Storia di Torino (vol 1)/Libro II/Capo VII
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Capo Settimo
Comunque sia, l’elezione d’Arduino fu accettata generalmente in Italia, ed egli fu incoronato il 15 di febbraio a Pavia. Ne’ primi giorni di marzo s’intitolavano nella città d’Asti gli atti nel suo nome; e punto non dubito che per legittimo re qual era fosse eziandio riconosciuto a Torino; se non che, eletto re di Germania Arrigo ii, chiamato da alcuni il Santo, ei si pensò d’aver ragione sulla corona lombarda, quasiché oramai non si potesse più dispiccare dalla Germania; e siccome per eterno vituperio d’Italia la divisione e l’invidia de’ nazionali furono sempre i vizii che apersero allo straniero la porla di queste divine contrade, trovò qui facilmente aderenti. Vero è che ad attenuarne il fallo potrebbe osservarsi che le frequenti e bestiali collere d’Arduino, nelle quali non avea rispetto a persona del mondo, e poneva svergognatamente le mani addosso anche ai vescovi, non che ai grandi; offuscavano singolarmente le virtù militari, per cui risplendeva il nuovo re d’Italia; e che all’incontro il suo competitore Arrigo era principe misurato in ogni cosa e prudente. Ma chi non sa che agli occhi de’ principi italiani il vero merito de’ re di Germania era lo starsene il più del tempo lontani, lasciando i duchi edi marchesi nostri regnare in loro vece, ciascuno nella sua provincia? La questione ornai si riduceva, e sempre più dappoi si ridusse in questi termini: esser meglio che un principe straniero regnasse di solo nome in Italia, e che i principi italiani regnasser di fatto, ciascuno nell’ereditario suo Stato, invece di veder un solo de’ loro colleghi sollevato al grado regio, con perenne e però troppo incomodo esercizio di sovranità sugli Stati di tutti gli altri.
Queste cagioni allontanavano i principi dell’italico regno dal partito d’Arduino, e li rendeano in generale propensi ad un re forestiero. Ed all’incontro i minori vassalli, che uno scrittore contemporaneo chiama secondi militi, i quali duro sperimentavano il governo de’ marchesi e dei conti, e l’autorità temporale dei vescovi, ed aveano in odio la soverchiante loro potenza, s’accostavano tutti ad Arduino, la cui indole superba e risentita, s’indurava contro ai grandi, e si rammorbidava co’ mezzani e co’ piccoli.1 Arduino era in somma sostenuto da quel tumultuante e generoso elemento, che insofferente dell’oppressione, consapevole delle proprie forze, dopo la caduta di Arduino obbligò Corrado a far mettere in iscrittile consuetudini feudali; e dopo la metà del secolo consolidò e costituì definitivamente i comuni.
Arduino nell’anno medesimo della sua coronazione ebbe a contrastare il passo nelle gole dell’Adige ad un esercito di Tedeschi, lo vinse e lo pose in fuga.
Nel 1004 Arrigo ii scese egli stesso per disusato cammino lungo le sorgenti del Brenta, e Arduino marciava con gran furia e con maggiori speranze ad assalirlo, quando a un tratto il suo numeroso esercito si dileguò per tradimento de’ principi. Ond’egli abbandonato ceder dovette il campo al rivale, il quale, continuando il suo cammino in mezzo alle ovazioni de’ popoli stolti, giunse a Pavia ove fu eletto e coronato re alla metà di maggio. Ma con mal pro di quella nobil città, perchè essendo nata rissa fra i Tedeschi ed i cittadini, fu messa a fuoco ed a ruba. Dopo la partenza d’Arrigo, Arduino ripigliò la primiera autorità in molte principali città del regno, i cui vescovi e i principi, ancorché per la maggior parte ligii al re germanico, dissimulavano per paura d’Arduino e de’ secondi militi, che quasi tutti per lui parteggiavano. Invece sembra che favorevole in segreto al re Arduino fosse Odelrico Manfredi, conte di Torino, il quale palesemente era stimato e chiamato fedele di Arrigo ii. Seguitava poi altamente l’italico stendardo Olberto marchese, signore di più comitali nella Liguria e nel Milanese, famoso, pro genitore degli Estensi.
