Tragedie (Sofocle - Romagnoli)/Prefazione

Prefazione

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Sofocle - Le Tragedie
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Prefazione
Tragedie Aiace

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Sofocle nacque il 495-4 da un ricco armaiuolo: la sua famiglia dimorava in Colono, località ridentissima nelle vicinanze d’Atene, che egli, già vecchio, descrisse coi piú fulgidi colori nel suo Edipo a Colono.

Ebbe accuratissima educazione nelle arti musiche e nelle ginnastiche. E notissimi sono i suoi trionfi giovanili. Gli antichi dicevano che nel medesimo anno Eschilo combatteva a Salamina (480), Sofocle giovinetto guidava col suono della lira il peana che i fanciulli danzavano per la vittoria, ed Euripide veniva alla luce. La coincidenza non è perfetta, ed è dovuta alla mania sincronistica degli antichi eruditi; ma, cosí all’ingrosso, può servire a fissare nella memoria la reciproca cronologia dei tre grandi tragediografi.

Si presentò la prima volta all’agone drammatico il 468, col Trittòlemo, e consegui la vittoria — ventottenne — non senza contrasti, contro il gran rivale Eschilo. D’allora in poi, incominciò fra i due sommi poeti, con alterni successi, una emulazione che la piú autorevole tradizione dipinge nobile ed elevata. Nell’anno 438 lo troviamo in gara la prima volta con Euripide. E da questo e da altri piú giovani rivali derivano alcuni particolari della sua drammaturgia. [p. viii modifica]

Coprì parecchi uffici, ed anche militari (vedi introduzione all’Antigone). Ma Pericle ebbe a dichiarare di apprezzarlo assai piú come poeta che come stratego. La sua lunga vita fu fiorita d’innumerevoli leggende, ed è inutile ripeterle anche una volta. Mori a 91 anni; e fu di quegli artisti, assai rari, che invecchiando non decadono, anzi sublimano la loro arte: come, per esempio, il nostro Verdi. Ai suoi ultimi anni appartiene infatti l’Edipo a Colono, che per finezza supera forse tutte le sue tragedie.

La tradizione registra le seguenti novità introdotte da Sofocle nella sua drammaturgia.

1° Portò il numero degli attori da 2 a 3.

2° Aumentò i coreuti da 12 a 15.

3° Si liberò dall’obbligo della tetralogia. La notizia veramente non c’è data con molta precisione; ma certo ciascuna delle tragedie superstiti forma un tutto a sé. E le tre tragedie che potrebbero pel soggetto formare una vera e propria trilogia (Edipo re, Edipo a Colono, Antigone), furono in realtà composte ciascuna per sé, ed in tempi diversi.

Ma queste innovazioni, ed altre minori, che è inutile ricordare, non andrebbero molto oltre la parte esterna e materiale dell’arte. Ben altre sono le vere conquiste di Sofocle.

Sofocle, circa venti anni piú giovane di Eschilo, cresce alla sua grande ombra; e nelle sue tragedie superstiti, e massime nelle piú antiche, si può ravvisare l’orma di quel grande; e qualche volta l’imitazione è ampia, investe una intera situazione, come nelle Trachinie, dove abbiamo un calco, poco felice, della scena eschilea tra Clitennestra e Cassandra (vedi introduzione alla tragedia). Ma le derivazioni che si [p. ix modifica]osservano in altri drammi, sono di particolari1. Sofocle era artista di genio, e non poteva rimanere nei cancelli della imitazione. Eschilo aveva trovata una sua formula drammatica, e, con la fecondità e la ispirazione costante che aveva anch’egli mantenuta sino alla tarda vecchiaia, aveva svolta secondo quella formula tutta la materia mitica. Materia nuova non esisteva, o conveniva raccogliere le briciole, le rarità, come fecero poi gli Alessandrini. Quindi il bisogno di mutare radicalmente, di trovare una formula nuova. Sofocle seppe trovarla.

I caratteri fondamentali ed essenziali di questa formula appariscono ben chiari già nella piú antica delle tragedie conservate, l’«Aiace», e si affermano via via, eccezion fatta per le «Trachinie», in tutti gli altri drammi. Ma piú limpidi risultano da un confronto fra due drammi di Eschilo e di Sofocle, che svolgono il medesimo argomento: «Le Coefore», e l’«Elettra».

Ricordiamo come si svolge l’azione delle «Coefore». Giunge Oreste, giunge Elettra, tramano, Oreste si nasconde in casa, uccide Egisto, uccide la madre, fugge invaso dalle Furie. Non un personaggio superfluo (Pilade dice in tutto tre versi), non una scena episodica, non un indugio, non un ostacolo. Lo svolgimento è nitido, diritto, fulmineo.

Nell’«Elettra», invece, troviamo molte divergenze caratteristiche.

Innanzi tutto, la moltiplicazione dei personaggi. Uno di essi, Crisotèmide, preso dalla tradizione mitica, ma adibito ad un ufficio che il mito non gli assegnava: l’altro, il pedagogo, inventato di sana pianta.

