Viaggio di un povero letterato/XIII

XIII - La pupa, il prete e la guerra

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XII XIV
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Capìtolo xiii.


LA PUPA, IL PRETE E LA GUERRA.


Una elegante donnina che andava su e giù a passettini stretti sotto la tettòia della stazione di Pisa, è salita anche lei nel treno dove sono salito io. Non è sola; ma con un grosso vistoso signore. Adesso ella sta seduta: io la posso contemplare in tutta pace. È bella? chi lo può dire? Il suo volto pare ricavato per opera di un àbile gelatiere da un sorbetto di crema alla vanìglia, con ricami di cioccolata ed alchermes. I suoi occhi sono lineati ad arte; e rimàngono immòbili e stùpidi: deve essere giovanìssima; un’adolescente ancora. Questa adolescenza e quegli artifici di vècchia cortigiana pertùrbano. Il suo crànio pìccolo sta incapsulato, giù sino alla nuca, in uno di quei cupolini che ora sono di moda: dalla nuca si drizza pur una penna, alta [p. 127 modifica]quasi come lei. Una spècie di casacca, lievìssima, àmpia, color granata, le sta aperta sul petto, dove una mussolina aderisce così finamente che sìmula l’epidèrmide. La gonnella a sghimbèscio làscia esposte due scarpette laccate, affusolate, mìnime: la trama delle sue calze è così lieve che si direbbe senza calze.

Non giunge nè meno ad essere invereconda e scomposta: anzi rimane composta. Un grosso mazzo di viole le sta fermato sul petto: un grosso manìpolo di rose thea, di rose purpùree ella ha posato sul cuscino rosso. Vien la vòglia di soffiarci sopra, e farla fuggire dal finestrino quella fèmmina perturbante.

Ne sono perturbati un po’ tutti. È una ressa di gente, enorme, anche in prima classe: grossi maschi, grossi sottotenenti bellìssimi affòllano il passàggio del corridoio, sbìrciano, èntrano: è il mattino d’estate, l'ora dei formidàbili appetiti.

Lei non si muove; il signore che è con lei, le fa segno di restrìngersi, pare su le spine, ha gli occhi fuori della testa.

Oh, ma quei signori sono tutti cortesi, quei bellìssimi imberbi dei sottotenenti sono di una cortesia spaventosa. La [p. 128 modifica]signorina non si muova, le rose thea stìano sedute: staranno loro, i sottotenenti e i tenenti, in piedi. Stanno in piedi: mòstrano ridenti bianchi denti.

Mi pare che la vògliano mangiare.

La graziosa pupàttola gira attorno la serenità dei suoi occhi idioti, e sembra dire: «Io mi lascierei anche mangiare. Ma come si fa?».

Oh, grosso signore, con gli occhi fuori della testa, proprietàrio o usufruttuàrio di quella adolescente femminetta, ringràzia il tuo santo protettore che noi viviamo in un tempo pieno di civiltà, perchè in verità, se vivèssimo in un’età primitiva, tu correresti un quarto d’ora un poco terrìbile.

Ma che si aspetta per partire? Si aspetta il diretto da Roma. Ecco, arriva finalmente; strìscia, brùcia su le rotàie un lungo treno. Si ferma: il treno porta con sè tutto il vòrtice, tutta la pòlvere della lunga corsa per la deserta Maremma: la màcchina sembra bàttere i fianchi, anelare. Gridano i giornali di Roma: La Tribuna, Il Giornale d’Itàlia. [p. 129 modifica]

Si parte, alfine.

Èccoci fuori della tettòia: si respira.

Ride la campagna nella gran primavera del lùglio fiammante. Cimitero, Chiesa, Battistero di Pisa, addio per l’ùltima volta.

Io ritorno ancora con lo sguardo dentro lo scompartimento: la gente è un po’ sfollata, si è messa a posto: tutti hanno i gran fogli dei giornali spiegati: Tribuna, Giornale d’Itàlia.

Tutti lèggono: anche la giovinetta legge, o almeno le sue manine tèngono il fòglio spiegato, ed io vi posso lèggere in grande queste parole: Orrìbili crudeltà bùlgare. Alcune madri videro i loro figlioletti gettati dalle finestre su le baionette dei soldati.

I grossi maschi, che vanno su e giù pel corridòio; due signori, che sono seduti nello scompartimento, tèngono anch’essi lo stesso giornale in mano: le loro pupille pàssano con indifferenza dai bimbi gettati su le baionette bùlgare, a quella femmina provocante.

Gli orrori della guerra balcanica?

