Storia di Milano/Capitolo XXIV

Capitolo XXIV

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CAPO VIGESIMOQUARTO


Battaglia di Pavia. Il re Francesco I rimane prigioniero. È condotto a Madrid. Sua liberazione. Vicende in questi tempi della lega di Francesco Il Sforza, duca di Milano, e di Girolamo Morone


Leone X, alleato di Carlo V, avea terminata la vita, siccome si è detto di sopra, nel tempo appunto in cui si otteneva lo scopo della Lega col discacciare i Francesi dalla Lombardia. Adriano VI, suo successore, nel breve suo pontificato d’un anno e mezzo, o poco più, si mostrò piuttosto sacerdote che sovrano. Clemente VII Medici, cugino di Leone X, fu creato sommo pontefice, mentre i Francesi, sotto Bonnivet, se ne ritornavano al loro paese, dopo un tentativo infelice per occupar Milano. Dovevasi ognuno promettere che questo papa mantenesse la lega; poichè ei da cardinale l’aveva formata; ma così non avvenne. Clemente VII si unì col re Francesco I, promettendogli il regno di Napoli, e ricevendo dal re la guarenzia dello Stato Ecclesiastico e della repubblica fiorentina per la casa Medici. Tutto però segretamente si fece nel tempo in cui durava l’assedio di Pavia. (1525) Frattanto il vicerè Lannoy aveva sprovveduto il regno di Napoli di soldati, i quali erano in marcia alla vôlta del Milanese; laonde il re staccò il principe Stuardo di Scozia, duca d’Albania, con ducento lance, seicento cavalleggieri e quattromila fanti, e comandògli di marciare verso Napoli per occupare quel regno; la quale sconsigliata impresa lo indebolì poscia a fronte de’ nemici, e fu una delle cagioni delle rovina della sua armata e della perdita della sua libertà. Il Lannoy non si curò di far correre dietro al duca d’Albania, e unicamente rese avvisati i comandanti de’ presidii del Napolitano per la difesa; per tal modo schivò il pericolo di perdere il Milanese col Napoletano, e poterono le forze rivolgersi tutte al soccorso di Pavia. La [p. 230 modifica]marcia de’ Francesi attraverso lo Stato pontificio, il transito delle munizioni fatto per Piacenza e Parma, possedute dal papa, svelarono tosto agl’Imperiali che il papa s’era unito col re; sebbene non apertamente si fosse dichiarato di essere lui nimico dell’imperatore Carlo V. Pensò il re di rinforzare la sua armata, ordinando che i suoi Francesi acquartierati in Savona marciassero a Pavia, senza avvertire che dovendo coteste milizie passare ne’ contorni di Alessandria, presidiata da’ Cesariani, non erano sicure nella loro marcia. In fatti Gaspare del Maino, comandante di quel presidio, fece prigioniere tutto quel corpo. Frattanto al Lannoy giunsero dodicimila Lanschinetti tedeschi, e quindi si trovò alla testa di diciottomila fanti, settecento uomini d’armi ed altretanti cavalleggieri. I dodicimila Tedeschi erano comandati da Giorgio di Frandsperg, uomo di statura colossale, di forza prodigiosa, di gran coraggio, Luterano passionato; il quale venne a quell’impresa coll’idea di far onta al papa, ed a tal fine portava seco un cordone d’oro in forma di capestro, e lo mostrava dicendo: a ogni signore ogni onore. Così mentre da malaccorto il re Francesco, coll’indebolirsi, andava preparando la propria sciagura, i nemici si rinforzavano. Al difetto di prudenza nel re si aggiungevano la trascuratezza dei capi dell’esercito, e l’indisciplina de’ soldati. Bernardo Tasso, padre dell’immortale Torquato, si ritrovava nell’armata del re di Francia, mentre era sotto Pavia, ed in una lettera al conte Guido Rangone, così gli scrive: Questo esercito mi pare con poco governo, con molta licentia, et più grande di numero che di virtù. Poca speranza gli è rimasa di poter pigliare la città, hora che i nemici si vanno avvicinando869; [p. 231 modifica]e poco dopo: questo esercito mi pare piuttosto pieno d’insolenza che di valore... Io più tosto temo che spero del successo di questa impresa; et quello che più mi fa temere è, che veggio che apertamente Sua Maestà s’inganna nelle cose più importanti, giudicando il suo esercito maggior di numero, et quel de’ nemici minore di ciò che in effetto sono... Io vedo questo campo con quel poco ordine che era quando i nemici eran lontani; nè a questa troppa sicurtà so dare altro nome che imprudentia o temerità. Guicciardini870, presso a poco, dice lo stesso: Risedeva il peso del governo dell’esercito presso all’ammiraglio; il re, consumando la maggior parte del tempo in ozio o in piaceri vani, nè ammettendo faccende o pensieri gravi, dispregiati tutti gli altri capitani, si consigliava con lui: vedendo ancora Anna di Momoransi, Filippo Ciaboto di Brione, persone al re grate, ma di picciola esperienza nella guerra: nè corrispondeva il numero dell’esercito del re a quello che ne divulgava la fama, ma eziandio a quello che ne credeva esso medesimo.