E accanto, e conseguente a questa moltiplicazione di [p. x modifica]personaggi, abbiamo una moltiplicazione di episodî, non suggeriti dal mito: quali, per esempio, il disegno di Elettra di uccidere Egisto, essa sola e la sorella, e il conseguente duro contrasto, e il riconoscimento del pedagogo.

Né gli episodi si svolgono piú, come in Eschilo, rettilinei: anzi si intrecciano con molto artificio, in maniera da produrre qualche sorpresa anche negli uditori già edotti perfettamente della materia tradizionale.

Tale moltiplicazione e invenzione ed intreccio di personaggi e di episodî, si riscontra in tutta l’opera di Sofocle, e riesce uno dei suoi lineamenti caratteristici. Noi non conosciamo tutta la materia epica ed epico-lirica dalla quale Sofocle trasse gli argomenti per le sue tragedie; ma credo che difficilmente essa poté contenere l’amore di Antigone per Emone, figlio di Creonte (amore che costituisce uno dei nuclei e il germe della catastrofe nell’«Antigone»); o le astuzie di Ulisse e il traviamento e il ravvedimento di Neottolemo nel «Filottete»; o la fine di Edipo in Atene e la lotta fra Creonte e Teseo nell’«Edipo a Colono». Queste situazioni, insieme con molte altre, furono create da Sofocle, per arricchire la materia del dramma.

Ma in altro consiste la vera e profonda essenza della drammaturgia di Sofocle. E, cioè, nel contrasto.

Torniamo alle due tragedie.

Nelle «Coefore», il soggetto offre spontaneamente il terribile antagonismo della madre e della figlia. Ma Eschilo non lo sfrutta, anzi non fa neppure incontrare le due donne.

Nell’«Elettra», invece, non solo c’è il loro contrasto — e durissimo contrasto; ma altre due volte l’eroina si cimenta in fiero urto di parole con la sorella Crisotèmide. E questo personaggio è di certo introdotto appunto per avere materia di contrasto. E se facciamo sfilare tutti i drammi di Sofocle, in tutti troviamo contrasti. [p. xi modifica]

Il contrasto, uniformandosi o proporzionandosi alla legge di formazione plastica che governa tutte le forme dell arte greca, si compone presto una sua forma precisa, che tende a divenir canonica, incomincia con battute di pochi versi, o di un verso per ciascuno dei personaggi — quasi una presa di ferro; poi, si sviluppa in due o piú lunghi discorsi in contradittorio, e, infine, si conchiude con un fitto urto di verso contro verso (sticomitia).

E la forma classica assume anche nuovi sviluppi. Oltre ai contrasti da persona a persona, troviamo anche schemi piú complicati, con raddoppi da una parte o dall altra; e piú specialmente caratteristiche certe forme in cui, dietro al contrasto principale, diciamo fra A e B, si sviluppano contrasti secondari. Ossia, una parte collegata con A contro B, si trova a sua volta in dissidio con A. Nell'«Aiace», Menelao, Ulisse ed Agamènnone sono uniti contro Aiace e contro Teucro. Ma, all’ultimo momento, Ulisse prende le difese di Teucro contro i propri amici. Nell «Antigone», cozzano Creonte ed Antigone. Ma poi, Creonte contrasta a sua volta col proprio figlio Emone, e Antigone lotta fieramente con la sorella Ismene. Nel «Filottete», Ulisse e Neottolemo sono collegati contro il povero derelitto. Ma, alla fine, Neottolemo si ribella ad Ulisse, e fra i due si accende un violentissimo alterco.

E cosí è dappertutto e ad ogni momento. Da ogni punto delle azioni di Sofocle pullula un contrasto. Questo è il cardine, questa è la scoperta della drammaturgia di Sofocle.

A questo punto potrà balenare l’obiezione che, in fondo, contrasti esistono anche in Eschilo. In realtà, contrasti esistono dovunque esistano eventi umani: e però la materia mitica presentava contrasti, che, naturalmente, tornano anche nei drammi di Eschilo. Però Eschilo non si ferma di preferenza su quelli, non li sfrutta, par quasi che talora li sfugga. [p. xii modifica]Quale intimo cozzo piú duro che fra Clitennestra ed Agamennone, fra Elettra e Clitennestra, fra Eteocle e Polinice? Ma in Eschilo non li vediamo contendere a parole. O il contrasto è evitato, o si svolge in poche battute. Un odio mortale separa Clitennestra e sua figlia Elettra; ma nelle «Coefore» attendiamo invano che le due donne si incontrino sulla scena.

Quei contrasti sono invece i punti sui quali Sofocle si ferma con predilezione. Li afferra, li svolge. Poi indaga quali altri contrasti si possano con ovvia induzione far scaturire dalla materia mitica. E se questa non offre addentellati, inventa episodi e intrecci che ne giustifichino l’introduzione.