In giugno del 1014 venne Arrigo di nuovo in Italia, ed ottenne anche Arrigo la corona imperiale; ma di quel tempo appunto risorse per un solo istante la fortuna d’Arduino, il quale, trovati molti aderenti nei contadi d’Ivrea, di Vercelli, di Lomello, di Novara, e altrove, mentre in Roma stessa, in mezzo ai trionfi d’Arrigo, suscitava coll’opera de’ figliuoli del marchese Otberto un tumulto destinato, se riusciva, ad opprimere il novello imperatore, levato un esercito s’apprestava a tagliar la ritirata ai fuggiaschi a’soliti passi dell’Alpi. Ala fallì agli Arduiniani il successo in Roma. E però Arduino aspettò per insorgere che l’imperatore fosse tornato in Germania. Allora radunate le sue genti, uscì dalla rocca d’Ivrea, s’impadronì di Vercelli, assediò e prese Novara e Como. Ala presto gli sfuggirono di mano tali conquiste; e intanto nel bel mezzo delle sue imprese e de’ pazzi furori guerreschi, sentì le offese d’un nuovo inevitabil nemico. Ed era un morbo di sua natura mortale, che lo fe’ risolvere di abbandonar i pensieri del mondo, e di ritrarsi nel monastero di Fruttuaria ch’egli aveva aiutato a fondare, onde farvi penitenza de’ suoi peccati.
Onde nel settembre del 1014, deposte sull’altare le reali insegne, pigliato l’umil cocolla benedittina, si ridusse in povera cella. In quella pia solitudine rimase finche morì, e fu il 14 dicembre del 1015.2 Così finì, se non vero monaco, almeno penitente fra i monaci l’ultimo re d’Italia italiano. Odelrico Manfredi, conte di Torino, stretto congiunto del re Arduino, fu quasi sempre annoveralo tra i fedeli d’Arrigo ii, benché non si veda mai essere in guerra col suo competitore. Forse aderiva in segreto al partilo italico, mentre la posizione geografica del suo Stato, ed il numero degli Enriciani gli imponeano l’obbligo di seguitar in palese il partito contrario, come faceano varii altri principi.3 Comunque ciò sia, egli da tal suo sistema ritrasse vantaggio, poiché Enrico ii, rimosso Pietro vescovo d’Asti che parteggiava pel re italiano, vi surrogò Alrico, fratello del marchese di Torino, e lo fe’ consecrare dal papa; benché di questo vantaggio dovettero dopo il dolce gustar anche l’amaro, quando Eriberto, arcivescovo di Milano, irritato che senza sua partecipazione ciò si facesse, ed in ispregio de’ suoi diritti metropolitani, li costrinse amendue colla forza delle armi a fare ammenda onorevole; Alrico depose sull’altare della basilica Ambrosiana il baston pastorale e l’anello, e li ripigliò poco stante di consenso dell’arcivescovo.
Venuto poi nel 1024 il termine della vita d’Arrigo imperatore, i principi italiani, e fra essi Manfredi ed Alrico co’ marchesi che poi si chiamarono d’Este, furono vaghi di chiamar alla corona un’altra stirpe; e prima ne fecer proferta a Roberto re di Francia, poi a Guglielmo, duca d’Aquitania. Ma questi principi conobbero il poco fondamento che si potea fare sulle promesse d’uomini che del sovrano comando erano disposti a cedere solo il nome e l’apparenza, ritenendo di fatto il potere; e però non vollero impacciarsene, onde Corrado il Salico, figliuolo di Arrigo, fu nel 1026 re d’Italia e poi imperatore; e morto Corrado nel 1039, gli succedette quietamente Arrigo il Nero, principe di parti egregie, ed a lui nel 1050 Arrigo iv, ancor fanciullo, che dovea riuscire troppo dissimile dal padre, gran persecutore della Chiesa e grande oppressore dei popoli. Ma ristringiamo il nostro dire a Odelrico Manfredi ed alla contea di Torino.
I falli che dobbiamo riferir di Manfredi appartengono tutti alla storia ecclesiastica.