Ho procurato d’indagare come mai il duca Francesco Sforza, principe che non mancava di valore, s’accontentasse di starsene quasi ozioso nel Cremonese, mentre si disponeva il gran fatto d’armi che doveva decidere del destino dello Stato suo. L’armata cesarea era comandata dal vicerè di Napoli don Carlo Lannoy: ivi trovavasi il duca di Bourbon, ivi il famoso don Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, ivi il marchese del Vasto; ed il duca Sforza, che alla Bicocca e ad Abiategrasso [p. 232 modifica]aveva superati coraggiosamente i nemici, ora erasi limitato a sgombrare il fiume Po da ogni comunicazione co’ Francesi. Non mi è accaduto di trovare che alcuno degli scrittori avesse la medesima curiosità. Quindi o convien supporre che gl’Imperiali per gelosia e sospetto non lo bramassero, ovvero ch’egli non vedesse di sua convenienza il trovarsi in un esercito, nei suoi Stati, senza averne il comando, e senza nemmeno avere il titolo di generale al servigio di Cesare.

Ai sovradetti indebolimenti dell’armata francese aggiungasi che Sant’Angelo sul Lambro era presidiato da ottocento Francesi, sotto il comando di Pirro Gonzaga, e da ducento cavalieri. Fu preso d’assalto; e il marchese di Pescara fu il secondo che ascese le mura, ed ebbe l’abito forato da due archibugiate; la guarnigione uscinne disarmata, coll’obbligo di non servire per un mese. Casal Maggiore era occupato da’ Francesi sotto il comando di Giovanni Lodovico Pallavicino, che lo presidiava con duemila fanti e quattrocento cavalli. Alessandro Bentivoglio, alla testa di un corpo d’Italiani fece, con un fatto d’armi, prigioniero il Pallavicino, caduto da cavallo, e disperse affatto il presidio francese. Prima che si avanzasse l’armata cesarea a Pavia, conveniva, assicurarsi le spalle e non lasciar dietro i Francesi in que’ due luoghi, d’onde difficoltavano le provvisioni. Se i Francesi avessero avuta la stessa precauzione, non si sarebbero inoltrati a Pavia, lasciando presidiata Alessandria da Gaspare del Maino, il quale, siccome ho accennato pocanzi, battè e disarmò un corpo di duemila soldati, che erano in marcia venendo dalla Francia per unirsi al re. Oltre a questi primi danni, cioè al distacco del Principe Stuardo di Scozia, spedito [p. 233 modifica]verso Napoli, alla perdita di due presidii di Sant’Angelo e Casal Maggiore, alla perdita di duemila sorpresi verso Alessandria, un nuovo accidente sventurato accadde al re e forse più gravoso, cioè che quattromila soldati grigioni, che erano al di lui stipendio, se ne partirono quasi improvvisamente. Giovanni Giacomo Medici, che s’era reso signore del castello di Musso, con insidie s’era altresì reso padrone di Chiavenna, città importante dei Grigioni. Per la qual cosa con lettere della loro Repubblica vennero immediatamente chiamati i Grigioni in soccorso della patria, sotto pena di infamia e di confisca. Così l’esercito francese si ridusse di numero quasi uguale al cesareo.