Né si potrebbe dichiarare ingiustificata né fatua questa passione per la sua scoperta. In realtà, se cerchiamo a fondo la essenza del contrasto, vediamo che esso è proprio l’anima del dramma.

I personaggi eschilei, come abbiamo detto parlando di Eschilo2, discutono poco. Hanno segnato ciascuno il suo compito fatale, e verso quello muovono con la inflessibilità di forze naturali, travolgendo facilmente ogni ostacolo che sbarri la via. Cosí non c’è vero urto di volontà che modifichi gli eventi. E i personaggi sembrano tutti mossi dal poeta. Non pare che camminino ancora da sé, l’aria non li avvolge da ogni parte. Non si può — direbbe Flaubert — girar loro intorno. Nei contrasto, invece, le volontà si manifestano. si esasperano, mandano faville nell’urto. Appaiono, nelle parole, via via, i motivi delle azioni, queste non sembrano piú prestabilite ed imposte, bensí rampollano col procedere degli eventi. I personaggi divengono realmente vivi, i fili spariscono, si vedono gli uomini, non piú i fantocci. Liberati dalla placenta dell’epica, che li teneva tuttavia [p. xiii modifica]impigliati nella drammaturgia d’Eschilo, eccoli infine assurti a vera vita drammatica.

E a questo punto possiamo caratterizzare la posizione di Sofocle rispetto al mito. Eschilo, dicemmo, si affiggeva in esso per inquadrarne fedelmente il contenuto entro le nuove belle sagome della tragedia ditirambica. Si aveva con lui il dramma in servigio del mito.

Sofocle, invece, studia la materia mitica, e ne ricava alcuni elementi in funzione e in servigio di una sua nuova concezione, modificando ed aggiungendo elementi che si prestano a meglio comporre la nuova forma. Con lui abbiamo il mito in servigio del dramma.



Abbiamo detto che il contrasto è il germe d’ogni futuro svolgimento drammatico. Ma bisogna soggiungere che contiene anche il germe d’un male che contamina poi tutta la tragedia greca, e dal quale neppure Eschilo va interamente immune.

Prendiamo il contrasto già ricordato fra Elettra e Clitennestra. E facciamone uno schema analitico, che renderà piú evidente il suo carattere.

Parla prima Clitennestra, per giustificarsi. E dice: «Ammetto di avere ucciso Agamènnone. Ma non l’ho ucciso io, bensí la giustizia. Egli infatti immolò tua sorella Ifigenia. Perché la immolò? Per compiacere Menelao. Menelao fece la spedizione per vendicare il rapimento d Elena. Non era piú giusto uccidere Elena o, se non Elena, i figli di Menelao?»

Ed Elettra risponde:

«Prendo nota che ammetti l’uccisione. Ma è falso, che tu l’abbia ucciso per vendicare Ifigenia; perché avevi già un [p. xiv modifica]amante con cui tuttora convivi. Agamènnone dovè sacrificare Ifigenia, non per compiacere Menelao, ma perché Artemide era sdegnata rontro lui, che l’aveva offesa (e narra lungamente come). La legge del taglione non la puoi invocare: altrimenti, tu dovresti morire per prima. Se sei tanto tenera per i tuoi figli, come va che adesso trascuri quelli avuti da Agamennone, ed ami invece quelli procreati col tuo drudo? Sarà anche questo un far le vendette d’Ifigenia?»

La confutazione di Elettra è stringente. Ma ciascuno intende che questo è un dibattito piú intellettuale che passionale, da tribunale piuttosto che da tragedia. E durante il discorso, in sé bello, della fanciulla, ci sentiamo come stretti in una atmosfera di falsità, che si dissipa solo quando le due donne vengono a fitto e crudo contrasto di dure parole, in cui la verità torna ad effondere la sua fulgida luce.

Converrà almeno accennare che, a conferire tal carattere avvocatesco al contenuto dei contrasti, contribuirono, da un lato, il fanatismo incredibile degli Ateniesi per tutto ciò che fosse tribunale e vita avvocatesca, e dall’altro l’eloquenza di Sofocle. Sofocle superava per questo lato tanto il piú vecchio quanto il piú giovane dei suoi grandi rivali. E non è da stupire che indulgesse o scegliesse e creasse situazioni che meglio si prestassero a far rifulgere questa sua qualità.

Tutti gli artisti fanno lo stesso. Ed è un altro dei caratteri della sua drammaturgia la prodigiosa eloquenza onde, sull’orlo dei piú tragici abissi, i suoi personaggi sanno descrivere una situazione o esprimere in lucide immagini uno stato d’animo.

Mentre, però, si moltiplicano i personaggi, avviene fra loro una specie di ordinamento gerarchico, onde uno di loro sovrasta sugli altri, e diviene il vero protagonista della tragedia. Ciò, in Eschilo avviene e non avviene. Anche in ciò Eschilo segue docilmente le indicazioni del mito, e non [p. xv modifica]compie, almeno di proposito, questo lavoro di selezione e di esaltazione. Dico di proposito. Perché, quando un personaggio abbia nel mito una posizione preminente, allora giganteggia anche nel dramma. Ciò avviene nel «Prometeo». Ciò avviene nella «Orestèa», dove la figura di Clitennestra si leva colossale sopra tutte le altre.

