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206 Capitolo undicesimo.


Ci facciamo annunciare, e dopo una mezz’ora di nojosa anticamera fuori della cinta, circondati da centinaja di impudenti soldati che spingono la loro curiosità all’indiscrezione, non sanno cosa sia cortesia e si divertono a deriderci ed insultarci ripetendo fra loro turco, turco, siamo invitati ad entrare. Attraversata parte del recinto siamo introdotti in un vastissimo tucul dove ras Area sta accovacciato fra una massa di grandi, di generali, di avvocati. La nostra guida ci presenta, o meglio ci presentiamo da noi, ma la guida consegna uno scritto del re.

Tutti si alzano vedendo il suggello reale; commentano frase per frase, ci fanno mille domande sul dove andiamo, da dove veniamo, chi siamo, cosa contiamo fare, poi siamo licenziati e affidati ad un individuo che si porta ad un piccolo tucul, in mezzo a tutti gli altri delle truppe, già pieno di soldati che si fanno sgombrare. Non è così che si trattano persone di riguardo, come, senza tema di peccare di superbia, credo siamo noi in questo paese, dove se si fa dell’ospitalità, almeno apparentemente si cerca di farla bene, ma pensiamo saranno stati male eseguiti gli ordini dati, e ci adattiamo alle circostanze, ci spogliamo delle nostre armi e ci sdrajamo in cerca di riposo, sperando arrivi presto anche da soddisfare l’appetito.

Entra poco dopo un messo con un corno di tecc e ci offre a bere, poi ci invita per ordine del capo a portarci da lui. Certo è per darci da mangiare, pensiamo, e pieni di speranze e d’ardire ci avviamo. Ras Area è seduto nell’angolo di un piccolo ricinto e circondato da una ventina dei più fidi compagni; salutiamo e ci disponiamo davanti a loro; un forte battibecco comincia, si fa viva una querela fra loro, dai gesti si vede che vogliono accusarci di qualche cosa; il nostro servo che fa da interprete dice ci ritengono malfattori; pensiamo ci scambino pei condannati che dovevano arrivare con noi e cerchiamo spiegarci, ma ad un cenno del capo una massa di soldati invade,