Il duca di Borbone e il marchese di Pescara ricevettero frattanto il rinforzo di ottomila Tedeschi. Fecero radunare le truppe che tenevano acquartierate in Cremona, Lodi ed altri luoghi; formarono un corpo di ventiduemila fanti, oltre i cavalli, e per Sant’Angelo marciarono a Pavia, e si collocarono vicini e di fronte al campo francese, cosicchè le guardie avanzate nemiche si parlavano. Il Guicciardini871 scrive che Pescara s’avviò per la battaglia sotto Pavia con settecento uomini d’arme, settecento cavalli leggieri, mille fanti italiani, e più di sedicimila tra Spagnuoli e Tedeschi. Ivi si mantennero per venti giorni, mettendo in allarme e inquietando i Francesi, ut primum metu ac sollicitudine vexarent, deinde cum vanum timorem consuetudine remisissent, securiores offenderent, ubi visum esset vero praelio lacessere872. Il re Francesco stava ben munito nel suo campo, situato nel parco, il quale, essendo cinto di mura, non dava accesso a’ Cesarei, [p. 234 modifica]se non per alcune porte ben presidiate da’ corpi avanzati francesi. Sperava il re che, stando a fare la guerra difensiva, e guadagnando tempo, l’armata imperiale, mancante di stipendio e mal provveduta di tutto, dovesse sciogliersi da sè medesima. Infatti i comandanti cesarei temevano lo stesso, e perciò deliberarono di commettersi alla fortuna d’una battaglia873. Allora i soldati erano mercenari e liberi. Nessun bottino potevano sperare i Francesi debellando i Cesariani, mancanti di tutto. Per lo contrario sommo profitto avevano in vista i Cesarei battendo i Francesi, il re, i principali signori del regno, tutti radunati con immense ricchezze e pompe, e ciò oltre il profitto del riscatto di sì illustri prigionieri. I Francesi avevano la presenza del loro re ad animarli, l’ambizione di segnalarsi sotto de’ suoi sguardi, ma l’armata non era per la maggior parte di Francesi; v’erano Tedeschi, Svizzeri, Italiani, Spagnuoli, ed oltre a ciò, i più erano affatto mercenari e gregari. Perciò la condizione de’ Cesarei era migliore d’assai. Il quartiere del re stava a Mirabello, delizia de’ duchi di Milano. Il campo era cinto di terrapieno con fossa, fuori che da un lato, che si credeva bastantemente munito col muro del parco. Il marchese di Pescara, che da ogni canto osservava la posizione del re, s’avvide che poco custodivano i Francesi quella parte che credevano più sicura pel riparo del muro. Se il muro si gettava a terra, il che non era difficile, era aperto l’adito ad impadronirsi di Mirabello.

Confermatisi il duca di Borbone e il marchese di Pescara nella risoluzione di avventurare la battaglia, passarono di concerto col comandante di Pavia Antonio Leyva, e si fissò il giorno di san Mattia, 24 febbraio, giorno di gala per essere l’anniversario [p. 235 modifica]della nascita di Carlo V. Frattanto negli otto precedenti giorni gli Imperiali incessantemente, anche di notte, diedero l’allarme ai Francesi, e col favore dello strepito di trombe e de’ timpani guastarono per qualche tratto le mura del parco, sicchè alla minima scossa cadessero poi. Queste mosse ingannarono i Francesi, che credettero uno de’ molti falsi allarmi anche l’attacco importante del giorno 24. Per essersi gl’Imperiali accostati così d’appresso al campo francese, il te tenne un consiglio nel quale Luigi d’Ars, il Sanseverino, il Galiot de Genouillac, il maresciallo di Chabannes, il maresciallo di Foix, e il famoso la Tremouille opinarono che fosse da abbandonarsi il blocco di Pavia e ritirarsi a Binasco; ma prevalse il Bonivet, secondato dal Montmorenci, da San Marsault e da Brion, i quali adularono l’inclinazione del re, che già aveva promulgato per l’Europa, che o prendeva Pavia, o vi periva874.

