Tragedie, inni sacri e odi/Illustrazioni e discussioni/I. Manzoni e Cavour
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Trasportiamoci colla fantasia ai primi mesi del 1801.
Virtualmente l’Italia era fatta. Ma l’inetto Re di Napoli stava tuttora chiuso tra le forti mura di Gaeta, sorvegliato e protetto da una squadra di navi francesi; e bisognava convocare i comizi elettorali per la costituzione del primo Parlamento nazionale. Cavour, che aborriva le dittature e lo reggenze precarie, aveva indette le elezioni pel 27 gennaio. Esse avevano un’eccezionale importanza. La prima Camera veramente italiana avrebbe potuto o confermare e rassodare le conquiste liberali, ovvero tutto compromettere. C’era da guardarsi dai reazionari e ritardatari non meno che dagli scavezzacollo. Il Mezzogiorno celava una incognita. La rivoluzione v’era stata compiuta dalla classe più eletta: quale sarebbe stato ora il responso popolare?
Cavour temette che la presenza del Re borbonico a Gaeta e delle navi francesi in quelle acque giovasse a qualche candidatura legittimista. Ma le relazioni diplomatiche del Piemonte con la Francia erano interrotte, e sul Gabinetto delle Tuileries premevano la Prussia, la Russia, l’Austria e la Spagna. Mercè l’opera sempre zelante e oculata del conte Vimercati, agente ufficioso del Re del Piemonte a Parigi, il grande Ministro indusse ancora una volta l’imperatore a venirci in aiuto, richiamando da Gaeta, alla vigilia delle elezioni, le navi francesi. Fu il colpo di grazia al borbonismo. Il voto dei comizi riuscì una magnifica affermazione di liberalismo, e una sanzione solenne dell’opera di Cavour. Lord Palmerston e lord Russell scrissero compiacendosene; e il Vimercati informò da Parigi:
La riuscita delle elezioni fece qui una sensazione veramente grande; queste accomodano un po’ le cose nostre, e... ne avevamo bisogno, perchè tutti sono contro di noi. Non ti parlo, dicendo ciò, dello persone che sono addentro nei secreti del Governo, no; rispetto a queste, noi abbiamo la posizione des femmes galantes che non si salutano in pubblico... L’Imperatore qui è sempre il migliore amico nostro; fra i ministri abbiamo forse la maggioranza per noi; ma nessuno, salvo qualche rara eccezione, ha il coraggio di sostenerci quando l’imperatore sembra ebranlé nelle sue simpatie a nostro riguardo2
Cavour lo sapeva. Alla signora Louise Colet, ch’era venuta a fargli visita mentr’egli si trovava a Milano nel febbraio del 1860 e lo rivedeva ora a Torino, ai primi dell’aprile, egli aveva dichiarato:
In Europa noi non abbiamo nessun altro alleato fuori dell’Imperatore; e in Francia nessuno ci è più amico di lui. Potrei aggiungere gli operai di Parigi, gli scrittori, i poeti, i giornalisti; ma cosa posson questi? So bene ch’essi costituiscono il cuore e il cervello della nazione; ma quando occorre un esercito, il cuore e il cervello sono insufficienti. L’Imperatore soltanto ci ha dato un esercito, e noi non dobbiamo essere ingrati nè verso di lui, nè verso la Francia. L’ingratitude porte malheur aux nations comme aux individus.3
Povero Napoleone! «Spinto contro di noi dalla Russia e dalla Prussia, molestato dalla moglie, tormentato da parte dei suoi ministri a noi ostilissimi» — sono sempre parole di
Cavour4 — , egli aveva bisoguo di mostrarsi ogni tanto burbero e di tenerci il broncio; ma il nostro statista sapeva bene in qual conto bisognasse tenore quei rimbrotti! «L’imperatore fa tuonare i suoi giornali contro di noi», scriveva egli al Farini il 13 ottobre 1860; «ritengo che i suoi cannoni sieno solo carichi a polvere: il principe Napoleone [Gerolamo] ci applaude e ci anima a tirar de lungo».
Napoleone avrebbe voluto che Cavour assumesse una specie di dittatura, e facesse a meno del Parlamento5; ma Cavour persisteva a credere che «si possano fare con un Parlamento molte più cose, che sarebbero impossibili a un potere assoluto. Io», soggiungeva, «non mi sono mai sentito così debole che quando le Camere erano chiuse. D’altra parte, io non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principii di tutta la mia vita. Io soli figlio della libertà, e ad essa io debbo tutto quel che sono. Se occorresse mettere un velo sulla sua statua, non toccherebbe a me di farlo»6. S’intende che il Parlamento era chiamato a intervenire nel momento buono; e certe questioni d’indole delicata non gli erano presentate se non già mature per la soluzione. La tribuna parlamentare giovava a lui per mostrarsi prudente o imprudente secondo che convenisse meglio. Egli sapeva che le sue parole erano ascoltate molto più là del palazzo Madama e del palazzo Carignano; e ne calcolava matematicamente la portata e gli effetti. Nessuno più valente di lui nella balistica oratoria. Aveva fuse in sè armonicamente due qualità che di solito sono avverse e in contrasto: una mente terribilmente fredda, ai servigi d’un cuore maravigliosamente fervido. E ne aveva coscienza. All’annunzio, nel marzo 1848, che i Milanesi avevan costretti gli Austriaci a ritirarsi nel Quadrilatero, e si rivolgevano a Carlo Alberto per invocarne l’aiuto, egli scrisse nel suo Risorgimento:
L’ora suprema per la monarchia sabauda è suonata; l’ora dello forti deliberazioni, l’ora dalla quale dipendono i fati degl’imperi, le sorti dei popoli. In cospetto degli avvenimenti di Lombardia e di Vienna, l’esitazione, il dubbio, gl’indugi non sono più possibili: essi sarebbero la più funesta delle politiche. Uomini noi di mente fredda, usi ad ascoltare assai più i dettami della ragione che non gl’impulsi del cuore, dopo di avere attentamente ponderata ogni nostra partita, dobbiamo in coscienza dichiararlo: una sola via è aperta per la nazione, per il Governo pel Re: la guerra, la guerra immediata e senza indugi7.
Il Parlamento, che incute tanto terrore ai ministri mediocri, era uno strumento formidabile nelle sue mani. Nè il Parlamento soltanto. Anche il Re, ed era quel Re!, non era messo a parto so non di quel tanto delle macchinazioni che fosse necessario. Al Vimercati, cui inviava nel gennaio ’61 un memoriale riservatissimo destinato all’Imperatore circa la questione romana, soggiungeva: «Non essendo il Re forte in teologia, ho creduto inutile di entrare con Sua Maestà in particolari sui negoziati delicatissimi per Roma». Era un teologo laico lui, il conte di Cavour! Alla signora Colet che, nel primo vederlo, aveva esclamato: «Je suis enchantée de saluer le régénerateur de l’Italie, un Richelicu, moins le sang»; egli rispose sorridendo: «Et moins la soutane, que je déteste».