Ma l’«Orestèa», non conviene dimenticarlo, fu rappresentata nel 458, quando Sofocle aveva già da 10 anni fatto rappresentare trionfalmente il suo «Trittolemo»; e il «Prometeo» deve cadere intorno al 466. Non è inverisimile che il grande d’Eieusi sentisse in qualche modo l’influsso del suo giovine ma genialissimo emulo.

E, viceversa, è facile rilevare che nelle «Supplici», nei «Persiani», e perfino nei «Sette a Tebe», manca un vero e proprio protagonista. Questo atteggiamento è, in certo modo, rispecchiato anche dal titolo dei drammi d’Eschilo, che piú di frequente sono desunti dai personaggi del coro (Supplici, Persiani, Coefore, Le Eumenidi; e, fra i perduti, Gli Edòni, Le Bassàridi, Gli Argivi, Gli Eleusini, Le Fòrcidi, Le Arciere, Gli Psicagoghi, Gli Spettatori dell’Istmo).

I drammi di Sofocle, al contrario, derivano il titolo da uno dei personaggi. E questo ha nel dramma vera e propria entità di protagonista. Sofocle, assunti gli elementi del mito, li modifica secondo le proprie vedute. E tra queste è che tutta la materia deve culminare verso uno principalmente dei personaggi, che sia per gli altri come un centro di gravitazione, e che balzi al primo piano, con fortissimo rilievo: cosí Aiace, cosí Filottete, Elettra, i due Edipi, Antigone. Unica eccezione fanno, si pel titolo, e si pel contenuto, «Le Trachinie»; per le quali rimando alla specifica introduzione.

E in questo ufficio culmina la drammaturgia di Sofocle: nella pittura dei caratteri.

E qui abbandono il lettore alle sue impressioni: del resto, [p. xvi modifica]nelle introduzioni alle singole tragedie ho rilevato qualche particolare in cui mi sembrava che una esegesi potesse giovare alla sicura intelligenza. Qui mi limito ad alcune osservazioni d’indole generale.

Anche in Sofocle permane qua e là qualche traccia della rigidità arcaica di Eschilo; ma la maggior parte delle sue figure hanno tempra differente. La loro anima non rimane immobile, tetragona a qualsiasi cozzo di eventi; ma tramuta anch’essa, via via, col loro tramutare perenne.

Nell’«Antigone», Creonte è da prima durissimo, implacabile contro la fanciulla che ha osato violare il suo bando, e dar sepolcro al cadavere di Polinice. Ma quando poi giunge Tiresia, ad ammonirlo che egli ha male operato, non si irrigidisce, anzi alla fine ascolta i consigli del cuore, obbedisce alle parole del vecchio profeta; e dà ordine che si seppellisca il cadavere, che si liberi Antigone. Trova la fanciulla già spenta, e il figlio suo Emone che sta per uccidersi sul corpo dell’amata. Ed egli, che prima aveva respinto anche il figlio con fierissime parole, ora si abbassa a scongiurarlo. E quando anche questi, e poi la madre di lui, la propria moglie, si son dati la morte, rompe in un lunghissimo pianto, rivolgendo contro sé stesso le accuse piú amare, e dichiarandosi infine dissennato.

Cosí, nel «Filottete», Neottolemo, prima reluttante al tradimento, vi si lascia poi indurre da Ulisse; ma infine, per la pietà del misero Filottete, torna nella sua prima linea, e si ribella alla menzogna. La sua è una vera e propria crisi di coscienza (vedi l’introduzione alla tragedia).

Se non che, questa espressione troppo moderna, tradisce forse il concetto. Non è che Sofocle tenda a rappresentare crisi di coscienze; bensí i movimenti e l’intima vita delle anime. Sotto questo aspetto, sono notevoli il «Filottete» e l’«Edipo». Le vicende esterne incalzano i due miseri in guisa [p. xvii modifica]che quasi ad ogni scena la disposizione delle loro anime deve mutare. Dalla psicologia statica di Eschilo, siamo qui ad una psicologia intimamente dinamica. Cosí la essenza medesima della drammaturgia è profondamente mutata. Obbietto suo principale non sono piú le visioni sceniche, bensí le passioni e i sentimenti dei personaggi. L’azione è nell’animo di questi, e non piú sulle tavole sceniche. Questa è la formula, in questo risiedono il carattere specifico, la grandezza, il fascino, la perenne attualità dell’arte di Sofocle.

Ciascuno vede gl’immensi vantaggi, le possibilità e la fecondità di questa nuova concezione psicologica. Ma accanto ai grandi vantaggi essa presentava un lato che conduce alla alterazione, e, in ultima analisi, alla decadenza del dramma tragico.

Questa mobilità degli spiriti, frangendo la rigida unità arcaica, dava luogo ad una molteplicità nella quale trovarono adito alcuni sentimenti meno solenni, piú comuni e abituali.