L’ammiraglio Bonnivet ebbe il comando di quella giornata. Il campo francese, esteso più di tre miglia, era postato in guisa che impediva l’ingresso da ogni parte in Pavia, [p. 236 modifica]comunicava col parco di Mirabello, e dominava vantaggiosamente la campagna. Il duca d’Alençon col corpo di riserva era a Mirabello; la prima linea era comandata dal maresciallo di Chabannes, il corpo di battaglia lo era dal re. Il marchese di Pescara si determinò di entrare pel parco di Mirabello, e di soccorrere Pavia, con questa mira che, se i Francesi scendevano dal campo per difendere il parco, perdessero il vantaggio della loro posizione, ed egli dêsse loro battaglia; se non dipartivansi, facil cosa era il superare il duca d’Alençon, ed alla vista de’ Francesi portare tutto il soccorso a Pavia. Tre ore prima del giorno il marchese di Pescara si mise in ordine per attaccare il re. Divise l’esercito in più corpi. Il primo lo diede ad Alfonso d’Avalo, marchese del Vasto, di lui nipote, composto di cinquemila fanti e cinquecento cavalli. Il secondo a Giorgio Frandsperg, di quattromila fanti. Un corpo di riserva fu affidato al nipote del vicerè di Napoli. Il vicerè Lannoy comandava un corpo di cavalli. Un altro corpo di cavalli lo comandava il duca di Borbone. Altri minori drappelli dispose il Pescara, i quali al cominciare l’attacco si trovarono alle spalle dei Francesi, alle diverse porte del muro del parco. Il marchese avea fatto porre a tutti i suoi una camiscia sopra le armi, perchè nella oscurità della notte si potessero conoscere fra di loro: stratagemma imitato nella Slesia nel 1757. Prima dell’alba del 24 febbraio, mentre si avanzavano a Mirabello, gl’Imperiali fecero de’ finti attacchi con molto fragore d’artiglieria, acciocchè non si sentisse quanto accadeva a Mirabello. All’aurora si videro gli Spagnuoli entrati nel parco per un’apertura assai larga, fatta la notte precedente con tal destrezza e silenzio, dice il Bugati875, che appena da’ nemici fu udito il rumore. Il marchese di Pescara, innanzi a tutti, colla maggior parte della fanteria italiana e spagnuola, diede dentro tra le guardie francesi; il duca di Borbone, guidando la sua cavalleria, s’innoltrò da altra parte del parco verso i quartieri del re cristianissimo, ma trovò che il re e i suoi erano marciati contro il Pescara. Don Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, s’impadronì di Mirabello. Un suo distaccamento era già alle porte di Pavia, ma Brion, mandato dal duca d’Alençon, lo battè. Galiot de Genouillac, che si era reso illustre nella battaglia di Marignano, profittò del momento, e collocò una poderosa artiglieria contro quel vano delle mura del parco per dove entravano gl’Imperiali, la quale talmente gli scompigliò, [p. 237 modifica]che disordinatamente si ricoverarono in un luogo basso per essere salvi da’ colpi del cannone. Il re, invece di combattere contro il marchese del Vasto, per tal modo isolato, sconsigliatamente uscì dal vano, e si diradò per la campagna con tutta la gendarmeria; così l’artiglieria del Genouillac dovette cessare per non offendere il suo re. Gl’Imperiali s’avvidero dell’errore da questi commesso. Il duca di Borbone co’ Lanschinetti, il marchese di Pescara cogli Spagnuoli, il vicerè Lannoy cogl’Italiani attorniarono il re. Il marchese del Vasto venne a prenderlo alle spalle. Il Leyva vigorosamente uscì da Pavia, lasciando il magnifico e valoroso Matteo Beccaria alla difesa della città. Allora il maresciallo di Chabannes accorse a soccorrere il re, e se gli pose al fianco destro col corpo ch’egli comandava. Il duca d’Alençon formò un’ala sinistra al re. Fra il re e Chabannes v’erano le Bande Nere, cinquemila, tutte veterane tedesche, che avevano combattuto a Marignano. Il duca di Suffolk Rosabianca le comandava. Così fra il re e il duca di Alençon vi era un corpo di diecimila uomini svizzeri comandati dal colonnello Diespach. Un corpo di Lanschinetti, guidati dal duca di Bourbon, sconfisse totalmente le Bande Nere. Il conte di Vaudemont, il duca di Suffolk rimasero estinti sul campo. Borbone si rivolse poi contro il corpo di Chabannes, che rimaneva staccato. Il bravo Clermont d’Amboise cadde morto, e il maresciallo di Chabannes terminò di vivere nel modo seguente. Egli ebbe ucciso sotto di sè il cavallo. Vecchio com’era, cercò di combattere a piedi; ma Castaldo, luogotenente del Pescara, lo fece prigione. Castaldo conduceva in luogo sicuro il suo prigione; un capitano spagnuolo, per nome Buzarto, osservò Chabannes, il più bel vecchio del suo secolo, nobile, magnifico, e riconobbe [p. 238 modifica]che doveva essere un signore di distinzione, di cui diverrebbe lucrativo il riscatto; pretese di essere associato al Castaldo, che lo ricusò; e il Buzarto con una archibugiata gettò morto il maresciallo di Chabannes, dicendo: ebbene, non sarà dunque nè mio nè tuo876. Così terminò i suoi giorni questo illustre francese, che s’era trovato a Fornovo nel 1495, ad Agnadello nel 1509, a Ravenna nel 1512, dove comandò, morto il duca di Nemours, a Marignano, alla Bicocca, ec. Egli aveva il soprannome di gran maresciallo di Francia.