Che giornata di gloria quella del 18 febbraio 1861, quando, diciotto mesi dopo Villafranca e solo un anno dopo il ritorno di Cavour al governo, nell’aula ora angusta del palazzo Carignano si trovarono per la prima volta radunati i rappresentanti di tutta l’Italia! Mancavano ancora quelli di Roma e di Venezia; ma la loro mancanza accresceva la commozione dei presenti e temperava di malinconia la loro gioia. «Figli tutti d’un solo riscatto», modulanti in cento diversi
accenti «l’idioma gentil sonante e puro», il conte di Cavour contemplava l’opera sua; e, come il Dio della Bibbia, «vidit cuncta quae fecerat et erant valde bona».
La Camera elettiva intraprese energicamente i suoi lavori; ma la procedura della verifica dei poteri era lunga, e al Ministro tardava la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. Ne presentò quindi il disegno di legge al Senato. Come nell’un ramo del Parlamento egli aveva sollecitato che entrasse, deputato di Borgo San Donnino, Giuseppe Verdi — «Verdi dev’essere deputato!», egli aveva detto, prima delle elezioni, a un amico di Parma; «ci vuole l’armonia; l’Italia è stata fatta con l’armonia, ed è giusto che Verdi abbia posto tra i rappresentanti della nazione!» 8— ; così egli aveva voluto che nell’altro ramo entrasse subito, fin dal marzo 1860, Alessandro Manzoni. E il vecchio venerando, il quale nel 1848 s’era scusato di non poter accettare i mandato che gli avevano conferito con unanime consenso gli elettori di Arona, di rappresentarli nella Camera subalpina, aveva ora accettato con entusiasmo dal suo Re la nomina nel primo Senato veramente italiano. Il 9 aprile 1860, aveva scritto al conte di Cavour:
L’immeritato onore che Sua Maestà il Re si degnò di farmi, innalzandomi alla carica di Sonatore del Regno, mi colma di confusione, come di riconoscenza. So la sincera o immensa devozione a Lui e all’Augusta Sua Casa, e la passione per la di Lui prosperità e gloria, che è prosperità o gloria della patria, bastassero a costituire un titolo, oserei credere di non essere, per questa parte, inferiore a nessuno. La mancanza però di titoli più proporzionati, o il troppo fondato timore che l’età o la malferma salute non mi permettano nemmeno di tentare l’adempimento dell’alto incarico, non tolgono ch’io non deva riconoscere e venerare in un tale atto d’indulgenza un sovrano comando.
Tuttavia nè l’età ben grave di settantasei anni, nè la salute malferma e gli acciacchi e la poca voglia di muoversi e la ripugnanza di mostrarsi tra la gente, valsero quella volta a trattenerlo a Milano. E nella storica giornata del 26 febbraio 1861, egli sedeva tra i cento trentuno senatori, convenuti in palazzo Madama per consacrare col loro voto la costituzione dell’Italia e per proclamare Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Alla marchesa Costanza Arconati Trotti, sua ospite, che si maravigliò di vederlo giungere a Torino, egli disse: «Ma io che ho sempre sperato questo momento quando più pareva lontano; che ho sempre affermata questa speranza contro tutti gl’increduli — e voi», soggiungeva maliziosamente, «eravate tra questi — ; potevo io mancare nel giorno in cui il più caro dei miei voti diventava una realtà?» 9
Il conte di Cavour volle dire le ragioni della preferenza da lui data al titolo di Re d’Italia sull’altro, da altri proposto, di Re degl’Italiani. Questa volta il cuore riprendeva i suoi diritti; e le sue parole svelarono il vulcano che ardeva sotto la crosta ghiacciata. «Il titolo di Re d’Italia», egli disse — e ascoltava il poeta che a quei concetti aveva ispirata costantemente l’opera sua — , «il titolo di Re d’Italia è la consacrazione di un fatto immenso: è la consacrazione del fatto della costituzione dell’Italia; è la trasformazione di questa contrada, la cui esistenza come corpo politico era insolentemente negata, e lo era, conviene pur dirlo, da quasi tutti gli uomini politici dell’Europa; la trasformazione di questo corpo, potrei dire disprezzato, non curato, in Regno d’Italia. È questa idea della formazione di questo Regno, della costituzione di questo popolo; è questa idea, che viene maravigliosamente espressa, affermata, colla proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia»10.
Quando la votazione ebbe termine e l’adunanza fu sciolta, il Ministro s’avvicinò al Poeta per stringergli la mano, ed offrirgli il suo braccio. Uscirono così insieme dall’aula. Il popolo, che s’accalcava su per lo scalone e nella piazza, proruppe in un’ovazione frenetica, interminabile. «Questi applausi sono per Lei», disse Cavour sorridendo al Manzoni. Il quale, liberando subito il suo braccio, e piantandosi di fronte a Cavour, si mise a battere egli pure vigorosamente le mani. La folla, che se n’accorse, raddoppiò le grida e i suoni; e il Manzoni, trionfante: «Vede, signor conte», disse, «per chi sono gli applausi?».
Non s’incontravano allora per la prima volta, il Manzoni e il Cavour. Si erano anzi visti e conosciuti ben per tempo, nel 1850, a Stresa, in casa di un uomo ch’era degnissimo amico di entrambi. Dopo la rotta di Novara, il poeta che, uscendo dall’abituale riserbo, aveva così vivacemente inneggiato alle «giornate del nostro riscatto», e i cui tre figliuoli avevan combattuto per le vie di Milano, e il terzogenito, Filippo, era caduto nelle mani di Radetzky ed era stato tradotto in Castello e poi inviato a Kufstein e a Vienna, e liberato più tardi nello scambio degli ostaggi; il poeta s’era ritratto in volontario esilio in una villa sulla riva piemontese del Lago Maggiore, a Lesa. Unico, ma ineffabile suo conforto in quell’amena solitudine, i colloqui vespertini con Antonio Rosmini.
Eran tanto frequenti, eppure ogni arrivo del Manzoni a Stresa era un avvenimento solenne. Ce lo descrive un testimone fortunato e assai bene accetto, Ruggiero Bonghi. Attratto e distratto da «quella scena di paradiso che si distende quasi a circolo in faccia a Stresa», il giovane e ardente esule napoletano è richiamato alla realtà dal rumore di una carrozza che veniva dalla parte di Lesa.
