Viaggio di un povero letterato/XIV
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Capìtolo XIV.
PÈCORE E UOMINI.
Linea Firenze-Faenza.
Ieri grandinò: il treno correva sotto le nubi, che calàvano plùmbee, gràvide ancora di piòggia: le cime verdi dell’Appennino le ferìvano, e dallo squàrcio si vedeva qualche strìscia d’azzurro. Poi il treno cominciò ad ansimare lungo le rotàie bagnate, su per l’erta dei monti. Le quattro ruote accoppiate della macchina pareva avessero gran pena a salire.
La torre di Fièsole, già scomparsa nel fondo dell’orizzonte, mi rideva ancora nel cuore, melanconicamente: Dante, Itàlia, Firenze, cuore d’Itàlia!
Giallore di ginestre fra le genghe dell’Appennino; e guardando in giù in fondo ai viadotti, ai vedèvano gore lustreggianti; e in fondo ai botri, e su per le aèree pendici si vedèvano bianche pècore in piena pace pascenti.
Sotto il riparo di una schèggia, ecco due pastorelli si ripàrano dalla piòggia. Fanno con le manine «Addio, addio» al treno: sorrìdono: soli, piccini, tranquilli fra quei gran monti paurosi.
Ma le pècore, ma qualche màcchia più bianca lassù fra i querceti — èrano mucche e buoi — non lèvano nemmeno la testa.
Chi lo ha detto? San Paolo, mi pare; e di poi l’hanno ripetuto i padri della Compagnia di Gesù: «Gli uòmini sono pècore, e le pècore non potrèbbero salire al monte senza cozzare insieme sino a precipitare giù nel burrone, se il pastore, cioè la provvidenza, non le vigilasse».
Ma guardando quelle pècore pascenti non mi parve che esse avèssero bisogno del pastore. Esse brùcano oggi in divina pace fra questi monti; come trecento, come mille anni fa. Le nubi minacciose ed orlate di nero scèndono dal cielo; ed esse brùcano in pace!
Bello questo paesàggio aspro dell’Appennino: esso è rimasto forse come era più di mille anni fa, quando i messi di re Alboino, dopo tanto cercare, vi trovàrono alfine la Marcolfa col figliuol suo Bertoldino: paesàggio immoto nelle età, attraversato adesso da questa carrozza di ferro, coi sedili imbottiti di velluto, il lavamano e le lampadine elèttriche.
Forse il pastore è necessàrio per gli uòmini.
Una gran tenerezza mi trascinava dal treno fuggente verso quei ruminanti: coperti di vello duro, brucanti gli odorosi mentastri, beventi acque pure, digerenti con quattro stòmachi: se non ci fòssero i lupi e i macellai, però. Curiosa stòria! Si legge dell’uomo questa cosa: che dopo aver trovato quella sua celebre definizione: cògito, ergo sum, ha poi desiderato di èssere come le pècore!
Strano è anche come i vecchi castelli, i vecchi borghi si confòndano con il colore delle rocce. Le torri sèmbrano ricami della terra: tutto si confonde nella terra.
Nelle curve si vede il treno che, ruggendo, si disvìncola dalle strette dei monti. La màcchina — a fissarla lungamente — sembra, con quel pennàcchio di fumo e quell’àlacre moto dei suoi organi, che vada animata da una sua volontà. Certo è un’illusione dell’òcchio perchè è l’uomo che ha creato la màcchina. Però questo contìnuo creare màcchine e màcchine non può darsi che porti via un po’ d’anima all’uomo per darlo alle màcchine? Se la natura ha dato quel tanto e non più....
Il treno si è liberato dai monti. Precìpita.
Brisighella: siamo già in pianura: pochi chilometri ancora, e poi Faenza.
Sopra Brisighella in cima a tre collinette si sono rifugiati una torre merlata con l’orològio, una chiesina, un minùscolo castello: un, due e tre, su le tre collinette. Una fila di cipressetti li congiunge, che pare un ricamo nel cielo.
Quelle tre cosine salùtano sempre i treni che pàssano.
Faenza! Ecco noi siamo arrivati in Romagna, e per l’appunto in quella città che fu chiamata l’Atene delle Romagne, in quei tempi in cui con molta facilità si concedèvano queste onorificenze di Grècia e di Roma. I superiori che allora comandàvano in Itàlia, trovàvano, anzi, questi balocchi molto ùtili.