Il re faceva prodigi di valore, e si riconosceva da un manto di tela d’argento (cotte d’armes), e dal cimiero fregiato di copiose e lunghe piume. Di sua mano egli uccise Castriotto, marchese di Sant’Angelo, ultimo discendente degli antichi re d’Albania, che contava per suo avo paterno Scanderbeg. Il re si battè lungamente con un gentiluomo della Franca Contea, per nome Andelot, e lo ferì nella faccia. Il marchese di Pescara con mille e cinquecento archibugieri Baschi piombò sulla gendarmeria del re. Costoro, scaricato l’archibugio, con mirabile disinvoltura si nascondevano, caricavano, e ritornavano a ferire. Il re, per coglierli, dilatò i suoi gendarmi; e gli archibugieri, penetrati e sparsi per entro, in meno d’un’ora rovinarono il corpo invincibile della gendarmeria francese. La Tremouille cadde ferito nel cranio e nel cuore. Il gran scudiere Sanseverino cadde moribondo. Guglielmo di Bellai Langey, vedendolo cadere, scese da cavallo per dargli soccorso: non ho più bisogno d’alcun soccorso, disse [p. 239 modifica]il moribondo, pensate al re, e lasciatemi morire. Luigi d’Ars, il conte di Tournon caddero morti. Il conte di Tonnerre appena potè essere riconosciuto fra i morti, tante erano le ferite della sua faccia! Il barone di Trans stavasene all’ala sinistra sotto il comando del duca d’Alençon, assai malcontento di dover trovarsi nella inazione. Il figlio suo unico era nel corpo del re, e, dopo d’aver combattuto ed esaurite le sue forze, si ritirò presso del padre. Il barone di Trans gli chiese dove fosse il re: Nol so, rispose, ansante e grondante di sudore, il figlio. Va e sappilo, disse il padre severamente, arrossici di non lo sapere. Il figlio Trans s’ingolfa fra i combattenti, s’accosta al re, e per un colpo d’archibugio cade a’ suoi piedi.

