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xvi | PREFAZIONE |
nelle introduzioni alle singole tragedie ho rilevato qualche particolare in cui mi sembrava che una esegesi potesse giovare alla sicura intelligenza. Qui mi limito ad alcune osservazioni d’indole generale.
Anche in Sofocle permane qua e là qualche traccia della rigidità arcaica di Eschilo; ma la maggior parte delle sue figure hanno tempra differente. La loro anima non rimane immobile, tetragona a qualsiasi cozzo di eventi; ma tramuta anch’essa, via via, col loro tramutare perenne.
Nell’«Antigone», Creonte è da prima durissimo, implacabile contro la fanciulla che ha osato violare il suo bando, e dar sepolcro al cadavere di Polinice. Ma quando poi giunge Tiresia, ad ammonirlo che egli ha male operato, non si irrigidisce, anzi alla fine ascolta i consigli del cuore, obbedisce alle parole del vecchio profeta; e dà ordine che si seppellisca il cadavere, che si liberi Antigone. Trova la fanciulla già spenta, e il figlio suo Emone che sta per uccidersi sul corpo dell’amata. Ed egli, che prima aveva respinto anche il figlio con fierissime parole, ora si abbassa a scongiurarlo. E quando anche questi, e poi la madre di lui, la propria moglie, si son dati la morte, rompe in un lunghissimo pianto, rivolgendo contro sé stesso le accuse piú amare, e dichiarandosi infine dissennato.
Cosí, nel «Filottete», Neottolemo, prima reluttante al tradimento, vi si lascia poi indurre da Ulisse; ma infine, per la pietà del misero Filottete, torna nella sua prima linea, e si ribella alla menzogna. La sua è una vera e propria crisi di coscienza (vedi l’introduzione alla tragedia).
Se non che, questa espressione troppo moderna, tradisce forse il concetto. Non è che Sofocle tenda a rappresentare crisi di coscienze; bensí i movimenti e l’intima vita delle anime. Sotto questo aspetto, sono notevoli il «Filottete» e l’«Edipo». Le vicende esterne incalzano i due miseri in guisa