Per esempio, nell’«Antigone», l’amore di Emone per la cugina, espresso con qualche colorito che oggi si direbbe romantico. Queste venature rendono piú umani i personaggi, li avvicinano di piú a noi. Ma, una volta intaccata la compattezza del metallo tragico, era vicino il pericolo, né Sofocle seppe evitarlo, di abbassare gli eroi tragici dalla ideale altezza su cui li aveva collocati Eschilo.

Esempio massimo, la Deianira delle «Trachinie». È, non si nega, una brava donna; ma una brava donna non è un’eroina; e il dramma in cui essa appare, decade dall’altezza tragica. E questa umanizzazione dei caratteri, i cui frutti piú visibili sono, oltre a Deianira, Ismene, Crisotèmide, Tecmessa nell’«Aiace», e. in fondo, anche Giocasta [p. xviii modifica]dell’«Edipo re», in ultima analisi fa un po’ illanguidire l’essenza tragica.

Sotto altra luce si devono considerare i personaggi comicizzanti — la guardia dell’«Antigone» e il pastore dell’«Edipo Re». — Se li guardiamo sotto l’aspetto della comicità, non scemano la tragicità del dramma, ma solo accentuano il suo carattere poco accademico, come avviene anche per le «Coefore» di Eschilo. Gli umili parlano da umili, e non si gonfiano quasi al pari degli eroi, come fanno nelle tragedie di maniera.

Ma invece, se li consideriamo nella loro condizione di creature umili, borghesi, vediamo súbito che essi sono membri di una famiglia che ha suoi rappresentanti in quasi tutte le tragedie di Sofocle: il messo di Corinto, ancóra nell’«Edipo re», il pedagogo di Oreste nell’«Elettra», la serva, il nunzio, la nutrice di Deianira, il vecchio popolano ne «Le Trachinie», il finto mercante nel «Filottete», il contadino e i vecchi nell’«Edipo a Colono».

Ora, questa abbondanza, segna certo una predilezione di Sofocle; e segna ancora un altro gradino onde la tragedia declina dalla sua altezza ideale.

Gli sfondi su cui si svolgono le vicende dei drammi di Sofocle, non si impongono alla nostra fantasia cosí nitidi, cosí imperativi come quelli di Eschilo, massime nei cinque drammi che precedono il «Filottete» e l’«Edipo a Colono».

Ma ciò non deriva da minori facoltà del poeta: ché, anzi, luminosissimi sprazzi attestano qua e là chiaramente le sue doti di paesista.

E li troviamo spesso in principio, quasi per dare il tòno. [p. xix modifica]Cosí, nell’«Antigone», lo scintillio del Sole mattutino nel primo canto del Coro.

Cosí, nell’«Elettra», dipinto in pochi tratti, tutto l’incanto dell’alba.

Ché, chiaro già, del sole il raggio suscita
le mattutine voci degli augelli
distintamente, e la stellata negra
notte trapassa.

Cosí, nell’«Edipo a Colono», la pittura, in tre versi, del bosco:

Sacro è, mi sembra, questo luogo, e florido
tutto d’allori, pampani ed ulivi;
e fittissimi dentro vi gorgheggiano
i rosignoli.

Ma anche nel cuore delle tragedie, abbiamo tócchi di paesaggio meravigliosi. Cosí il fuggevole abbozzo di Emone, nel suo contrasto col padre:

vedi
presso i torrenti impetuosi, gli alberi
che si flettono, intatti i rami serbano:
quelli che invece fan contrasto, svèlti
dalle radici piombano.

Cosí, nell’» Antigone», la descrizione che fa il nunzio della procella di venti. Cosí, nell’«Edipo re», la rievocazione del pastore che, in mezzo alle orride tenebre di tutto il dramma, si apre come un nembo di cielo azzurro:

Egli di certo
ricorderà che, sopra il Citerone,
ei con due greggi, ed io con una, vissi [p. xx modifica]
per due stagioni, di sei mesi ognuna,
da primavera al sorgere d’Arturo.
Quindi, giunto l’inverno, io ritornavo
all’ovile, ai presepî egli di Laio.

Nel «Filottete», poi, e nell’«Edipo a Colono», anche questo germe del multiforme genio di Sofocle, viene a maturazione. Tarda maturazione, che dispiega però una prodigiosa ricchezza di foglie e di fiori.

E veniamo finalmente al coro. Abbiamo già visto come, dal lato formale, questo elemento si era schematizzato in Eschilo. Al principio dell’azione, i coreuti entrano, intonando un loro canto in tempo di marcia, e movendo i passi in quel ritmo. Quindi si fermano, e cantano strofe accompagnate ad evoluzioni e lente danze intorno all’ara di Diòniso. Segue una serie alternata di episodî drammatici e di riprese corali, precedute ognuna da un nuovo brano anapestico. E queste riprese anapestiche introducono nella tragedia, oramai divenuta stabile, un elemento di moto, e rimangono in certa guisa indice e suggello della sua essenza, ricordando che in origine essa era appunto una processione.