Il duca Carlo d’Alençon, primo principe del sangue, in vece di porgere soccorso al re, si ritirò colla sua ala di cinquecento cavalieri877, e fu il primo a vituperosamente fuggire878; se non fu maliziosamente (dice il Bugati)879, come tennero alcuni, aspirando egli ad esser re, morto che fosse il re Francesco. Tagliò il ponte di legno che poco di sotto a Pavia era fabbricato a San Lanfranco, acciocchè non l’inseguissero i Cesarei. Perciò molti Francesi, ivi giunti sulla speranza di passarvi sicuri all’altra sponda, dovettero avventurarsi ai gorghi del fiume e sommergervisi; poi v’erano a forza spinti dai fuggitivi, che colla fiducia stessa correvano sulle loro tracce, e vi si affogavano880. Gli Svizzeri, vedendo scoperto [p. 240 modifica]il loro fianco sinistro per la ritirata del duca, e credendosi a tradimento sacrificati all’odio dei Tedeschi di Frandsperg e Sith, che marciavano loro incontro, non vi fu più modo di tenerli. Diespach disperatamente si scagliò solo a farsi uccidere dai soldati di Frandsperg. Abbandonato il re a pochi, perirono intorno di lui il maresciallo di Chaumont, d’Amboise, Estore di Bourbon, il visconte di Lavedan, Francesco conte di Lambesc, fratello del duca di Lorena e del conte di Guise, ed una moltitudine di valorosi cavalieri. Il Bastardo di Savoia, gran maestro di Francia, vi morì. Il maresciallo di Foix, col braccio fracassato e mortalmente ferito, galoppava furiosamente per rinvenire l’ammiraglio Bonivet, al quale attribuiva il disastro, per traforarlo col braccio che gli rimaneva, e morire contento d’aver vendicato la Francia; ma perdette tanto sangue, che cadde, e fu portato a Pavia, dove morì nella casa della contessa di Scaldasole. Bonivet, vedendo perduta ogni speranza, si scagliò quasi inerme fra i Lanschinetti del duca di Borbone, e si fece uccidere. Il duca di Borbone bramava di far prigioniere Bonivet, e vedendolo steso morto esclamò: Ah misero, tu sei cagione della rovina della Francia e della mia!

Il re, tenuto sempre di vista onde farlo prigione, rimase solo in faccia de’ nemici, avendo un parapetto di morti avanti di sè. Raggiunto in un prato paludoso da un colpo di fucile, gli cadde finalmente sotto il cavallo. Egli aveva due ferite in una gamba. Caduto che fu, venne attorniato da un nembo di soldati; [p. 241 modifica]Tedeschi e Spagnuoli se lo disputavano. Il re, ferito come era anche in fronte, combattendo a piedi, si difendeva colla mazza di ferro. Per buona sorte sopragiunse il Lannoy, al quale egli si arrese prigioniero; e fu opportuno il di lui arrivo, poichè altrimenti correva pericolo il re di essere fatto in pezzi, tanta era la voglia che ciascuno aveva di possedere un tal prigioniero. Due cavalieri spagnuoli, Giacomo ossia Diego d’Avila e Giovanni Urbieta Biscaino, conosciuto chi egli era, lo aiutarono a salire a cavallo; ma il d’Avila gli tolse la spada, e l’Urbieta la collana del toson d’oro881. Il re rimase spogliato di quanto aveva di prezioso. La di lui sopraveste fu squarciata in cento parti, e i pennacchi [p. 242 modifica]l’elmetto reale furono spaccati in minimi frammenti, gloriandosi ciascuno di portare una memoria di così illustre presa. Don Carlo Lannoy, smontato da cavallo, baciò rispettosamente la mano al re inginocchiandosi; altretanto fecero i primi signori che ivi sopragiunsero. Questa memorabile battaglia non durò due ore; e rimasero in essa estinti novemila del campo francese. I feriti e prigionieri furono il re di Francia, Enrico d’Albret, re di Navarra, il gran Bastardo di [p. 243 modifica]Savoia, il principe di Lorena, l’Ambricourt, Bonavalle, San Polo, Galeazzo e Bernabò Visconti, Federico Gonzaga da Bozzolo, Girolamo Aleandro, vescovo di Brindisi e nunzio del papa, e varii altri signori. Degli Imperiali solo mille e cinquecento rimasero morti, con due soli capitani di conto, cioè don Ugo di Cardona, e Ferrante Castrioto, marchese di Sant’Angelo.