Appena — egli narra — che i cavalli ebbero fritto capolino oltre il canto della chiesa parrocchiale, m’accorsi che gli eran quelli del Manzoni. Ora, sapete che vuol dire la carrozza del Manzoni che mostri di volersi fermare avanti al cancello di casa Rosmini? Uno scender giù a precipizio di chi l’ha vista per il primo, un picchiare all’uscio del Rosmini, un dirgli che il Manzoni è lì, e un continuare giù per le scale, senza aspettare altro, e poi un venir fuori sulla loggia e giù da capo por quei sei o sette scalini che mettono al cancello, di maniera che ci sia il tempo, primo, di spiegare il predellino a don Alessandro o di dargli la mano mentre cala e, secondo, o stringersela e accompagnarlo, o fargli un inchino rispettoso e correre avanti a spalancargli l’uscio a vetri della loggia. Qui s’incontra il Rosmini che è già sceso anche lui; e chiunque voi siate, il Manzoni si scorda di voi e gli si getta nelle braccia, o cominciando con un caro il mio Rosmini, continua con dimandargli se sta bene come l’ultima volta che l’ha visto, e solo dopo consumato tutto, direi, il primo servito della conversazione, si ricorda da capo che s’è in tre e che bisogna parlare in tre.
A quei colloqui stresiani — che il Bonghi gelosamente raccolse e trascrisse in quattro suoi Dialoghi d’ispirazione platonica, che al Negri parvero delle cose più belle del fecondissimo e maraviglioso scrittore11, — soleva assistere
che un quarto personaggio, il marchese Gustavo Benso di Cavour, fratello primogenito di Camillo. Aveva conosciuto il Rosmini in Torino fin dal 1836, e gli si era legato con una amicizia ferventissima. «A cui siamo avvinti», attestava il grande roveretano nvM’lnell’Introduzione allo studio della filosofia, «con quei legami d’antico affetto e di stima che s’intessono di cose eterne». 11 Bonghi, che gli dedicò l’unica delle Stresiane da lui pubblicata, lo dice fornito d’ingegno finissimo e di cultura amplissima in filosofia; e lo rappresenta, osserva il Negri, quale «uno spirito indagatore che va in cerca delle difficoltà e non si acquieta alle apparenze ingannatrici di una facile risposta».
Ora, nell’autunno del 1850, già chiamato dal Re a sostituire nel Ministero presieduto da Massimo d’Azeglio il povero Santa Rosa, Camillo Cavour, prima di assumere l’ambito ufficio, per riposarsi delle fatiche parlamentari e riprender lena, si recò anche a Stresa, ospite del Rosmini. Il quale era l’anno innanzi tornato a quel suo romitaggio, dopo d’aver nobilmente ma infelicemente compiuta la difficile missione diplomatica che l’effimero Governo piemontese presieduto dal milanese Gabrio Casati gli aveva affidata presso Pio IX, per indurre questo principe imbelle a entrare nella vagheggiata lega nazionale contro lo straniero. Dalle finestre del palazzo Bolongaro, ora della Duchessa di Genova, Cavour, Rosmini, Manzoni contemplavano, conversando, la riva opposta, la bella sponda lombarda, «più serva, più vil, più derisa», ricaduta «sotto l’orrida verga»12 Discorrevano — e come aver l’animo ad altro? — dell’Italia e dei suoi destini. «I1 poeta parlava con serena fiducia dell’unità nazionale; il Rosmini, col benevolo sorriso, pareva dicesse al Manzoni: lasciate troppo libero il volo alla vostra fantasia; il Cavour si fregava le mani, e di tratto in
tratto esclamava: Qualche cosa faremo!»13 E che qualche cosa avrebbe saputo fare davvero, il Manzoni, scrutatore profondo di animo, ebbe subito fede. Poche sere dopo, all’amico Berchet ch’ei rivide presso gli Arconati a Pallanza, egli disse, alludendo a Cavour: «Quell’omino prometto bene assai!».
Cavour non era precisamente un uomo di lettere: odiava la rettorica e i parolai, i declamatori e i fantasiosi. Ma venerava i poeti veri e d’ispirazione divina. Vedeva in essi gl’inviati o gli araldi della Provvidenza. In un suo discorso alla Camera, del 20 ottobre 1848, venne fuori a dire:
Il gran moto slavo ha ispirato il primo poeta del secolo, Adamo Mikiewitz, e da questo fatto noi siamo indotti a riporre nelle sorti di quei popoli una fede intiera. Perchè la storia ci insegna che quando la Provvidenza ispira uno di quei genii sublimi, come Omero, Dante, Shakespeare o Mikiewitz, è una prova cho i popoli, in mezzo ai quali essi sorgono, sono chiamati ad alti destini.
Per l’Italia del secolo decimonono, il genio che la Provvidenza ci aveva largito, vate e voce del gran moto cui era serbato immancabile il trionfo, era Alessandro Manzoni. E in un altro memorando discorso parlamentare, del 6 febbraio 1855, a proposito della convenienza della spedizione di Crimea, il Cavour, oramai Presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri e reggente il portafoglio dello finanze, argomentava:
Taluno mi dirà: e che importa il predominio del Moditerraneo? Questo predominio non appartiene all’Italia, non appartiene alla Sardegna, esso è in possesso dell’Inghilterra e della Francia; invece di due padroni, il Mediterraneo ne avrà tre. Io non suppongo — ripigliava l’italianissimo ministro — io non suppongo che questi sentimenti trovino eco in questa Camera: essi equivarrebbero a una rinuncia alle aspirazioni dell’avvenire: sarebbe un dimostrarci insensibili ai mali onde fu afflitta l’Italia dalle guerre continentali: mali che vennero ricordati così eloquentomento dal nostro gran lirico moderno, quando, parlando dello conseguenze delle guerre che combatteansi dai forestieri in Italia al cospetto di popolazioni indifferenti al trionfo dei nuovi conquistatori, diceva:
Il nuovo signore s’aggiunge all’antico, |
Il Manzoni veramente aveva scritto: «Col novo signore rimane l’antico; L’un popolo e l’altro sul collo vi sta»; ma la variante del conte di Cavour, non dovuta, credo, a una momentanea infedeltà di memoria, soprattutto quel «ci sta» sostituito al «vi sta», rendeva ancor più vigorosa, o meglio acconcia all’occasione, l’immagine.14
E del suo amore e della sua ammirazione Cavour anelava di mostrare al Manzoni, in nome del popolo italiano, «più oltre che lo fronde». Pel vecchio glorioso, a giorni tristi ne succedevano di più tristi. Gli amici fidati si diradavano: nel 1853, gli mancava Tommaso Grossi; nel 1855, egli era invocato al letto di morte di Antonio Rosmini15 . In questo anno medesimo, nel fiore degli anni, si spegneva in Siena, assistita dalla sorella Vittoria Giorgini, l’ultima delle sue figliuole, Matilde. Intanto, diventavan difficili anche le condizioni economiche della famiglia; e i più intimi s’accorgevano dei disagi e delle privazioni a cui l’uomo pudico e venerando era costretto ad assoggettarsi.