Ora, nella piú antica delle tragedie superstiti di Sofocle, l’«Aiace», ci troviamo ancora dinanzi a questo schema tradizionale. Ma nella «Elettra», che in ordine di tempo segue forse l’«Aiace», vediamo subito il distacco dalla tradizione, e la tendenza a scancellare il carattere del corteo, di processione. Anche qui, sfilata d’anapesti, piú gruppi strofici. Ma gli anapesti contengono un monologo di Elettra, le strofe un dialogo fra l’eroina e le sue compagne. Rimane la forma; ma dentro la forma si modella un contenuto nuovo. Ed è [p. xxi modifica]questo un modo frequente onde nel teatro, come un po' in tutta l’arte greca, si introducono le innovazioni.

Di fronte a queste due prime tragedie, si colloca poi un gruppo centrale, costituito dall’«Edipo re» dall’«Antigone», dalle «Trachinie», nelle quali la sfilata anapestica, la marcia, è abolita, e il coro si presenta ad intonare una invocazione ai Numi, con riferimento strettissimo agli eventi del dramma.

Un terzo ed ultimo gruppo è costituito infine dal «Filottete» e dall’«Edipo a Colono». In entrambi questi drammi, né sfilata anapestica, né gruppi strofici di contenuto lirico. Il coro entra senz’altro, d’improvviso, nel cuore dell’azione drammatica, come un personaggio qualsiasi (si vedano le introduzioni alle singole tragedie).

E tale è appunto la tendenza palese in tutto il teatro sofocleo: di spingere il coro dall’ufficio lirico all’ufficio drammatico. E non solo in queste due ultime, ma in tutte le tragedie, vediamo piegate a simile ufficio intere parti strofiche, che la tradizione voleva destinate all’ufficio lirico. E in qualche caso, Sofocle riesce a dare all’ingombrante strumento scenico una perfetta illusione di vita: come nella seconda parte dell’«Aiace» e nell’«Edipo a Colono». I coreuti vengono a fare una ricerca, e giungono alla spicciolata, e ciascuno di essi ha una qualche battuta. Il coro è divenuto folla (vedi introduzione all’«Edipo a Colono»).

Ma rimane la funzione lirica; e già osservammo quante risorse essa offriva ad un poeta di genio.

E diciamo subito o, meglio, ripetiamo il comune e giustissimo giudizio che nelle tragedie di Sofocle si trovano brani corali meravigliosi.

Se non che, questi canti non si amalgamano poi, non si richiamano e non si attirano reciprocamente, né con gli altri canti corali, né con gli episodi drammatici. Piuttosto, si svela [p. xxii modifica]in essi una tendenza a chiudersi in sé stessi, in una perfezione sobria e assoluta di immagini e di suoni, che li distingue e, in ultima analisi, li separa dal contesto drammatico. O, meglio, essi hanno tuttora rapporto col dramma; ma tale rapporto è sfruttato alla rovescia di come usava Eschilo.

Per esempio, ad un certo punto delle «Trachinie», esaltando il potere di Cipride, che adesso ha spinto Ercole verso Iole, il coro ricorda che anche per Deianira l’eroe sostenne un giorno una ben dura lotta con Acheloo. E la descrive (faccio un calco in prosa del testo).

«Di qui era il gagliardissimo fiume, l’apparizione del Tauro, quattro piedi e lunghe corna, Acheloo, giungente da Ercíade. E da Tebe bacchíade giunse, crollando il teso arco e le zagaglie e la clava, il figlio di Giove. E si lanciarono tempestosi l’un contro l’altro, bramosi della fanciulla. E sola nel mezzo, la voluttuosa Cipride invigilava lo scontro.» — «E fu allora un fracasso di armi e di archi e insieme di corna taurine, e un intreccio di membra, e un cozzar di fronti, e urli dell’uno e dell’altro. E la bella morbida fanciulla sedeva lungi su un clivo, attendendo il suo sposo.»

Nel brano è piú che evidente la compiacenza dell’artefice nel tracciare ogni particolare del quadro che s’impone alla sua fantasia. Questo è il suo compito precipuo: laddove, se badiamo alla pittura che, nella pàrodos dell’«Agamènnone», il coro fa del sacrificio d’Ifigenia, intendiamo súbito che il suo scopo principale è quello di mettere in luce l’orribile scempio onde s’è macchiato Agamennone. In Eschilo, la pittura è fatta per mettere in luce un nesso del dramma: in Sofocle il nesso è sfruttato per fare una pittura.

Cosí avviene che i brani corali di Sofocle, in sé stessi meravigliosi, e per finezza e finitezza superiori a quelli di Eschilo, non formano poi quel fregio omogeneo, non levano quell’arco misterioso che circonda i drammi del titano di [p. xxiii modifica]Eleusi. Egli è che quella concezione poteva germinare e svolgersi appieno soltanto in una mente filosofica e musicale: la mente di Eschilo. Sofocle era piú artista; e i suoi canti corali, meglio che a brani di una grande sinfonia progrediente omogenea a traverso e sopra gli episodi drammatici, come nelle tragedie di Eschilo, sono mirabili fregi, che ne allietano, con le purissime forme, la nitida architettura.

