Tragedie, inni sacri e odi/Illustrazioni e discussioni/II. Poeti ed eroi

Michele Scherillo

Illustrazioni e discussioni - II. Poeti ed eroi ../I. Manzoni e Cavour ../III. Manzoni e Roma laica IncludiIntestazione 1 novembre 2021 75% Da definire

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POETI ED EROI1



Tutti ricordano la bellissima scena del Conte di Carmagnola, in cui il magnanimo condottiero, in barba alle pusillanimi esortazioni dei Commissari della Repubblica, manda liberi i prigionieri di guerra. Un Commissario corre alla tenda del Generale, per persuaderlo di muovere al riparo, perchè «una sfacciata perfidia» non renda vana «sì gran vittoria»; e narra (a. III, sc. 2ª):

....I prigioni escon del campo a torme;
I condottieri ed i soldati a gara
Li mandan sciolti, nè tener li puote
Fuor che un vostro comando.


Il Conte, maravigliato, interrompe: «Un mio comando?». E il Commissario, non meno maravigliato: «Esitereste a darlo?». Il Conte spiega:

               ....È questo un uso
Della guerra, il sapete. È così dolce
Il perdonar quando si vince! e l’ira
Presto si cambia in amistà ne’ cori
Che batton sotto il ferro. Ah! non vogliate
Invidïar sì nobil premio a quelli
Che hanno per voi posta la vita, ed oggi
Son generosi, perchè ier fur prodi.


E infastidito dalle vili e ingenerose argomentazioni e ammonizioni di quei legulei, chiama un soldato.

il conte. Quanti prigion restano ancora?
il soldato. Io credo
Quattrocento, signor.

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il conte. chiamali... chiama
I più distinti... quei che incontri i primi:
Vengan qui tosto.

I prigionieri sono introdotti. Il Conte li riceve non come nemici, bensì come amici a cui la fortuna non abbia arriso.

il conte. O prodi indarno, o sventurati!... A voi
Dunque fortuna è più crudel? Voi soli
Siete alla trista prigionia serbati?...
Voi, di chi siete prigionier?
un prigioniere. Noi fummo
Gli ultimi a render l’armi. In fuga o preso
Già tutto il resto, ancor per pochi istanti
Fu sospesa per noi l’empia fortuna
Della giornata; alfin voi feste il cenno
D’accerchiarci, o signor: soli, non vinti.
Ma reliquie de’ vinti, al drappel vostro....

il conte. Voi siete quelli? Io son contento, amici.
Di rivedervi; e posso ben far fede
Che pugnaste da prodi: e se tradito
Tanto valor non era, e pari a voi
Sortito aveste un condottier, non era
Piacevol tresca esservi a fronte.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite
La vostra sorte, e s’ella ancor vi porta
Sotto una insegna che mi sia nemica....
Ebben, ci rivedremo.

S’intende: con questa scena, oltre che rendere e illustrare drammaticamente un uso di guerra al tempo delle Compagnie di ventura, il Manzoni volle altresì lumeggiare il carattere buono ed eroico del Condottiero carmagnolese. La indomabile sua fierezza nel campo, di fronte al nemico fiero ed armato, si mutava in un’amabile mitezza, dinanzi al nemico sconfitto o impotente. La guerra era per lui una crudele necessità, che trovava la sua giustificazione in un nobile fine; raggiunto questo, il continuarla sarebbe stato un tramutarla in assassinio. Il condottiero sarebbe divenuto un masnadiere.

Or questa scena, così moralmente e poeticamente bella, che la fantasia del Manzoni immaginò e descrisse tra il 1816 e il 1820, doveva riprodursi nella realtà, nel 1859, a Ber[p. 432 modifica]gamo, nella storica casa dei Camozzi. E protagonista ne fu l’eroe, a cui nessuna fantasia di poeta potrebbe aggiungere un nuovo raggio di poesia, e la cui altissima poesia nessun poeta è riuscito finora, pur in qualche minima parte, a tradurre in versi.

L’aneddoto fu narrato dal compianto, e caramente rimpianto, Gino Visconti Venosta, in quel prezioso e attraente volume dei suoi Ricordi di gioventù2.