I crepacuori d’ogni genere fiaccarono quella fibra gagliarda, e nel 1857 tutta l’Italia trepidò per la salute del suo grande poeta. L’arciduca Massimiliano, che invano aveva cercato di fargli accettare un’alta onorificenza austriaca, si recò di persona alla casa di via Morone, ma non gli fu permesso di varcarne la soglia: lì dentro, in quel santuario d’italianità, il padrone di casa vietava ch’entrasse «la bianca divisa», pur se indossata da un parente16 .
In quei giorni fu dato avviso al Cavour che un valentuomo di Udine — il nome è dovere di gratitudine ricordarlo, Daniele Cernazzai — lo aveva lasciato erede di una cospicua somma, perch’ei la destinasse ad uso di pubblica istruzione. Sorpreso e commosso, al Conto balenò subito il pensiero di destinare quel legato al maggiore scrittore ed educatore degl’Italiani; e affidò ad Achille Mauri la delicata missione di escogitare il modo d’attuare l’arduo e nobile divisamento. Ma l’incalzare degli eventi impedì che se ne venisse a capo.
11 3 agosto 1859, Massimo d’Azeglio scriveva confidenzialmente da Torino al conte Gabrio Casati:
Vi è una trattativa diplomatica da condurre, e credo che sei l’uomo a proposito. Il Re, andando a Milano ed avendo saputo che le fortune di Manzoni non sono quali le vorrebbe il suo merito e la sua età, intende dargli il Gran Cordone di San Maurizio, e annettervi una pensione di diecimila franchi. Sappiamo tutti che Manzoni non accetta croci, o almeno non le accettò sinora. Ma, primo, mi sembra dovrebbe fare un’eccezione per il suo Re; secondo, se non accetta il Cordone, la pensione prende troppo l’aspetto di un soccorso. Invece, colla croce tutti hanno, o possono avere, pensione. Io, per esempio, l’ho. E rifiutare poi i diecimila franchi, oltre che sarebbe poco amichevole verso il Re, per quanto la sua offerta arrivi in via ufficiosa, o segreta, trovo che non lo dovrebbe, avendo affari domestici con gravi imbrogli, figli e nipoti in strettezze, ecc. ecc.
Quel che il Casati dicesse e facesse, o quel che il Manzoni obbiettasse, non sono in grado di riferire. Questo solamente so, che sei giorni dopo la data di questa lettera, il 9 agosto, il Re firmava un decreto con cui, senza parlare nè di cordoni cavallereschi nè di san Maurizio o d’altri santi, s’assegnava al nobile Alessandro Manzoni l’annua vitalizia pensiono di lire dodicimila, a titolo di ricompensa nazionale.
Se in cose d’amore don Alessandro era stato, com’egli diceva, semper un imbrojàa, più imbrogliato ancora era in cose d’etichetta. Se avesse avuto a ringraziare il Re con una lettera, gli era il suo mestiere; ma il Re veniva a Milano, e conveniva andare a ringraziarlo di persona! Don Alessandro in simili faccende si sentiva un po’ don Abbondio. Come fare? Il 12 agosto, eccolo a chieder consiglio o aiuto al Casati. Gli scrive:
Il Re, imponendomi il dovere di presentargli i miei umili o vivissimi ringraziamenti, m’ha implicitamente autorizzato a chiedergli anche la grazia di un’udienza. La mia imperizia arriva sino al non sapere come si deve fare. Ma la tua bontà uguaglia la mia imperizia, che è tutto dire.
La visita avvenne. Può bene immaginarsi con quanta effusione di cuore stringesse la mano di quel sovrano dell’arte il principe da lui con tanta tenacia invocato e auspicato! «Un Re», ebbe poi a definirlo il poeta, «che al coraggio ed alla costanza della sua stirpe univa un sentimento per l’Italia, che in questo caso non consentiremmo di chiamare ambizione, perchè la parte di vanità e d’interesse personale, sottintesa in un tale vocabolo, scompare nella grandezza e nella nobiltà del fine». Vittorio Emanuele, racconta l’ottimo e compianto Giovanni Visconti Venosta, «accolse il Manzoni colla gentile familiarità o coll’espansione con cui avrebbe potuto accogliere un suo pari; e quando si congedarono, il Re, datogli il braccio, lo accompagnò, traverso le sale e per lo scalone, fino nella corte del palazzo. Il Manzoni» — soggiunge don Gino, che fu dei pochissimi ammessi alla conversazione del poeta negli anni che seguirono al sessanta, — «il Manzoni, nella sua modestia, non parlò mai di questo episodio, e io lo seppi poi da suo figlio Pietro, ch’era con lui»17. Cortesie tra sovrani! O non era forse l’uno, il più vecchio, «la maggior gloria letteraria d’Italia, il primo poeta vivente d’Europa»! Tale lo avrebbe proclamato, dinanzi al primo Senato del giovano Regno, il 5 aprile 1861, Camillo Cavour. E non era l’altro, il più giovane, quel principe, vaticinato fin nella canzone dell’aprile 1815, che, «delle imprese alla più degna accinto», aveva finalmente proferita «la parola che tante etadi indarno Italia attese»? Non era lui che, finalmente, «dell’itala fortuna» aveva raccolto da terra «le sparse verghe» e fattone un fascio nella sua mano?
Sennonchè a quel colloquio non era presente il solo che ne avrebbe avuto il diritto. Poche settimane prima, di fronte alla necessità di Villafranca, Cavour aveva abbandonato le redini del governo. «Alma sdegnosa! benedetta colei che in te s’incinse!», gli avevano gridato tutti i cuori d’Italia, disingannati da quel trattato che pareva un tradimento e una viltà; ma si era caduti in preda a una trepidazione angosciosa. L’immagine di Cavour ora più che mai rifulgeva alla desiosa fantasia degl’italiani, ora ch’egli era assente: «sed praefulgebat eo ipso, quod effigies eius non visebatur».
Il Manzoni gli scrisse, il 26 agosto. Cavour s’era ritratto, profugo volontario, a Ginevra. E questa lettera, che manca all’Epistolario18, è nuovo documento, pur nel suo signorile riserbo, dell’alta mente politica di chi scrisse il Discorso sui Longobardi e il Saggio comparativo della Rivoluzione francese o della italiana. Essa dice:
Signor Conte, Mi deve permettere che attesti anche a Lei la mia viva riconoscenza, all’occasione della troppo onorevole liberalità che mi volle usare il Re, finalmente nostro in fatto come lo era già nei nostri affetti e nelle nostre speranze: poichè, quantunque io sappia di esserne debitore ad una spontanea ed indulgentissima bontà e degnazione del Re medesimo, non ho potuto ignorare che uno stesso disegno, mosso ugualmente da una troppo indulgente benevolenza, era nelle di Lei intenzioni, e già n’era preparata la proposta.
