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roso aiuto esterno, senza un forte volere o uno sforzo corrispondente dalla sua parte: e questo è il paragone della sua virtù, e un giusto titolo di gloria, e insieme un motivo di fiducia nell’avvenire, quando lo sforzo sia coronato dal successo.

Con le sole sue forze, infatti, una Nazione qualunque, ridotta in tali strette, non che compire la sua liberazione, non potrebbe nemmeno tentarla sul serio, essendole troncato ogni mezzo di raccogliere, con un comune concerto, queste forze sparse, e non le rimanendo altro che l’infelice espediente delle congiure; le quali, e deboli in ciascheduna parte, e sparpagliate nel tutto, vengono facilmente represse, e non servono che a darò all’oppressore materia di supplizi e novi mezzi di terrore; anzi, a impedirne lo scoppio, basta per lo più l’imbelle o turpe milizia delle spie. E viceversa, qualunque più poderoso e anche leale aiuto straniero sarebbe insufficiente a rendere stabilmente libera e signora di sè una Nazione inerte; poichè per mantenersi e per governarsi le sarebbero necessarie quelle virtù appunto che le sarebbero mancate per concorrere alla sua liberazione. Un braccio vigoroso può bensì levare dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di camminare...

Era riservato dalla divina Provvidenza ai nostri giorni il raro incontro di que’ due ugualmente indispensabili mezzi. Da una parte, un antico e tanto più vivido germe di vita italiana in una provincia, in un Re, in un esercito, per mezzo del quale l’Italia potè prendere addirittura nell’impresa un nobile posto, e dare il suo nome a qualche illustre giornata; e dal rimanente dell’Italia un’eletta di prodi accorsi a mescersi in quelle file, eludendo la custodia dei dominatori, e mille valorosi condotti come a una festa da un valorosissimo a conquistare a questa patria comune un vasto e magnifico tratto del suo territorio, da principio con l’armi, a un’immensa disuguaglianza di numero come a prova dell’ardire, e poi con la sola forza del nome e della presenza, come a prova della spontaneità dell’assenso; e principalmente dove posava a piombo, e premeva più da vicino, il dominio straniero, un popolo che, anche inerme, sbrancato, spiato, trovava il modo di manifestar l’animo suo col tenersi segregato dai dominatori, col non ubbidir che alla forza, col sottrarsi alle loro carezze, con quel contegno, insomma, atto a render più sensibile e ai cittadini la loro unanimità, e ai poteri ingiusti quella solitudine che li mette tra la violenza e lo scoraggiamento, due pericoli del pari.

Dall’altra parte, un possente sovrano straniero, che lasciandosi dietro le spalle la politica di coloro che, non avendo ancora finito di ridere de’ vecchi realisti francesi ai quali era parso un assunto facile e piano quello d’impedire ogni cambiamento nell’antico regime della Francia, volevano poi che la Francia de’ tempi novi prendesse l’assunto, altrettanto agevole, d’opporsi (giacchè estranea non poteva rimanere) allo tendenze de’ popoli a comporre in forti o naturali unità le loro parti sparse; alieno ugualmente e da una tale ardua prepotenza, e dall’apprensione pusillanime che la Francia, col suo vasto territorio, con la sua ferrea unità, con la sua bellicosa popolazione, non potesse viver sicura di sè medesima se non col tenere altri nell’impotenza e nell’abiezione; compreso che sarebbe provvedere al bene della Francia stessa, come era suo primo o sacro dovere, il dar mano a chiudere alle Potenze europee questo infelice campo di battaglia, dove la Francia stessa era stata bensì spesso vittoriosa, ma da dove alla fine era dovuta uscir quasi sempre, se mi si passa un’espressione familiare ma calzante, col capo rotto, principiando da Carlo VIII fino, che è tutto dire, a Napoleone I.