E nella economia del dramma, il coro viene per questa via ad assumere il carattere, che poi si sviluppa sempre piú in Euripide e nei suoi successori, di intermezzo fra i singoli episodi. Diviene una specie di velario sonoro, che consente alla fantasia degli spettatori i piú rapidi trapassi da momento a momento, e talora da luogo a luogo.

Ad un attento lettore di Sofocle non possono sfuggire alcuni tratti singolari che, da tragedia a tragedia, e indipendentemente dalle rispettive vicende, si richiamano, con un aria di famiglia.

Saranno le parole d’Edipo cieco:

È la mia
questa voce che svola e si perde?

Saranno quelle che pronuncia Filottete, già presso a cadere in deliquio, contemplando il cielo, che non era, per i Greci, sede delle anime elette:

filottete
                                             Recami adesso,
               recami là.

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neottolemo
                    Dove dici?
filottete
                                   Lassú!

Oppure, sarà il riso sarcastico che increspa le labbra di Antigone, nel massimo strazio del suo dialogo con la sorella:

Sebbene io di te rida, il cruccio ho in cuore.

Sarà, perfino, nei satireschi «Satiri alla caccia», 1 ariosa fantasia che dalla musica vaporino visibili fantasime:

Apre una voce canora il volo
per questi luoghi: grazie alla musica
di bei fantasmi fiorisce il suolo.

E alla stessa famiglia appartengono il mirabile spunto dell’Inno al Sonno nel «Filottete», e tutto il magico finale dell’«Edipo a Colono».

In tutti questi luoghi, una nuova e strana vibrazione pènetra fra sillaba e sillaba gli antichi versi, e dalle precise sagome della strofe sembra raggiare una strana allucinazione.

Alla nostra fantasia, brillano quasi magiche fiammelle fosforescenti, fuochi fatui che con l’incerto vagolare seducono lo spirito a vaghe fantasticherie. Per essi l’opera sofoclea, prodigiosa acropoli bianca di marmi e fulgente d’oro, di ciano, di porpora, sembra tramutare a volte in una foresta romantica, piena di magici orrori.

Fuggevoli bagliori. Ma per essi sentiamo Sofocle anche piú vicino allo spirito moderno che non sia Euripide o quale altro si voglia degli antichi poeti di Grecia. [p. xxv modifica]

Sofocle fu fecondissimo, scrisse 123 drammi. A noi ne rimangono soli sette, e degli altri, parecchi frammenti, e molti titoli3.

Eppure, anche su questi sette piloni si può ricostruire abbastanza sicuramente l’architettura del gran ponte.

Sin dal principio della sua vita artistica, Sofocle, con l’originalità del genio, scopre una formula drammatica del tutto differente da quella d’Eschilo, imperniata sul tramutar delle anime e sul contrasto. E sin da principio, pure adottando, e lo costringevano imposizioni anche esterne ed obiettive, gli antichi schemi, la fa trionfare sulle formule eschilee, che appena allungano qualche lieve ombra sulle tragedie piú antiche.

Tutto preso dall’alta bellezza e trascinato dalla fecondità di tale formula, trascura da principio altri elementi costitutivi del dramma, pei quali aveva anche doti straordinarie: per esempio, e in primo luogo, la suggestione del paesaggio, o il Coro, che, come vediamo, nei primi lavori non segna una ascensione sui cori eschilei.

Ma negli ultimi due lavori vediamo assorbiti e adoperati [p. xxvi modifica]anche questi altri elementi, in una visione piú ampia e complessa della drammaturgia. Visione imperniata sopra una figura dominante, sopra forti contrasti sostanziali e verbali, sopra una eloquentissima espressione delle passioni, sopra una partecipazione intensa del coro, che diviene cosí l’equivalente della folla shakespeariana, sopra un frequente intervento di persone umili, che, accanto alle tragiche, moltiplicano la varietà del dramma, introducendovi forti note caratteristiche, aderenti alla vita. E una mirabile scenografia è suggerita alla fantasia degli spettatori attraverso alle parole dei personaggi.

Una tale ricchezza si ritrova in Shakespeare. Ma in Sofocle c’è di piú il magico potere del ritmo, che nella sua rapina travolge ed assimila parole, note e movenze di ballo, ed eleva tutti gli elementi dell’opera d’arte in un cielo dove sembrano fondersi nella unità essenziale e divina.

Eppure, questa drammaturgia cosí varia e complessa, scapita, per certi riguardi, di fronte a quella di Eschilo, cosí lineare e monocorde.