Ma come potrebbe un Italiano avere un’occasione, un titolo qualunque, di rivolgersi a Lei, senza valersene premurosamente, per accennarle almeno, se non esprimorle, quei sentimenti d’ammirazione o di calda riconoscenza, di cui sono stati o sono animati i nostri pensieri, o che hanno occupata o occupano tanta parte dei nostri discorsi, per tutto ciò ch’Ella ha voluto e saputo fare ed avviare in benefizio di questa comune patria? Fortunato però di aver trovata una tale occasione, io non sono per abusarne col ripeterle ciò che Le è venuto e Le viene da tante e tante parti, e rubar troppo de’ Suoi preziosi momenti; giacché, cosa vuole?, noi siamo fissi a non credere ch’Ella sia disoccupata, nè che, a cose non finite, il Suo animo possa volere un riposo che l’Italia non vorrebbe. Voglia gradirò questi cordiali sentimenti, insieme con quello del mio profondo rispetto.
Erano bastati pochi giorni perchè la singolarissima fibra di Cavour riprendesse la calma dei gagliardi. «Non bisogna guardarsi indietro», egli diceva ai suoi familiari; «se una via c’è tagliata, ne piglieremo un’altra. L’Inghilterra non ha ancora fatto nulla per l’Italia. Può esser venuta la sua volta. Mi occuperò di Napoli. Mi si accuserà d’essere un rivoluzionario, ma prima d’ogni altra cosa occorre andare innanzi, o noi andremo!»19 . Tornò in Piemonte, donde l’8 settembre rispose al Manzoni:
L’avere voluto associare il mio nome al contrassegno ch’Ella ha ricevuto dal Re, fu per me dolce e inaspettato conforto. Certo, quando come ministro posi il piede in Milano, primo mio pensiero fu di rendere omaggio a quel Grande che mantenne illustre il nome d’Italia mentre essa giaceva dimenticata o derisa nelle tenebre della più dura oppressione. Circostanze irresistibili non mi lasciarono mandare ad effetto questo mio divisamento. Ripassai a Milano due volte, ma in tale stato d’animo da non pensare che alla crisi tremenda che ci minacciava. Ciò fu causa ch’io dovetti abbandonare il Ministero senza avere potuto soddisfare ad uno dei miei più vivi desiderii, ch’io riputava ad un tempo uno dei miei più stretti doveri.
La ringrazio di cuore di aver interpretato rettamente le mio intenzioni, o di avere giudicati i sentimenti ch’io nutro per Lei non dai miei atti, ma dai progetti che imprevedibili eventi mi tolsero d’eseguire.
Poiché Ella vuole dare un certo valore a quel poco che ho potuto operare a pro della nostra patria, mi permetta di chiedernele un guiderdone: la preziosa Sua amicizia. Il nome d’amico di Alessandro Manzoni sarà la più cara, la più splendida ricompensa del passato, il maggiore incentivo per l’avvenire.
Io non so se Cavour avesse davvero bisogno di maggior incentivo. Di questo son certo, che il plebiscito di stima, d’affetto, d’ammirazione, di fiduciosa speranza, ond’egli si vide fatto segno, lo confortò e sospinse e sorresse all’ultimo e più audace ed epico cimento. Il Farini, governatore dell’Emilia, e il Ricàsoli, governatore della Toscana, avevano dato prova d’ignorare i patti stipulati a Villafranca. Essi erano di buona scuola: «autonomi automi», secondo la frase arguta di Ricàsoli. Invece di rassegnare lo loro dimissioni, avevano convocati i comizi perchè costituissero le Assemblee, a cui era devoluto esprimere le intenzioni dei popoli della Toscana e dell’Emilia. Le Assemblee furono concordi: decisero l’annessione al Piemonte, con Vittorio Emanuele re costituzionale. E le loro Deputazioni vennero a Torino, per presentare quel voto al Re. Ma non al Re solo; bensì anche al conte di Cavour, che, nuovo e maggior Cincinnato, s’era ritratto nei suoi possedimenti di Leri, per attendervi, diceva, all’agricoltura!
Quale riflesso avrebbero avuto in Europa questi nuovi avvenimenti italiani? 11 Ministero Lamarmora-Rattazzi esitava, e Cavour lo rovesciò con un colpo di mano. 11 16 gennaio 1860 i ministri presentarono al Re le loro dimissioni; e poche ore dopo, Cavour riceveva l’incarico di formare il nuovo Gabinetto. Che fu subito costituito in modo che i soli nomi ne esprimessero il programma: accanto ai piemontesi Cassinis e Vegezzi, il marchigiano Mamiani, l’emiliano Fanti, il lombardo Jacini. 11 20 Cavour scriveva al D’Azeglio: «Non ti parlo della politica che seguiremo. Conosci il nostro sistema: conservatori liberali all’interno; italianissimi, sino agli estremi limiti della possibilità, all’estero». E gli annunziava il proposito di mandarlo governatore a Milano.
Donde gli giungevano continue le prove di devozione, che volevano altresì essere di consentimento e d’incitamento. Il conte Luigi Barbiano di Belgioioso, podestà, gli partecipava la deliberazione della Congregazione municipale d’intitolare dall’alto suo nome la piazza, ove ora no sorgo il monumento. Ed il Cavour, commosso, rispondeva il 22 gennaio:
Milano, ricca di tanto gloriose memorie, da tutta Italia lodata pel nobile contegno serbato durante la dominazione straniera, onorando il mio nome in così splendida forma, ha voluto rendere omaggio al pensiero nazionale che informò gli atti tutti della passata mia amministrazione, ascrivendomi a merito la bontà delle intenzioni laddove scarse dovevano parere le opere. Io La prego, egregio signor Conte, di porgerne i miei più vivi ringraziamenti ai benemeriti membri della Congregazione municipale, e di assicurarli che, chiamato oggi nuovamente da Sua Maestà a reggere le cose di Stato, rimarrò costante osservatore di quei principii che mi hanno procacciata la loro benevolenza.
Quattro giorni dopo, l’Istituto Lombardo lo acclamava suo membro onorario. E il Cavour ringraziava, il 5 febbraio, con una lettera diretta al Presidente dell’istituto; che era allora, e rimase fino al dicembre 1861 quando presentò irrevocabilmente le sue dimissioni, Alessandro Manzoni20. Gli diceva:
Benemerita dell’Italia per aver rivolte a scopo veramente patriottico le pazienti indagini delle scienze morali e sociali; splendida pei nomi dei membri che la compongono, e più di tutto per essere presieduta da Colui che in tempo di sconforto politico serbò pura ed intemerata la gloria delle lettere italiane; codesta illustre Società, chiamandomi nel suo seno, volle premiare il poco che ebbi la somma ventura di compiere per ridurre ad atto quelle aspirazioni nazionali che essa aveva evocato a vita nel campo dei pensiero.
