisi Dio sa fin quando, e la nostra roba vada perduta. La casa che occupavamo noi è abitata dal console di Grecia in Suez che aspetta di poter partire pel campo del re. È persona gentile e cordiale quanto mai, che appena saputo del nostro arrivo ci manda in regalo vino, cognac e qualche scatola di conserve. È inutile e impossibile dire con quanta festa le accogliemmo e con quanto gusto le divorammo.

Passiamo qualche giorno in Adua in attesa del nostro bagaglio sulla sorte del quale siamo molto inquieti, non avendosi notizia alcuna. Finalmente il fido Baramascal, il capo dei servi, arriva e ci porta la grata nuova che le casse sono in Axum e ci raggiungeranno l’indomani. A due giornate da Debra-Tabor le mule sentirono ancora degli strapazzi del viaggio di andata e non furono più in grado di portare il loro carico che si dovette fare in gran parte trasportare a spalla d’uomini: stettero quattro giorni accampati al Taccazè in attesa della possibilità di passarlo. Legata ogni cassa ad un lungo bastone, due nativi che tenevano questo alle estremità, nuotando le trascinarono nell’acqua, per modo che tutte se ne riempirono e la roba nostra ci arriva tanto bagnata e sudicia da far pietà: in parte anzi completamente rovinata, tanto da doversi abbandonare. Due mule morirono per strada e le altre ci arrivano in uno stato miserando per piaghe e magrezza, talchè siamo costretti a subito procurarcene altre per proseguire il viaggio. Accompagnati come siamo da una guida del re, avremmo diritto a pretendere che di villaggio in villaggio ci si trasporti il nostro bagaglio a spalle d’uomini, ma questo sistema offre molti inconvenienti, primo dei quali una massa di perditempo.

Ad ogni paese c’è a questionare e ad aspettare delle ore e dei giorni prima che si trovino portatori sufficienti; poi bisogna continuamente andare a zig-zag, chè i contadini, se fuori strada v’è un villaggio più vicino che non il primo sulla via, non ri-