Certamente gli orrori della guerra balcànica sono lontani da Pisa. Ma si vede pròprio che l’amore verso il pròssimo, [p. 130 modifica]comandato da Gesù Cristo, è diffìcile. Si direbbe anzi che la difficoltà aumenti in ragione del quadrato della distanza. Io mi trovo in tasca un Corriere della Sera, e con molta sorpresa leggo che gli orrori della guerra fòrmano oggetto di un artìcolo dell’illustre Luigi Luzzatti. Il suo artìcolo è intitolato così: «la nostra felina umana natura». Grave!

L’illustre e venerando filòsofo si dichiara molto dubbioso a rispòndere a questo problema: “se la bontà sia all’altezza del nostro incivilimento materiale„. Ma che succede? Una ventata di pessimismo passa anche per il cervello, sempre in perfetto bilàncio, dell’onorèvole Luigi Luzzatti? Sembrerebbe che sì, e la cosa mi fa dispiacere perchè non vorrei che gli dovesse far male. Un uomo che non ha mai dubitato della nobiltà dell’umana natura, dubitare ora in così tarda età? Gli potrebbe far male. L’ottimismo non è soltanto una filosofia, ma anche un eccellente digestivo.

Ecco il diretto si arresta: Viarèggio. Oh, finalmente! Il proprietàrio della [p. 131 modifica]bella bàmbola si affretta a chiamare dal finestrino: «Facchino, facchino». È impaziente di scèndere. Consegna valige, grosse valige, scatoloni. Gira, però, ogni tanto la fàccia congestionata verso quella sua femminetta. Ella è fresca come un gelato; e non è mica infondato il sospetto che quei grossi imberbi degli ufficiali non àbbiano diritto di rinfrescarsi un poco al contatto di quel gelato di carne. Affare sèrio anche questo della proprietà! Ma non succede nulla. Il grazioso balocco pei grossi bambini si alza placidamente: alzàndosi, làscia cadere a terra il giornale coi bimbi infilzati: raccòglie solamente le rose, discende piano, con gràzia, con amàbile stento.

L’alta penna ondèggia su la folla, densa alla stazione di Viarèggio.

Molta gente è discesa a Viarèggio: il treno è quasi sfollato. Si riprende la corsa. Le Alpi Apuane àprono in fondo il loro scenàrio bianco di marmi. Sento con emozione gridare un nome: Pietrasanta. Qui è nato Giòsue Carducci. Mi pare che tutta la gente debba guardare, debba dire: «Dove è nato Giòsue Carducci?» La gente non dice nulla. [p. 132 modifica]

Perchè ho preso questo deserto pìccolo treno che da Sarzana va a Parma?

Non lo so. So che sono padrone di tutta la prima classe. Oh, verdi valli della Magra dalle cilestrine acque, dai tranquilli gorghi! che nostalgia di solitùdine, di pure acque, di profondi boschi, di paesàggio con poca gente! Ma dopo due ore che il treno saliva, mi venne in mente che, poi, avrebbe cominciato a scèndere.

Così avvenne che mi trovai a terra.

— Guardi che il treno parte sùbito.

— Rimango.

Fu per tale ragione che sono disceso a Borgotaro, luogo deserto fra i monti. Ma dove è Borgotaro? È lontano dalla stazione. Deserto e solitùdine là dove io ero. Ma cosa fare lì? Forse che noi siamo come il pàssero, che non si può staccare dagli uòmini omicidi?

Il paese di Borgotaro si disegna a corona, distante circa un chilòmetro dalla stazione. Un nastro di strada, larga, [p. 133 modifica]bianca, vi conduce. Mi avviai piano piano. Quando fui a metà circa della via, mi sorprese una casa nuova, dove tutta la facciata era occupata per il lungo da una scritta cubitale, con caràtteri neri su lo sfondo bianco della fàscia: e la scritta diceva così: «senza Dio noi non siamo nulla».

Questa curiosa scritta mi ha fermato lì per qualche tempo. Certo che non è fàcile dichiarare che cosa siamo venuti a fare al mondo: a far nùmero? a dar commèrcio? a godere — come mi diceva tristamente una signora: «io vòglio godere!»?

Invece quando si ammette Dio, la risposta viene bene: - «Siamo venuti al mondo per amare e servire Dio, e poi goderlo in paradiso».

La difficoltà sta tutta nella prima parte: crèdere in Dio. Ma non c’è dùbbio che il proprietàrio di questa casa è un santo o qualcosa del gènere affine.

Borgotaro!

Borgotaro triste, cadente, diroccato borgo, chiuso nelle mura dell’antico castello. Come fa la gente qui a consumare le ventiquattro ore dell’esistenza giornaliera? Io non ci potei consumare due [p. 134 modifica]ore. Mi ricordai che presso questo castello passò negli anni 1494 Carlo VIII, re di Frància, quando mosse alla conquista del Reame di Nàpoli.