Accenneremo di volo le liberalità fatte al monastero di Fruttuaria, del quale fin dal 1005 Arrigo ii gli raccomandava la protezione; la fondazione del monastero di S. Giusto a Susa nel 1027; e la ricca dote al medesimo assegnata due anni dopo; i diecimila iugeri di terra di cui Manfredi colla moglie Berta e col vescovo Alrico, suo fratello, nel 1028 gratificarono un monastero di donne che avean fondato in Caramagna; i duecento iugeri donati nell’anno medesimo ai canonici della cattedrale di Torino, chiamati allora canonici del Salvatore, ai quali cedette eziandio il castello di Santena.
Parleremo invece un po’ più distesamente del monastero di S. Solutore fondato dal vescovo Gezone alle porte di Torino, favoreggiato poi da Manfredi: della quistione che questo marchese ebbe co’ cittadini nel 1031, e del giudizio che tenne a Torino nel 1034, Eriberto arcivescovo di Milano.
L’amore della vita solitaria e penitente spingeva dopo la metà del secolo x dalle tepide rive dell’Adriatico, dalla stanza imperiale di Ravenna, un sant’uomo chiamato Giovanni Vincenzo, sulle vette dell’Alpi nostre, cinte d’orride balze e di ruine. Pare che la sua prima stanza fosse sul monte Caprario, chiamato volgarmente Moncevrari, che s’alza a considerevole altezza tra val di Susa e val di Viù. Si trasferì poscia per celeste ammonimento all’opposta parte della valle di Susa, sull’alpe acuta del monte Pircheriano; e là edificata una cappella a S. Michele, e scavatasi lì presso una grotta nel vivo sasso, attendeva a servire a Dio in orazione ed in rigorosis sima penitenza. Quando Ugone lo Scucito convertì l’umile cappella in monastero, S. Giovanni ne lodò il Signore, e molto ne aiutò la fondazione. Ma vide che quei luogo più non si conveniva ad un romito, onde tornò ai dirupi del Moncevrari. Continuò quel monte anche dopo la morte del santo ad essere abitato da’ suoi discepoli, e nel principio del secolo seguente essi furono che consigliarono il vescovo Gezone a rialzare dalle rovine in cui giacea dopo le corse de’ Saracini, la chiesa in cui si veneravano le reliquie de’ santi martiri Tebei. Il buon vescovo accolse con pronto ànimo quel consiglio, e diè mano ad eseguirlo. « C’illividiam pel dolore, egli grida nella carta di fondazione, al veder i luoghi de’ Santi martiri quasi distrutti fino al suolo.»
Rifece dunque la chiesa, edificò il monastero e lo dotò ampiamente, chiamandovi i Benedittini, a condizione che vi si apparecchiassero celle, in cui potessero convenientemente abitare i romiti che stavano sul monte Caprio, col consiglio e coll’aiuto de’ quali egli avea cominciato quel monastero. Fra i beni dati sono la corte, ossia il villaggio di Sangano, val Novellasca, Palazzolo e Calpice. Dona anche varii servi della famiglia di S. Giovanni, cioè delle famiglie affisse alla coltivazione de’ beni vescovili; soscrisse poi l’atto, e pregò i cardinali di soscriverlo, vale a dire i canonici incardinati al duomo Torinese: chè non altra è l’origine di quel vocabolo, il quale nelle chiese di Roma è divenuto cotanto illustre.
Landolfo che succedette a Gezone nel 1011 con fermò questi doni, e v’aggiunse la chiesa di S. Martino di Viù, coll’intero manso (podere), ini cui è edificata; la chiesa di Col S. Giovanni, colle villate circostanti di Bardassano, Niquidai, co’ monti e Colle valli, co’ prati, colle selve tra il torrente Sevena, il colle di Lidone ed il monte Caprio (Moncevrari).4
Nel 1031 poi Odelrico Manfredi e Berta sua moglie pigliarono la proiezione e difesa del monastero. Donarono al medesimo un orto fruttifero (braida) ed approvarono tutte le donazioni che servi od uomini liberi fossero per fare al monastero per quanto stendeasi la loro autorità ne contadi di Torino, Vercelli, Ivrea, Asti, Alba, Acqui, Albenga, Ventimiglia, Parma, Piacenza e Pavia; il che non significa certo ch’essi possedessero tutti questi comitati, ma che in tutti ritenessero vaste possessioni allodiali con sufficiente dotazione di servi per coltivarli, ed anche d’uomini liberi che li teneano a titolo di feudo o beneficio; epperò si trovavano nella giurisdizione del signor diretto.