Voglia, illustre signor Presidente, farsi interpreto verso i Suoi colleghi della mia profonda riconoscenza.
Se non vien meno in noi quella costanza ed unanimità di propositi che costringo ora l’Europa attonita all’ammirazione ed al plauso, fra breve la mente italiana non sarà più funestata dalla dominazione straniera; e invigorita, non esausta, dalla lotta nazionale, essa raggiungerà di nuovo quelle altezze del pensiero e dell’arte, a cui altre nazioni, benchè avessero sorti meno contrastate o più liete, tentarono finora indarno di giungere.
L’impegno che Cavour assumeva era formidabile. Ci trovavamo isolati. Napoleone ci faceva dire di non poterci aiutare altrimenti che opponendo una resistenza passiva agli ultramontani, che avrebbero voluto sospingerlo a intervenire a pro del Papa. Da Vienna scrivevano che quel ministro degli esteri sogghignasse, «il Piemonte non avere lo stomaco abbastanza forte da digerire Romagne e Toscana insieme». E da Londra ci si suggeriva di abbandonare pel momento la Toscana. Cavour rispondeva: «Anzichè abbandonar la Toscana, siamo decisi a batterci da soli contro l’Austria»: una frase che sarebbe parsa una spacconata da chiunque altri proferita.
Intanto veniva in Milano ad accompagnarvi il Re, che v’era stato invitato alle feste di carnevale. I nostri vecchi non ricordano senza lagrime quei giorni di giubilo patriottico. Cavour era l’idolo dei Milanesi; ed egli, quasi che nessun’altra cura gli occupasse la mente, assisteva ai ricevimenti, ai balli, ai veglioni, dovunque festeggiate, nei salotti come nelle vie21.
E in uno di quei giorni appunto, appagò l’antico desiderio, di visitare il Manzoni. Lo ricercò nella casa di via del Morone, dove l’arciduca Massimiliano non era stato ammesso, ma dove, un po’ prima o un po’ dopo di Cavour, sarebbero pure stati accolti Giuseppe Garibaldi o Giuseppe Mazzini, Daniele Manin22 e il principe Umberto. Quante e quali cose, tutte memorande, non erano avvenute dal primo incontro nella villa di Stresa! L’omino d’allora aveva fatta l’Italia! E ora il vate e il fattore d’Italia si stringevano la mano: la poesia si disposava alla storia. Era realtà e pareva un sogno; era storia e pareva leggenda; erano due uomini, e noi co li raffiguriamo, a cinquant’anni di distanza, come duo Numi tutelari della patria, che s’incontrassero sul campo della vittoria.
Due mesi dopo che Cavour aveva riprese lo redini del Governo, il plebiscito degli 11 marzo riconfermava Vittorio Emanuele re dalle Alpi al Mincio e all’Arno; tre mesi e mezzo dopo, i Mille salpavano da Quarto. «Il conte di Cavour è il vero uomo di Stato», esclamò il Manzoni; «ne ha di solito tutta la prudenza, ma, al momento buono, l’imprudenza». E alla contessa Verri-Jacopetti, che abilmente lo interrogava sugli avvenimenti che tenevano tutti in ansia, «Quando la Provvidenza», disse, «vuol fare qualche cosa di bene a un popolo, gli invia a governarlo un uomo come il conte di Cavour»23.
E proprio lui, il Manzoni, avrebbe voluto narrare la storia maravigliosa di quei giorni. Il narratore sarebbe stato degno dei fatti. Ma la mano gli cadde stanca sulle pagine che sarebbero state eterne. Non giunse che ad abbozzare il quadro; e l’abbozzo è per se solo un capolavoro.
Mi si consenta che ne trascriva un tratto.
La vita d’una Nazione — ei lasciò scritto — non può essere un dono d’altri24. E bensì vero che una Nazione divisa in brani, inerme nella massima parte, e compressa da una preponderante, ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da sè rivendicare il suo diritto d’essere: e questa è la sua infelicità, e un ricordo di modestia. Ma è vero altresì che non lo potrebbe nemmeno con qualunque più poderoso aiuto esterno, senza un forte volere o uno sforzo corrispondente dalla sua parte: e questo è il paragone della sua virtù, e un giusto titolo di gloria, e insieme un motivo di fiducia nell’avvenire, quando lo sforzo sia coronato dal successo.
Con le sole sue forze, infatti, una Nazione qualunque, ridotta in tali strette, non che compire la sua liberazione, non potrebbe nemmeno tentarla sul serio, essendole troncato ogni mezzo di raccogliere, con un comune concerto, queste forze sparse, e non le rimanendo altro che l’infelice espediente delle congiure; le quali, e deboli in ciascheduna parte, e sparpagliate nel tutto, vengono facilmente represse, e non servono che a darò all’oppressore materia di supplizi e novi mezzi di terrore; anzi, a impedirne lo scoppio, basta per lo più l’imbelle o turpe milizia delle spie. E viceversa, qualunque più poderoso e anche leale aiuto straniero sarebbe insufficiente a rendere stabilmente libera e signora di sè una Nazione inerte; poichè per mantenersi e per governarsi le sarebbero necessarie quelle virtù appunto che le sarebbero mancate per concorrere alla sua liberazione. Un braccio vigoroso può bensì levare dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di camminare...
Era riservato dalla divina Provvidenza ai nostri giorni il raro incontro di que’ due ugualmente indispensabili mezzi. Da una parte, un antico e tanto più vivido germe di vita italiana in una provincia, in un Re, in un esercito, per mezzo del quale l’Italia potè prendere addirittura nell’impresa un nobile posto, e dare il suo nome a qualche illustre giornata; e dal rimanente dell’Italia un’eletta di prodi accorsi a mescersi in quelle file, eludendo la custodia dei dominatori, e mille valorosi condotti come a una festa da un valorosissimo a conquistare a questa patria comune un vasto e magnifico tratto del suo territorio, da principio con l’armi, a un’immensa disuguaglianza di numero come a prova dell’ardire, e poi con la sola forza del nome e della presenza, come a prova della spontaneità dell’assenso; e principalmente dove posava a piombo, e premeva più da vicino, il dominio straniero, un popolo che, anche inerme, sbrancato, spiato, trovava il modo di manifestar l’animo suo col tenersi segregato dai dominatori, col non ubbidir che alla forza, col sottrarsi alle loro carezze, con quel contegno, insomma, atto a render più sensibile e ai cittadini la loro unanimità, e ai poteri ingiusti quella solitudine che li mette tra la violenza e lo scoraggiamento, due pericoli del pari.