Il merìggio divampava ardente fra il silènzio dell’Appennino. I bimbi, infilzati su le baionette bùlgare, mi chiamàrono alla mente il re Carlo VIII, con la lància alla còscia, che infilzava l’Itàlia. Federico Nietzsche diceva: «Benìssimo!» e l’onorevole Luigi Luzzatti diceva: «Oibò!».

Queste stravaganti fantasie mi ballàvano dolorosamente nella testa in quel merìggio. Tutt’effetto di nervi non riposati. Se avessi riposato la notte a Pisa, il pensiero doveva essere questo: «Dove è un’osteria? dove si màngia bene a Borgotaro?»

Me ne tornai indietro da Borgotaro senza far colazione, in compagnia di un vècchio lavoratore che incontrai per via. Gli domandai — come vi passammo davanti — a chi apparteneva la casa su la quale era la scritta, «Senza Dio noi non siamo nulla».

— Èccolo che vien fuori adesso — disse il lavoratore.

— Quel prete? [p. 135 modifica]

— Sì, quel prete.

In quel punto, dal cortile usciva un biroccino, tirato da un cavallino asciutto, brioso, che nitriva allegramente. Il prete, che occupava col suo gran corpo il pìccolo sedile, non aveva affatto l’aspetto di uomo nato per la rinùncia. Era un forte, vigoroso uomo.

Appena fu su la via, mosse le rèdini e il cavallo scappò. E il lavoratore si sberrettò.

Disse poi il lavoratore:

— Questa casa è sua, quel prato è suo, quel campo è suo.... Anche quei campi là son suoi.

— Allora è tutto suo.

— Ah sì, se camperà molti anni, tutto il paese sarà suo.

Il lavoratore cominciò a querelarsi perchè il prete godeva, in terra, il paradiso. — Chi sa poi se ci sarà anche quell’altro paradiso? Lui, il prete, dice: «Badate a quello che diciamo e non a quello che facciamo....».

— E non vi pare giusta?

— E a lei pare giusta? — domandò a sua volta il lavoratore.

— Non mi pare giusto — risposi —, ma non si può nemmeno pretèndere che [p. 136 modifica]ognuno viva secondo la pròpria prèdica. Ma sapete, buon uomo, che molti per vìvere secondo la pròpria prèdica sono diventati così magri, da sembrar trasparenti, oppure sono finiti in manicòmio? — Ma nella casa del prete, — domandai osservando mèglio — c’è anche un’osteria.

In fatti sopra la porta c’era un cartello che nell’andata non avevo veduto, e diceva: «Salumi di Parma e vino nostrano».

Come si può combinare — io pensavo — la prima scritta «Senza Dio noi non siamo nulla» con «salumi di Parma e vino nostrano»?

Io al vècchio lavoratore volevo spiegare quel poco che so del mistero della creazione. Vi sono gli uòmini divoratori, così per istinto, come i rondoni, le talpe, i pescicani, sempre in moto con le fàuci spalancate. Napoleone non diceva, e lo confessava come una sua malattia, che per lui la guerra era un istinto, come per il violinista suonare il violino? Che farci, vècchio lavoratore! Distrùggere i divoratori, i pescicani? C’è tutto un partito che ha questo programma, e poi? Pensavo alle talpe. La talpa è il lìrico [p. 137 modifica]della fame: è capace di mangiare più volte il suo peso: ha denti e artigli formidàbili per la distruzione. Distrugge in fatti le radici delle piante, e i contadini quando tròvano una talpa, la uccìdono, anzi ne fanno estermìnio. Se non che la talpa non mangia le radici, le rompe soltanto per poter così dare la càccia sotto terra ai vermi e alle larve di cui è insaziàbile. Distruggiamo le talpe? Non dico di no, ma allora la terra è invasa dagli spaventosi insetti infiniti, nati dalle larve; e il rimèdio è peggiore del male! Pensi, volevo dire al lavoratore, che in alcuni paesi si fa commèrcio non solo di talpe, ma di animali anche più immondi, come rospi, bìscie, per salvare la agricoltura, e distrùggere le bestioline pìccole con le bèstie più grosse. Finora non c’è rimèdio migliore. Il nostro torto filosòfico è di considerare gli uòmini per uòmini; chè se li considerassimo come animali, dovremmo ammèttere che mègio de cussì no la poderia andar.

Ma questo ragionamento era troppo complicato e mi accontentai di pagar da bere al vècchio lavoratore. [p. 138 modifica]

Aspettai alla stazione di Borgotaro molte ore. Impossìbile che io scendessi a Parma!

Non volendo andare a Parma, nè restare a Borgotaro, non rimaneva che rifare la via percorsa, ed alla sera ero a Firenze.