La perenne mobilità psicologica dei personaggi, da cui pur deriva una piú viva e profonda umanità, con tenerezze e finezze ignote ad Eschilo; la loro moltiplicazione, e quella degli eventi, che provocano l’interesse per l’intreccio; la troppo acuta dialettica, in cui già, di frequente, essi sminuzzano e stemprano i loro sentimenti e le loro passioni; la frequenza di personaggi umili: sono come altrettanti pori, pei quali comincia a svaporare l’essenza tragica, cosí chiusa e capitosa nei drammi di Eschilo.

Né certo giovano a correggere questa declinazione gli sfondi scenici di Sofocle, che hanno piuttosto carattere idilliaco, né la concezione del coro, non piú musicale e filosofico. [p. xxvii modifica]bensí, o isolato e pittoresco, o convertito in battute drammatiche.

E da nessun dramma di Sofocle usciamo cosí profondamente turbati come da una tragedia di Eschilo. In Eschilo, infatti, quel grande alone cosmico onde appare avviluppato il dramma — alpi inaccesse, flutti che si stendono all’orizzonte, per attingere il cielo, stelle che roteano in sempiterni concilî — lasciano l’animo nostro misero e smarrito nella immensità muta dell'universo. Il profetico mormorio del coro che s insinua in ogni latebra degli eventi, ci rammemora che quella immensità è piena d’invisibili spiriti, potentissimi e terribili.

Ma in Sofocle, sobrie pitture, scene umane, sfondi agresti, conclusi in linee calme serene, distraggono l’animo dall’orrore dei fatti tragici, gli concedono altrettanti momenti di pausa e di calma, mostrandogli, come un’oasi lontana, fra gl’interstizi di orride vicende, il tranquillo sorriso della immutabile natura. I vari momenti delle sue tragedie si svolgono l’uno dopo l’altro, recando ciascuno il suo martirio, sino ad uno spaventevole culmine; poi declinano. l’ultimo appare, trascorre, dilegua, è già perduto nel tempo, che tutto consuma.

Noi distogliamo allora, leviamo in alto gli occhi pieni d’orrore. Il cielo inarca tuttora sulla nostra fronte l’azzurro sereno, le foreste stormiscono, le rondini garriscono a volo. Il sole S’immerge, le montagne sfumano in un vapore d’ametista, e il cielo effonde sovra esse, come una immensa raggiera, la irradiazione dell’ultimo saluto.

Scende la sera. Noi ci affissiamo al prodigioso miraggio, e sentiamo l’animo nostro ricomporsi e placarsi in una purificazione di luce. [p. xxviii modifica]


Le tragedie sopravvissute di Sofocle, ci sono state tramandate nell’ordine seguente: Aiace, Elettra, Edipo re, Antigone, Trachinie, Filottete, Edipo a Colono. Ed è assai probabile che tale disposizione avesse una base cronologica. La critica, però, per ragioni di vario ordine, non concede piena fiducia a questa ipotetica base; e, fra l’altro, pone l’Antigone prima dell’Edipo re. Nelle singole introduzioni alle tragedie si vedrà come io credo che forse talvolta converrebbe invece allontanarsi da questa piú moderna critica. In sostanza, non esistono sicure notizie obiettive; e anche per questo ho creduto di abbandonare, nella disposizione delle tragedie, il criterio cronologico, per badare al contenuto. Cosí appare, se non altro, nel suo logico sviluppo la prodigiosa trilogia Edipo re, Edipo a Colono, Antigone, che occupa il secondo volume. Nel primo sono l’Aiace e il Filottete, che non solo appartengono entrambe al ciclo troiano, ma hanno entrambe attinenza con un episodio famoso nell’antichità, la gara per le armi di Achille. Nel terzo volume ho riunito l’Elettra, le Trachinie, e I satiri alla caccia, che non sono stretti fra loro da alcun vincolo ideale.

Note

  1. Aiace, 125. 138. 168. 172 (stacco ritmico), 629; Elettra. 67. 270. 657, 806; Antigone. 216. 291.
  2. Vedi, in questa collezione, il volume Eschilo, introduzione.
  3. Ecco i principali, distribuiti secondo i cicli mitici: Ciclo troiano: Alessandro, Le Scizie, La follia d’Ulisse, Ifigenia, Telefo o i Misii, I Pastori (svolgevano la morte di Protesilao), La richiesta d’Elena, Troilo, Palamede, I Frigi, Gli Etiopi o Mènnone, Fenice, Filottete in Troia, Le Spartane (Ratto del Palladio), Laocoonte, Sicione, Priamo, Le Prigioniere. Polissena, Aiace Locrese, Gli Antenoridi (Partenza dei Figli di Antenore per l’Adria), Nauplio folgorato, Teucro, Eurisace, Nausica o Le lavatrici, I Feaci, Ulisse ferito dalla spina, Eurialo. — Leggende attiche: Trittolemo, Tereo, Orizia, Creusa, Procri, Egeo, Fedra.Argonauti: Atamante, Le donne di Coleo, Le Scite, Le sempliciste (raccoglitrici d’erbe). — Miti tebani: Oltre alle tragedie rimaste integre, gli Epigoni, e l’Alcmena.