Dall’altra parte, un possente sovrano straniero, che lasciandosi dietro le spalle la politica di coloro che, non avendo ancora finito di ridere de’ vecchi realisti francesi ai quali era parso un assunto facile e piano quello d’impedire ogni cambiamento nell’antico regime della Francia, volevano poi che la Francia de’ tempi novi prendesse l’assunto, altrettanto agevole, d’opporsi (giacchè estranea non poteva rimanere) allo tendenze de’ popoli a comporre in forti o naturali unità le loro parti sparse; alieno ugualmente e da una tale ardua prepotenza, e dall’apprensione pusillanime che la Francia, col suo vasto territorio, con la sua ferrea unità, con la sua bellicosa popolazione, non potesse viver sicura di sè medesima se non col tenere altri nell’impotenza e nell’abiezione; compreso che sarebbe provvedere al bene della Francia stessa, come era suo primo o sacro dovere, il dar mano a chiudere alle Potenze europee questo infelice campo di battaglia, dove la Francia stessa era stata bensì spesso vittoriosa, ma da dove alla fine era dovuta uscir quasi sempre, se mi si passa un’espressione familiare ma calzante, col capo rotto, principiando da Carlo VIII fino, che è tutto dire, a Napoleone I. L‘esercito condotto in Italia dal suo nipote, come fu il primo che c’entrasse con un fine generoso e sensato, fu anche il primo che ne sia uscito trionfante e benedetto, e lasciandovi una Nazione amica por la natura stessa delle cose.
Il Manzoni non pronunzia il nome del potente sovrano straniero, senza il cui aiuto generoso l’Italia — perchè volerci impuntare a non riconoscerlo, come lo storico ha fatto, lealmente? — l’Italia non ancora sarebbe. Nè ho bisogno di pronunziarlo io. Il vostro pensiero è già corso al solitario palagio, tra i Boschetti e il Naviglio, dove ebbe già sede il Senato milanese; e s’inchina all’imperiale recluso. Il monumento superbo e il gesto gentile del cavaliere augusto, nell’angustia di quel chiostro deserto, hanno un’eloquenza che solo una frase di Shakespeare a me pare valga ad esprimere: «I torti degli uomini vivono nel bronzo, le loro virtù noi le scriviamo sull’acqua»25.
Note
- ↑ Questo discorso fu letto, il 14 novembre 1910, nell’aula magna della R. Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, per inaugurarvi la riapertura dei corsi.
- ↑ Tra le Lettere edite ed inedite di C. Cavour, raccolte e illustrate da Luigi Chiala; Torino, 1887, vol. VI, p. 679.
- ↑ L. Colet, L’Italie des ltaliens; Paris, Dentu, 1862, vol. II, p. 8. — In una lettera alla Contessa De Circourt, del 24 ottobre 1860, Cavour dichiarava: «Toutefois, ou je me trompe fort, ou le peuple français est pour nous. Les passions bonnes et mauvaises ont cristallisé la surface de la société et l’ont rendue peu apte à ressentir des émotions généreuses; mais la masse est généreuse comme par le passé et elle sympathise avec nous. S’il en était autrement, comment se ferait-il que tous les journaux qui s’adressent aux masses sont italianissimi? Le désaccord entre le haut et le bas de la société est aflligeant, surtout lorsque c’est le bas qui est noble et désintéressé et que le haut est ègoïste et méchant. Mais je ne veux pas médire de la société française. Je lui dois trop. Je me résigne à ce que l’Italie so régénère en dépit des salons de Paris». Cfr. Le Comte de Cavour et la Comtesse de Circourt: lettres inédites publiées par le Comte Nigra; Torino, 1894, p. 104-05.
- ↑ Lettera al Cialdini, che si trovava a Gaeta, da Torino, 4 gennaio 1861. Chiala. VI. 665.
- ↑ Lettera del Vimercati al Castelli, Parigi, 29 marzo 1861 (Chiala, VI, 693): «L’Imperatore persiste a credere che è un errore del Conte quello di unificare l’Italia col mezzo del Parlamento; questa unificazione, a parer suo, non è possibile che col mezzo di un potere forte e quasi assoluto nelle mani di Cavour».
- ↑ Chiala, IV, 25. Lettera alla Contessa De Circourt, ottobre 1860.
- ↑ Cfr. Il Conte di Cavour: saggio politico di Enrico de Treitschke; Firenze, 1873, p. 58-9.
- ↑ Cfr. Massari, Il Conte di Cavour; Torino, 1873. p. 402. — Verdi aveva fatto parte della Deputazione che, nel settembre 1859, venne a Torino per presentare al Re il voto dell’Assemblea di Parma, favorevole all’annessione dell’ex-Ducato al Piemonte. «Il famoso compositore, l’Autore del Trovatore, Traviata, ecc.», si affretti a recarsi a Leri, per procurarsi il piacere di fare una visita a Cavour. «Trattasi di una celebrità europea», questi scriveva a Giacinto Corio. «penso che Ella avrà piacere di fargli compagnia» (Chiala, VI. 439-443). — Pel grandissimo Ministro il grande Maestro aveva una venerazione senza contini; e quando, a Busseto, gli giunse la ferale notizia della sua morte, scrisse costernato al collega ed amico Opprandino Arrivabene: «Al momento di partire, sento la terribile notizia che mi uccide! Non ho il coraggio di venire a Torino, nè potrei assistere ai funerali di quell’uomo... Quale sventura, quale abisso di guai!». E qualche giorno dopo, il 9 giugno: «Mi scoppia il cuore a venire a Torino.» E non andò; ma fece celebrare un ufficio funebre a Busseto. Il 14 così ne rendeva conto all’amico: «Le esequie a Cavour furono celebrate giovedì con tutta la pompa che poteva aspettarsi da questo piccolo paese. Il clero celebrò gratis; e non è poco! Io ho assistilo alla funebre cerimonia in pieno lutto, ma il lutto straziante era nel cuore. Inter nos, io non potei trattenere le lagrime, e piansi come un ragazzo... Povero Cavour!... e poveri noi!...». — Il Verdi rimase deputato fino al 1865, quando rifiutò in modo assoluto la candidatura. Perchè persistere? Alla Camera, diceva, «si attacca sempre lite, e si perde tempo». Ma ancora il 29 dicembre 1867, scrivendo da Genova all’Arrivabene, si rammaricava della iattura toccata all’Italia con l’acerba morte di Cavour. «Volevo aspettare a scriverti che fosse finito questo per me maledettissimo 1867, ma desidero che ti arrivino i miei auguri in tempo pel nuovo anno. Non so se veramente per un italiano, che ami con sincerità e disinteresse il proprio paese, l’anno 1868 potrà essere molto felice. Nonostante, ti auguro in questo ogni bene possibile. Tu hai ben ragione: Cavour ha portato seco il senno e la fortuna d’Italia!». Cfr. A. Luzio, Profili biografici e bozzetti storici, Milano, 1906. p. 127; ed Epistolario Verdiano, nella Lettura del febbraio 1904, p. 141. Inoltre: M. Scherillo, Verdi cittadino milanese, nel C Corriere della Sera del 18 febbraio 1913; e I copialettere di G. Verdi, a cura di G. Cesari e A. Luzio, Comune di Milano, 1913, p. 588 ss.
