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204 Capitolo undicesimo.


Al momento della partenza fummo affidati ad un giovane soldato, logoro e schifoso da destare ribrezzo e pietà, che doveva esserci di guida ed ottenerci in nome del suo Sovrano, ad ogni villaggio che incontravamo sulla nostra via, tanta roba da mantenere un reggimento. Una lettera dataci dal re e diretta a tutti i governatori, capi dei villaggi, preti, ci raccomandava e minacciava severe punizioni in caso di rifiuto all’adempimento di questi ordini, ma sono così scarsi quelli che in Abissinia sanno leggere, che anche questo documento finisce per diventare inutile, oso dire, derisorio.

Nove prigionieri abissinesi, tenuti da un tronco d’albero che con una forcella ad un’estremità serra loro il collo, e scortati da parecchi soldati, sono destinati a fare il viaggio con noi fino al campo di ras Area, lo zio del re dal quale siamo chiamati. La compagnia non era certo la più simpatica, ma in questi paesi bisogna sorpassare a molte cose; d’altronde noi siamo a mula e vogliamo fare marce forzate, per cui dopo poco cammino li lasciamo e proseguiamo per conto nostro.

Il giorno appresso la guida lega per bene l’ostile capo del villaggio e lo trascina per portarlo a scontare il fio della sua mancanza, ma i preti si presentano in funzione, colle croci in testa e seguiti da molto popolo ad implorare il nostro perdono che ci mostriamo risoluti a rifiutare. Fatta poca via però siamo fermati da un baccano misto di suoni e gridi; sono l’allarme che i ministri di Dio danno, e la raccolta ai fedeli per inseguirci in massa e colla forza ottenere la libertà del capo. Per evitare guai, nei quali certo saremmo sopraffatti dal numero, e d’altronde avendo ben poco a guadagnare dalla compagnia del nostro prigioniero, testimoni i preti, lo dichiariamo assolto dalla sua colpa, purchè venga ad accompagnarci fino alla sera e ci ottenga dal nuovo capo quello che desideriamo. Così fu pattuito, ma lungo la strada scomparve fra boscaglie e fuggì. Dopo una traversata