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imprese alla più degna accinto», aveva finalmente proferita «la parola che tante etadi indarno Italia attese»? Non era lui che, finalmente, «dell’itala fortuna» aveva raccolto da terra «le sparse verghe» e fattone un fascio nella sua mano?

Sennonchè a quel colloquio non era presente il solo che ne avrebbe avuto il diritto. Poche settimane prima, di fronte alla necessità di Villafranca, Cavour aveva abbandonato le redini del governo. «Alma sdegnosa! benedetta colei che in te s’incinse!», gli avevano gridato tutti i cuori d’Italia, disingannati da quel trattato che pareva un tradimento e una viltà; ma si era caduti in preda a una trepidazione angosciosa. L’immagine di Cavour ora più che mai rifulgeva alla desiosa fantasia degl’italiani, ora ch’egli era assente: «sed praefulgebat eo ipso, quod effigies eius non visebatur».

Il Manzoni gli scrisse, il 26 agosto. Cavour s’era ritratto, profugo volontario, a Ginevra. E questa lettera, che manca all’Epistolario1, è nuovo documento, pur nel suo signorile riserbo, dell’alta mente politica di chi scrisse il Discorso sui Longobardi e il Saggio comparativo della Rivoluzione francese o della italiana. Essa dice:

Signor Conte, Mi deve permettere che attesti anche a Lei la mia viva riconoscenza, all’occasione della troppo onorevole liberalità che mi volle usare il Re, finalmente nostro in fatto come lo era già nei nostri affetti e nelle nostre speranze: poichè, quantunque io sappia di esserne debitore ad una spontanea ed indulgentissima bontà e degnazione del Re medesimo, non ho potuto ignorare che uno stesso disegno, mosso ugualmente da una troppo indulgente benevolenza, era nelle di Lei intenzioni, e già n’era preparata la proposta.

Ma come potrebbe un Italiano avere un’occasione, un titolo qualunque, di rivolgersi a Lei, senza valersene premurosamente, per accennarle almeno, se non esprimorle, quei sentimenti d’ammirazione o di calda riconoscenza, di cui sono stati o sono animati i nostri pensieri, o che hanno occupata o occupano tanta parte dei nostri discorsi, per tutto ciò ch’Ella ha voluto e saputo fare ed avviare in benefizio di questa comune patria? Fortunato però di aver trovata una tale occasione, io non sono per abusarne col ripeterle ciò che Le è venuto e Le viene da tante e tante parti, e rubar troppo de’ Suoi preziosi momenti; giacché, cosa vuole?, noi siamo fissi a non credere ch’Ella sia disoccupata, nè che, a cose non finite, il Suo animo possa volere un riposo che l’Italia non vorrebbe.

  1. Il Chiala, v. IV, in fine, ne dà il facsimile.