Don Gino — perchè non chiamarlo ancora così, come noi intimi solevamo chiamarlo? — aveva assunto l’ufficio, nei primi mesi di quell’anno fortunoso, di Commissario regio per la Valtellina. I Visconti Venosta eran di Tirano; ed Emilio, il fratello maggiore, era Commissario regio al campo di Garibaldi. Questi aveva trasportato il suo quartier generale a Bergamo; ed ivi andò a parlargli don Gino, per prender gli accordi circa l’aspettata o agognata invasione della Valtellina.

«Garibaldi mi accolse», egli narra. «con quel piglio franco e cortese, con quel sorriso che sapeva essere così sereno, e con quella sua voce meravigliosa, la più bella voce d’uomo che io abbia mai udito: doti che spiegavano il fascino irresistibile che egli esercitava su tutti, anche sui più scontrosi». Furono interrotti dal capitano Corte, il quale veniva a informare Garibaldi ch’erano stati fatti prigionieri alcuni ufficiali austriaci. Il Generale ordinò che gli si conducessero subito innanzi.

Intorno al nome di Garibaldi correva, o era fatta correre, fin dal 1848, una paurosa e sciocca leggenda, che dell’eroico o generoso condottiero faceva qualcosa di brigantesco o di diabolico. Al solito, pei nostri cari vicini e padroni, noi, quando eravamo qualcosa, eravamo dei Fra Diavolo! Così, quei disgraziati ufficiali vennero avanti con l’aria di chi sia condotto alla presenza d’un qualche feroce capo di filibustieri, capace Dio sa di quali enormezze. Due di essi erano in preda a un tremito nervoso che non riuscivano a [p. 433 modifica]dominare. Che Fra Diavolo volesse procurarsi il divertimento d’infilzarli, lui proprio, colla sua propria spada?...

Garibaldi, invece, col suo consueto aspetto affabile o cortese, si fece loro incontro, e strinse a ciascuno la mano. «Poi, volgendosi al generale Thürr: — Domandate a questi bravi ufficiali se hanno qualche desiderio da esprimere; li affiderete a qualche nostro ufficiale perchè li accompagni a Milano, donde poi saranno condotti ad Alessandria; viaggeranno in carrozza chiusa, per sottrarli alla curiosità pubblica, e sarà lasciata a ciascuno la spada, chiedendo loro la parola d’onore che non tenteranno di fuggire. — Mentre il Thürr traduceva in tedesco queste parole, quelle sei facce avevano l’espressione di chi va trasecolando, e parevano improvvisamente illuminate da un raggio di sole. Garibaldi strinse di nuovo la mano a ciascuno, e li congedò dicendo: — Bravi e valorosi ufficiali, vi saluto. — Quei sei si piantaron prima nella posizione del saluto, poi strinsero anch’essi con effusione la mano del Generale; e se erano entrati indecisi, parevano più indecisi ancora nell’uscire».

Gli è che i sommi poeti — quelli cioè che son tali non già per un’autoproclamazione o per il vociare incomposto dei loggioni, bensì per la grazia di Dio e per la volontà del popolo — sanno, nella loro alta mente e nella loro coscienza, vagheggiare e foggiare il tipo degli eroi; e gli eroi — quelli che son veramente tali, per ischietto consentimento degli uomini che han cuore e cervello — riescono ingenuamente e spontaneamente a riprodurre in sè e ad impersonare le più nobili e seducenti manifestazioni del tipo vagheggiato dai poeti sommi. Non ci sorprende ciò che ci rivelano ora le care Memorie intime di quella tra i figli del Poeta che più ne ereditò l’animo e l’ingegno. «Quando arrivarono le notizie della spedizione di Romagna», narra la soave Vittoria Giorgini, il babbo «non stava più in sè dalla contentezza: piangeva, rideva, batteva le mani, gridando ripetutamente: Viva Garibaldi! Viva Garibaldi! Nessuno l’aveva mai visto prima, nè lo rivide mai più in tale stato di gioiosa eccitazione».



Note

  1. Nel cinquantenario della spedizione dei Mille.
  2. Mi si consenta di rimandare chi ami di conoscere un po’ da vicino questo valentuomo, alla mia commemorazione: Visconti Venosta minore, nella Lettura del maggio 1915.