Scendo dal treno. È l’ora del vèspero. Due, tre, parècchie donne pedàlano ardite e un po’ scomposte, sul largo piazzale della stazione.
Oh! Romagna, dolce paese democràtico!
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Oh, Romagna, generosa Romagna, forte ed ospitale Romagna! Io non dico di no. Ma dal tempo in cui l’Ipèrbole mi ha privato del benefìcio della sua protezione, io non godo più la giòia di questi attributi alla forte Romagna. Io non ammiro più le vostre risolute bestèmmie; io non poso più volentieri le labbra sul vostro ospitale bicchiere. Quanto alla democrazia, è un altro affare. Nel tempo che vissi in Romagna, fui molto avvilito a sentirmi sempre interpellare con un: “Puvrèin!„ Poverino, qua; poverino, là! Lo dicevano per modo di dire, e gentilmente; e certo bene considerando, tutti noi siamo poverini. Sarà democràtico quel «poverino», ma è seccante. E poi perchè ai cavadenti di piazza, ai tenori, ai ricchi proprietari di cavalli non dicono puvrèin?
Ma il vero è che io quella sera non avendo aspetto nè di cavadenti, nè di tenore, nè di proprietàrio di cavalli; e d’altra parte ricordèvole di quell’esasperante puvrèin, era molto incerto sul modo di entrare in città, e presentarmi ad un albergo.
Ora capisco tutta la tua intuitiva saggezza, egrègio giòvane della ditta Darük und Sohn che mi offristi così ùtili, benchè tardivi precetti, nella gita Bologna-Scaricalàsino!
Bisognava tuttavia escogitare un qualche espediente per isfuggire familiarità democràtiche. Mi venne in mente una deplorèvole finzione, e l’ho adoperata, quella sera.
Ho simulato cioè di èssere tedesco, svìzzero, che so io; tutto fuor che italiano: poche parole dure, sempre molto impettito, e mai sorrìdere, perchè il sorriso è la più pericolosa forma di dimestichezza.
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La càmera che mi fu offerta era una grande, bella e fresca càmera con buonìssimo letto.
Quanto ai mòbili, era un’ingènua contaminazione del conforto moderno con antichi arredi che oggi sono chiamati di pèssimo gusto, cioè angioletti di gesso, frutti di scagliola, tappetini fatti con ritagli di stoffe: tutte cose che si consèrvano nelle vècchie case di Romagna, la quale è piuttosto conservatrice benchè àbbia fama di èssere rivoluzionària.
Ispezionai rigorosamente.
— Questo, orrìbile, cos’è? — domandai al proprietàrio, indicando alcune chiazze nere, su la parete contro al lavamano.
— Mah! Quando si làvano — disse bonariamente —, invece di scostare il catino, buttano tutti i sbruffi dell’acqua sporca sul muro. Sicuro già che l’è poca pulizia!
— E quest’altro, più orrìbile, cos’è? Il brav’uomo allargò le bràccia:
— Lo crede, el me signor — disse, — che ho fatto imbiancare tre volte da quando che sono qui? E ho fatto mèttere la sputacchiera apposta, come usa adesso. Macchè! loro tìrano al bersàglio. E gente che a vederla pare pulita; forestieri, gente come lei, che non si direbbe! Guardi mo’. — E additò tutti i punti cardinali della càmera. — Come si fa? Ci vuole pazienza.
— E questa coperta del letto la chiamate bianca voi?
— Sangue della Madonna, — esclamò — l’abbiamo cambiata ieri. Si pulìscono le scarpe, sti boja!
Dissi:
— Molto sporchi i tagliani!
— Tutto il mondo è paese, caro il mio signore — rispose con rassegnazione. — Vuol dire poi che chi è sporco per un verso, e chi è sporco per un altro.
Poco dopo sentii bàttere discretamente all’ùscio.
— Cosa volete?
— Scusi sa, ma c’è il nome e cognome da mèttere. Adesso vògliono anche questa roba qui, e ci vuole pazienza.
Tracciai sgarbatamente il mio nome con caràtteri gòtici, mutando la i in y: qualcosa di incomprensìbile.