I doni fatti da Gezone e da Landolfo al monastero di S. Solutore, non sono i primi documenti che attestino ne’ vescovi di Torino la signoria di castella e di villaggi. Già Amizone, figliuolo del marchese Arduino Glabrione, ed immediato predecessore di Gezone, aveva ottenuto dall’imperatore Ottone in un diploma con cui raffermava alla chiesa di S. Giovanni Battista, titolo del suo vescovado, tutti i beni mobili ed immobili posseduti, e fra gli altri le terre ed i villaggi di Chieri, Canova, Celle, Testona, Rivoli, Flavignasco, il castello di S. Raffaele, Ruffia, Solaro, Carignano, Pinerolo, Piobesi, Fenis, Arignano.5 Molto importanti a quel tempo erano, siccome è noto, Chieri, Pinerolo, Testona, Rivoli e Carignano, che vengono nominativamente confermate al vescovado di Torino, segno di possesso già antico. Ned erano le terre ed i villaggi nominati nel diploma i soli posseduti, apparendo dal tenor del medesimo, che l’imperatore ne nominò solamente alcune; e scorgendosi dai doni di Gezone e di Landolfo che i vescovi di Torino ne possedevano molte altre. Che poi l’antichità di questo possesso risalisse almeno al tempo degli ultimi re Carolingi, ne traggo argomento dal fatto che abbiamo narrato intorno all’anno 900 del vescovo Ammulo, della sua contesa co’ cittadini, e delle forze con cui tornando nella città da cui era stato cacciato, se ne rendette padrone distruggendo le mura e le torri. Questo fatto non si potrebbe intendere senza supporre il vescovo di Torino investito di larga podestà temporale e di molte ricchezze, il che per altra parte non è difficile a credersi se si pon mente alle prove che ci sono rimaste di ugual condizione d’altri vescovi italiani, non solo ricchi di beni, ma eziandio privilegiati e d’immunità dalla giurisdizione ordinaria dei conti, e di giurisdizion comitale su territori che possedevano; il che indubitatamente era ne’ tempi di cui parliamo già avvenuto anche in favor de’ vescovi torinesi, sebbene non ci sia giunta autentica testimonianza della originai concessione d’imperatori o di re.
La briga che Odelrico Manfredi ebbe nel 1031 co’ cittadini, gli venne per causa dell’abate di Breme. Era stato promosso a quell’ufficio un giovane monaco chiamato Odilone, il quale, di sollazzi e del grandeggiar mondano, piucchè del pastoral ministero sollecito, dispensava ai militi o nobili i beni della badia, creandosi così nuovi vassalli, e mostrando di non curarsi dell’imperatore, nè de’ suoi ministri, seguitando in ciò forse il vezzo Arduiniano.
Corrado per corregger quel male ne fece Un altro maggiore, dando quella badia in commenda ad Alberigo, vescovo di Como; mezzo sicuro di spolparla e di rovinar sempre più l’osservanza della regolar disciplina. Quando Alberigo occupò la badia, i monaci fuggirono, portando seco il tesoro, e Odilone riparò al monastero di Sant’Andrea di Torino. Venne pure in questa città Alberigo, e fece istanza ad Odelrico Manfredi, gli desse nelle mani l’abate. Manfredi temendo forse di spiacere all’imperatore, ove desse un rifiuto, fe’ di notte celatamente pigliar Odilone; ma la mattina seguente intesa dal popolo quella violenza, tutti i cittadini insiem raccolti tentarono di liberarlo a viva forza. Ma non riuscirono nel pietoso intento, perchè il marchese era ben provveduto, ed uscendo con folto stuolo d’armati, costrinse il popolo a ritirarsi. Ed ecco un altro indizio non dubbio che quel popolo stesso che meglio di cent’anni prima combatteva col proprio vescovo Ammulo, e lo costringeva a star fuori della sua residenza tre anni, quindi doveva avere un ordina mento, e capi; ordinamento e capi aveva pure nel 1031, e mostravasi insofferente d’ogni atto che avesse sembianza d’oppressione.6
Giova ancora notarlo, chi assegna la formazione de’ comuni alla seconda, metà del secolo xi, non accenna che l’ultimo atto del dramma che da due secoli all’incirca s’andava rappresentando.