- ↑ Vedi, nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1909, il mio saggio: Manzoni e Napoleone III.
- ↑ Massari, p. 401-05.
- ↑ Gaetano Negri, Di alcuni Dialoghi Rosminiani in un manoscritto inedito di Ruggero Bonghi; nei Rendiconti del R. Istituto Lombardo, 1896, vol. XXIX.
- ↑ Colgo l’occasione per rilevare che uno spunto di codesti versi famosi del Marzo 1821 era già nel Carmagnola. Dice il Conte, indignato delle pretese dei Commissari veneti, a proposito dei compagni d’arme gelosi dell’onor della milizia e zelatori del vantaggio di essa (a. III, sc. 2ª): «Io tradirli così! Farla più serva. Più vii, più trista che non è!..»
- ↑ Massari, p. 61.
- ↑ Narrano che il D’Azeglio si facesse premura di far pervenire, di contrabbando, all’illustre suocero il fascicolo degli Atti parlamentari contenente quel discorso; e che il Manzoni inviasse a Cavour una sua carta da visita, con su scrittovi: «Benissimo». Questa carta il Conte ebbe sempre carissima; e fino al suo ultimo giorno fu vista nel suo gabinetto da lavoro, conficcata nella cornice d’un ritratto di Carlo Alberto che pendeva dalla parete dietro le sue spalle.
- ↑ Cfr. Mario Manfroni, L’ultima malattia di A. Rosmini, con lettore inedito di R. Bonghi e di A. Manzoni, Milano, 1910; o Carteggio fra A. Manzoni e A. Rosmini, raccolto e annotato da Giulio Bonola, Milano, Cogliati, 1900.
- ↑ Cfr. D’Ovidio, La politica del Manzoni, nei Nuovi studi manzoniani, Milano, Hoepli, 1908, p. 300; e i Cenni biografici di A. M., premessi alla sontuosa edizione hoepliana del Romanzo, Milano, 1900, p. xix e xx.
- ↑ G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù: cose vedute o sapute; Milano, Cogliati, 1904, p. 640.
- ↑ Il Chiala, v. IV, in fine, ne dà il facsimile.
- ↑ Cfr. De La Rive, Le comte de Cavour: récits et souvenir; Paris, 1863, p. 302. — Di questo bel libro, divenuto rarissimo, c’è ora una versione italiana, pubblicata a Torino dal Bocca, con prefazione di Emilio Visconti Venosta, per cura della nipote di Cavour, la marchesa Adele Alfieri di Sostegno.
- ↑ Cfr. F. Novati, A. Manzoni ed il R. Istituto Lombardo, nel Giornale Storico della letteratura italiana, v. XXXIX, p. 156-58
- ↑ V. i citati Ricordi di G. Visconti Venosta, p. 630 ss.; la vivace narrazione della signora Colet, L’Italie des Italiens, vol. I, p. 388 ss.; o Massari, Il conte di Cavour, p. 364-67.
- ↑ Narrava la signora Teresa Manin a una sua intima, il 24 settembre del 1842: «... del colloquio con Manzoni, è vero. Como forse saprai, il gran poeta ricusa di vedere perdono nuove, nè voleva ricevere mio marito, che taceva in sulle prime il suo nome; ma detto che l’ebbe, il fece entrare, mostrò di conoscerlo già, e con una bontà, con una semplicità di modi nuova e soavissima, s’intrattenne con lui quasi tre ore. Più volte Daniele si alzò per andarsene, e Manzoni gli fece sempre dolce forza per ritenerlo. Ti assicuro, e lo dico a te solamente, che ciò mi ha lusingata». Cfr. Il Risorgimento italiano, I, 4, sett. 1908; o Fed. Pellegrini, A. Manzoni a Venezia, Venezia, 1911, p. 24.
- ↑ La contessa s’affrettò a riferire una così autorevole e lusinghiera sentenza a un alto personaggio del Ministero degli Esteri; che ne trascrisse «le precise parole» e comunicò al Ministro, giacchè, è detto in un foglietto che si conserva nel Museo del Risorgimento a Roma, «la stessa Contessa brama siano rese note per mio mezzo all’E. V.».
- ↑ Cfr. nel Marzo 1821: «Il suo fato, un segreto d’altrui»; e le parole di Cavour alla Camera, il 14 marzo 1857: «L’aiuto di un’estera potenza non renderebbe meno utile la fortezza d’Alessandria, giacché onde quest’aiuto riesca per noi veramente efficace..., sarebbe necessario che prima di fare assegno sull’aiuto altrui facessimo calcolo sulle proprie forze. Allora l’aiuto altrui può tornarci utile immediatamente, e non può aver funeste conseguenze. Quando il paese aggredito avesse fatto tutti i suoi sforzi, avesse resistito, gagliardamente resistito, il soccorso altrui non sarebbe una umiliazione, ma un sussidio valevole a compiere forse grandi imprese».
- ↑ «Men’s evil manners live in brass; their virtues We write in water». King Henry VIII, a. IV, se. 2ª. — Mi càpita sott’occhi il foglio di giovedì 29 maggio 1873 del Pungolo di Milano, dove son descritti i grandiosi funerali fatti al Poeta. Al Cimitero parlò efficacemente, in rappresentanza del Senato, Achille Mauri. Che disse: «Del fatto ch’egli abbia appartenuto al Senato del regno è da tener conto per questo, che schivo d’ogni onorificenza, questa unica non disdisse, perocché gli porgeva modo di mostrarsi pubblicamente, qual fu sempre, devoto all’indipendenza ed unità d’Italia, e d’assumere la sua parte di responsabilità di quella politica onde il grande intento fu conseguito». E concludeva: «Un illustre tedesco scriveva non ha guari che può trarsi ogni lieto pronostico degl’italiani, se si mostreranno degni dell’educaziono politica ricevuta da Camillo Cavour. Lo stesso è da dire, se si mostreranno degni dell’educazione letteraria e morale ricevuta da Alessandro Manzoni. Cotesti nomi di due uomini, che si ebbero in sì grande stima ed affetto, ben possono pronunziarsi insieme, in questo giorno, in questo luogo; ben può qui emettersi il voto che delle future nostre generazioni si dica: Sono formate alla scuola italiana del Cavour e del Manzoni!».