Il mio òspite non replicò, ma mi parve che se ne andasse mandàndomi un accidente.
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Ho dormito finalmente bene: mi sono fatto aprire la finestra: il cielo era puro, innocente: della delinquenza del temporale di ieri nessuna tràccia. La bella estate aveva ricondotto il sereno. Canti di augelli dalla campagna, raggi di sole nascente. Come è più bello il sole in Romagna!
— Un caffè raccomandato, senza vostra porcheria di cicòria. E i giornali, molti giornali — ordinai.
Ecco il caffè, ecco i giornali. Pover’uomo, aveva preparato un caffè eccellente. Disteso sul letto, ravvolto nel sole e nell’ària del mattino, io venni un po’ per volta a trovarmi in quello stato di benèssere che segue al riposo notturno e a una buona tazza di caffè. Accesi il sìgaro per rèndere più completa la voluttà. «Godiamo!» come dice quella signora, e cominciai a svòlgere i giornali.
Notìzie della guerra. Se ne comìncia a capire qualche cosa, cioè sono i Greci ed i Serbi contro i Bùlgari. «Gli euzoni, i palicari — dice questo giornale — si buttàvano contro la mitràglia dei cannoni bùlgari, cantando.» Allora è vero quello che disse il poeta Giàcomo Leopardi:
parea ch’a danza e non a morte andasse |
Zìvio i Ellas! e tanto mèglio.
Dunque esìstono ancora gli Èlleni?
Dunque non è vero che i Greci siano «briganti assai», come scriveva Monaldo padre per calmare i furori eròici del figlio Giàcomo? Dunque la Grècia non è morta? Botzaris dice di no. Tanto mèglio! Ma chi ne sa nulla? Spesso basta un uomo o una leggenda a far grande un pòpolo.
Ma le grandi Nazioni, i grandi potentati, che da anni ed anni, a fior di labbro soffiàvano per spègnere il focolare balcànico, sono un poco sorpresi del vasto braciere suscitato laggiù. Se quelle alte fiamme si appiccàssero alle vesti delle magnìfiche Potenze?
La mia supposizione non è verosìmile. Prima di tutto i re delle grandi Potenze si incòntrano ogni tanto, e quando si sono incontrati, bèvono lo champagne e dicono: Hoch! Zìvio! Hurrah! Evviva! Si congràtulano della loro rispettiva salute e di quella dei loro pòpoli, e poi comùnicano ai pòpoli questo messàggio che col patrocìnio dell’Onnipotente la pace è assicurata. In secondo luogo, e a mia memòria, i ciambellani dei re dìcono ai pòpoli: l’accordo è perfetto. E allora speriamo bene!
V’è chi trova che il sistema dei re è molto costoso, e un po’ fuori di moda. Ma tutto è costoso! Anche la Giustìzia è costosa, eppure è necessària; non perchè essa possa fare giustìzia, ma per rèndere meno intolleràbile l’Ingiustìzia. E così si può dire dei re. Essi — come dice San Paolo — sono la Provvidenza dei pòpoli. Il perìcolo che presèntano i re è forse questo, che uno di essi vòglia ròmpere tutte le altre teste coronate dei cugini re, e assicurare così la pace senza l’aiuto dell’Onnipotente. Aboliamo allora i re. Ma chi garantisce che i pòpoli si vògliano bene? I pòpoli si àmano o sono, come la matèria, repellenti?
Io non ne so nulla: io amo i pòpoli con lo stesso amore con cui amo i re.
Non so perchè, a questo punto, vidi davanti a me, ròseo, beato, in toga càndida, seduto su la sèdia d’avòrio, Cèsare Augusto imperator romano. Le sue chiome stillàvano ambròsia come quelle di Giove, con la mano pontificale segnava l’amministrazione del mondo.
A quanti re e cugini aveva egli rotta la testa? per quanto sangue era passato prima di ridurre il mondo in somma pace, e sedersi lui in pace su la sèdia d’avòrio? Ma ora Augusto non portava più corazza insanguinata, ma un càndido manto; non più elmo, ma una corona di alloro. Un bel sorriso ornava la maestà del suo volto, e diceva: «Guerre non più! Caso mai si farà la guerra per la conservazione della pace: guai anzi a chi disturberà la maestà della pace romana! Noi d’ora in avanti coltiveremo le lèttere, le arti e le scienze, e decoreremo il mondo di bellìssime istituzioni».