Nel 1052 spegnevasi al di là dell’Alpi l’inutil vita di Rodolfo iii, detto l’Ignavo, ultimo re di Borgogna. Di questo coronato fantoccio ben si può dire che regnava, ma non governava, poiché i grandi del suo Stato, già assicurali ne’ possessi de’ loro ereditarii dominii, non gli lasciavano col titolo regio che un’ombra d’autorità. Designato a raccoglierne la successione era Corrado il Salico, imperatore, il quale nel 1054 vi si recò con un esercito di Tedeschi. Un altro esercito d’Italiani andò a raggiungerlo passando per vai d’Aosta. Tre principi illustri ne aveano il comando. Umberto dalle bianche mani, conte d’Aosta e d’altri contadi in Borgogna; Eriberto, arcivescovo di Milano; Bonifazio, duca di Toscana. Corrado superò Oddone di Sciampagna che gli contendea quel regno; ma della succession di Rodolfo raccolse solo quel tanto che Rodolfo avea posseduto, e gli potea lasciare il nome regio. Del rimanente, da quel punto l’indipendenza dei varii Stati che s’erano formati in quella monarchia, da lungo tempo sfasciata e cadente, fu sicura e senza limiti. E tra quelli Stati era principale, perchè occupava i passi d’Italia e crebbe ad alti destini lo Stato di Savoia.
Tornava Eriberto da quell’impresa poco degna di un arcivescovo; quando giunto a Torino con nobile corteggio di chierici e di vassalli, ebbe notizia d’una eresia che s’era sparsa a Monforte nelle Langhe, sede d’uomini d’illustre schiatta lombarda. Volle informarsi Eriberto della qualità delle opinioni che professavano, ed ebbe a sè uno de’ principali chiamato Girardo, uomo di mirabile ingegno e di grande eloquenza, di franco animo e sprezzator della morte. Poiché con sagaci e minute inchieste si fu persuaso che erano profondati negli errori de’ Manichei, che negavano l’autorità del papa, che non voleano essere colle proprie mogli veri mariti, che usavano straziare barbaramente i moribondi, affinchè terminando la vita fra i tormenti, schivassero le pene dell’altro mondo; mandò sue genti ad espugnar quel castello, e tutti gli abitanti, fra i quali la contessa di quel luogo, fe’ condurre a Milano, dove cercando eglino di far proseliti, e di dogmatizzare, tanti ne furono dal popolo feroce gittati sul rogo, quanti rifiutarono di rinegare le loro false dottrine.
Odelrico Manfredi, marchese di Torino, morì nel 1055, lasciando dopo di sè due femmine, Adelaide ed Immilla. Questa sposò Ottone, marchese di Suinenfurt, che fu poi duca di Svevia; ed in seconde nozze Egberto il Seniore, marchese di Brunswich. Non avendo de’ suoi matrimonii avuto prole, tornò in Piemonte, e vi morì prima del 1078. La primogenita Adelaide, a cui era destinata la successione dello Stato paterno, era maritata ad Ermanno, duca di Svevia, figliuolo dell’imperatrice Gisla, e però fratello uterino d’Arrigo iii, imperatore. Ermanno alla morte del suocero fu marchese di Torino; ma essendo nel 1038 venuto in Italia con Corrado, onde ricondurre i torbidi baroni romani all’obbedienza del papa, cadde vittima dell’epidemia che fe’ tanta strage nell’esercito imperiale, senzachè appaia di nissun atto d’autorità da lui esercitato nella contea marchionale di Torino.
Poco tardò la contessa Adelaide a passare alle seconde nozze con Arrigo, figliuolo di Guglielmo, della stirpe Aleramica, il quale pigliò similmente l’ufficio e il titolo di marchese, che dinotando superiorità militare, non poteva portarsi da Adelaide. Tre donazioni conservano la memoria di questo principe; per l’una del 29 gennaio 1042, Adelaide ed Arrigo cedettero alla chiesa cattedral di Torino le decime di vai di Susa; la seconda del 1045 fu per conferire alla canonica di Sant’Antonino nella valle Nobilense, oltramonti, la chiesa dello stesso santo posta in Sant’Agata nella valle di Susa, la qual terra pigliò poi nome di Sant’Antonino; l’ultima del 1044 contiene una liberalità al monastero di Sta Maria di Cavorre.