E presso di Augusto imperatore sedeva un giovanetto, càndido e gentile; un poeta di nome Virgilio; il quale gli traducea con infinita dolcezza le spaventose guerre, òrrida bella, dell’impero, cominciando dal sàvio Enea che venne da Troia, su su, sino al tempo nel quale lui, Cèsare Augusto, si chiamava semplicemente Ottaviano Augusto ascoltava con molto compiacimento il poeta, tanto più che la stòria del come aveva fatto per diventare Augusto, domandava non pochi abbellimenti poètici. Ma ad un tratto Augusto balzò su la sèdia di avòrio: un dispàccio gli era venuto che gli annunciava come i soldati romani messi a guàrdia della pace, èrano stati dal tedesco Armìnio tagliati a pezzi dalla guerra. E da allora, per altri tre sècoli, l’impero dovette far la guerra per conservare la pace.
Ma ecco spuntò un bel giorno in cui la pace sembrò assicurata definitivamente; e ciò fu perchè venne Cristo, e gli ufficiali e soldati romani si rifiutàvano di adoperare la spada, perchè Cristo vieta di adoperare le spade. Sarebbe stata una cosa sublime se ai confini dell’Impero non ci fossero stati molti Armini, i quali non conoscèvano Cristo e avèvano molto sangue nelle vene. Allora un sàvio imperatore, di nome Diocleziano, ricorse alle più severe misure contro quegli indisciplinati. Ma come era possìbile punire gli indisciplinati quando il numero di costoro superava gli agenti della disciplina? E fu così che un altro imperatore, sàvio anche lui, ma di nome Costantino, adottò un altro sistema: inquadrò gli indisciplinati nello Stato. Ma dal giorno in cui i seguaci di Cristo furono inquadrati nello Stato, essi non andàrono più d’accordo, nemmeno su la natura di Cristo.
Ah, mostruosa cosa! Conòscere Cristo e non andare d’accordo! Aver distrutto il meraviglioso impero in nome di Cristo, e combattersi ancora in nome di Cristo!
E da allora il giro delle guerre ricominciò, senza fine; e sempre per aver pace: Carlo Magno, Carlo Quinto, Carlo Marx, unti dal Signore, unti dal Pòpolo! Chi scrive qui nel giornale queste abbominèvoli parole?
La Dio mercè il pacifismo è tramontato! I giòvani d’oggi sono ridivenuti anelanti di esprìmere che la guerra è la realtà dello spìrito umano. Questi giornali ragiònano tutti della guerra con un materialismo che desta orrore. E poi non si tratta di guerra soltanto; si tratta di stragi! E questo è uno spettàcolo barbàrico, disgustoso, che distrugge la civiltà della Croce.
Ma e io? Io che qui, beato sul letto, leggo il giornale e fumo?
I danni della guerra? Come la grandinata di ieri! Tranne i pochi colpiti, chi se ne ricorda più oggi? Ieri il cielo era nero, oggi è azzurro. Ieri i passerotti stàvano nascosti, e oggi càntano e sàltano. Io suppongo che dopo cinque, dieci anni, i morti in guerra ritòrnino alle loro case. Essi cèrcano trepidanti il loro tetto, il loro letto, il loro posto alla mensa. «Oh, i benvenuti», ma un altro già dorme su quel letto, e il posto alla mensa è ristretto. «Tornate, tornate ove eravate!»
Anche le povere mamme sono morte, frattanto.
Però, invidiàbile giòvane della Ditta Darük und Sohn, che non pensi a queste cose! Io non posso tenere giù il sipàrio del cervello. Appena poche ore di sonno: poi gli occhi si àprono; e trovo il sipàrio alzato; e i burattini della vigìlia contìnuano la loro rappresentazione.
Guardavo con stupore fuori della finestra le verdi piante, il bell’azzurro, i cantanti augelletti.
Via, speriamo che presto cali il sipàrio su tutti questi orrori del mondo.
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Dissi all’oste:
— Informàtevi sùbito, stazione, se diretto Bologna avere corrispondenza mit Venedig.
Egli corse alla stazione e m’informò che sì.
Fu in tal modo che la sera stessa ero a Venèzia.