Poco dopo cessò di vivere senza prole il marchese Arrigo, e la contessa Adelaide, sospinta da politica necessità, aderì alle terze nozze, e la sua scelta cadde sul principe Oddone di Savoia.
Note
- ↑ [p. 178 modifica]Non assento a que’ che confondono il conte Dadone ed il marchese Arduino d’Ivrea col marchese Oddone, padre d’un altro Arduino, pure marchese, il quale Oddone, forse conte d’Alba, donò Pollenzo ai monaci di Breme, ed era figliuolo d’Arduino Glabrione. La cronaca della Novalesa, e la serie de’ documenti Arduiniani provano la necessità di distinguere due Arduini, figliuoli di padre diverso; non sarebbe per altro escluso che Dadone, padre d’Arduino re, fosse fratello d’Oddone, padre d’Arduino, che portò anche titolo di marchese. Bimane finora inviolata la serie genealogica data dal Terraneo. Non è poi meglio fondata l’opinione di quelli che creano al re Berengario ii un quarto figliuolo, chiamato Dadone, padre del re Arduino: anzi è ora esclusa da un documento trovato dal cav. Luigi Provana, nell’archivio capitolare di Vercelli, per cui si prova che Ichilda (non Richilda) moglie di Cona, o Corrado, figliuolo del re Berengario ii, era figlia d’Arduino, marchese d’Ivrea. V. Studi critici intorno alla storia del re Arduino, opera studiata e di polso, che cancella molte frivole teorie, e che risolverà parte dei dubbi manifestati dal mio dotto amico sig. Carlo Troya nel suo recente Discorso intorno ad Everardo, figliuolo del re Desiderio, ed al vescovo Attone di Vercelli (V. il Saggiatore, giornale romano, anno ii, fascio. 3).
- ↑ [p. 178 modifica]Nella lettera inedita del b. Varmondo, vescovo d’Ivrea, attribuita all’anno 998, e stampata dal chiarissimo cav. Provana negli Studi critici sopraccitati, ragionandosi de’ misfatti e della scomunica d’Arduino, si dice rebellionis arma contro regiam dignitatem commovisse. — Secundos vero milites pene omnes in perjurii crimen atrociter coegisse. Importantissima è questa testimonianza nella ricerca dell’origine dei comuni; e vi s’accorda quanto scrive nella Vita d’Arrigo imperatore Adalboldo, vescovo d’Utrecht, Cum Majoribus (Harduinus) nihil tractabat cum Juvenibus, omnia disponebat. Pertz, Monum. germ. historica, vi, 627.
- ↑ [p. 178 modifica]Così il necrologio della Chiesa di Dijon. Mabillon, Ann. ord. S. Ben v, 247.
- ↑ [p. 179 modifica]V. Provana, cap. x e xi.
- ↑ [p. 179 modifica]Gli originali sono nell’arch. del R. Economato apostolico. Nel 1080 vi Tu pennuta tra Oberto, abate di S. Solutore, ed Adalrico, giudice e visconte, figliuolo d’Arduino, e di legge salica. Diede l’abate una pezza di terra aratoria in territorio di Celle; diede Adalrico una pezza di terra aratoria in territorio di Carignano, coerente da una parte al monastero, dall’altra ad esso Adalrico, dall’altra alla terra Adaleie comitisse. Mi nasce qualche sospetto che quest’Adalrico, giudice e visconte, figliuolo d’Arduino, di legge salica, che possiede beni coerenti a que’ della contessa Adelaide, sia figlio di quell’Arduino chiamato dal Terraneo Arduino v, che era nipote di figlio d’Arduino Glabrione, e perciò fratel cugino di Odelrico Manfredi ii. Di quest’Adalrico visconte abbiamo la data della morte, e fu il 14 giugno 1080, giorno in cui morì di subito, senza poter segnare l’atto di permuta, come si nota appiè del medesimo.
- ↑ [p. 179 modifica]Storia di Chieri, tom. ii, pag. 1.