Il re cristianissimo con molto rispetto fu condotto all’alloggiamento del vicerè don Carlo Lannoy a San Paolo; dove, medicate le ferite, scrisse alla duchessa d’Angoulême, sua madre, quella breve e terribile lettera: Signora, tutto è perduto, fuor che l’onore. Il duca di Borbone presentò al re magnifiche vesti per disarmarsi; ed al pranzo il vicerè Lannoy lo servì, presentandogli il catino da lavar le mani, il marchese del Vasto versò l’acqua, il duca di Borbone lo sciugatoio. Il Borbone lasciava cader le lagrime, mirando prigioniero il re. La sera il re volle che Lannoy e Vasto cenassero seco. Pescara venne ad osservarlo senza pompa e con modeste maniere, e piacque al re sopra ad ogni altro. Gli si concessero i suoi paggi, si ricuperarono abiti, camiscie e molte cose rappresagliate, che i soldati medesimi generosamente presentarono, e fra queste una coppa d’oro, in cui soleva bere il re, ed una [p. 244 modifica]croce di oro che papa Leone gli aveva posta al collo in Bologna, e così venne nobilissimamente trattato come se fosse stato, non che libero, ma nella stessa sua reggia882. Tre giorni stette nel monastero di San Paolo il prigioniero Francesco I; indi il 28 di febbraio, fu condotto nella fortezza di Pizzighettone, e collocato nella Rocchetta, col gran maestro di Francia, il duca di Montmorenci, ove dimorò sino al 18 maggio. Così il Grumello883; il quale aggiugne che ne’ giorni che ivi stette, sintanto che venissero da Spagna gli ordini, il re giuocava a varii giochi et maxime al ballono. Il Muratori, ne’ suoi Annali, ne accerta altresì che al re Francesco furono concessi per sua compagnia venti de’ suoi più cari, scelti da lui tra quelli ch’erano rimasti prigionieri884. Una vittoria così compita, con tanta strage dell’esercito francese, e poca perdita degl’Imperiali, è troppo naturale che producesse quanto afferma il Bugati885, vale a dire che tutto il campo francese restasse in preda de’ soldati, et più de gli Spagnuoli, per cotal vittoria fatti sì ricchi et sì insolenti, quanto altra fiera milizia che più fosse in Italia, minacciando apertamente di cacciar di Stato il duca di Milano, se presto non gli soddisfaceva [p. 245 modifica]di quante paghe dovevano avere, e che i Francesi abbandonassero Milano in un momento. Anzi v’è chi scrisse che il grido di questa vittoria fu tale, che nel giorno medesimo restò libera dai Francesi, non solo la città, ma tutto il ducato. Giunta a Madrid la gran nuova della presa del re cristianissimo e della disfatta terribile del suo esercito, il re augusto Carlo V non permise che si facesse pubblica allegrezza, ed ei medesimo seppe contenersi a segno, che meritò l’ammirazione: nullam ex more gratulationem publice fieri passus est, nec ipse laetitia exultavit, sed gaudium moderate pro sua gravitate tulit886. Il Tegio riporta la traduzione della lettera che la reggente Luisa, madre del re, scrisse a Carlo V in quella occasione, ed è come segue; A monsignor mio buon figlio l’imperatore Carlo - Monsignore mio buon figlio, dopo che io ho udito e saputo da questo gentiluomo presente, portatore di questa mia, la fortuna la quale è occorsa a monsignore il re mio figlio, io rendo grazie a Dio di questo ch’egli sia capitato nelle mani di quel principe del mondo che io più amo, sperando che la imperiale Maestà vostra ne debba tenere quel buon conto per lo mezzo del sangue, confederazione e lignaggio il qual è tra voi e lui, et in caso che questo avvenga (come io tengo per certo) ne seguirà un gran bene et universale a tutta la cristianità dall’amicizia e riunione di voi due; e perciò, mio signore e figlio, io vi supplico che lo abbiate per raccomandato, e che in questo mentre comandiate ch’egli sia ben trattato come il grado vostro e suo lo richiede, e commettiate che [p. 246 modifica]egli sia servito in tal maniera ch’io possa spesso intendere del suo ben stare e della sua sanità, e così facendo, voi vi obbligherete una madre, la quale d’ogni ora voi avete così nomata: et ancora vi prego che ora voi vi mostriate padre per affezione, come io a voi madre per dilezione. Da San Giusto in Lione, il terzo giorno di marzo 1525. - La vostra humil madre Lovisa. Fra i prigionieri fatti in questa battaglia di Pavia, il principe di Bozzolo Federico Gonzaga, corrotte le guardie, si pose in salvo. Il conte di San Polo, principe del sangue, creduto morto, venne mutilato da un soldato imperiale col taglio di un dito per levargli un anello; il dolore gli fece dar segni di vita, e potè palesare al soldato chi egli era, il quale per godere solo del prezzo del riscatto, lo custodì incognito, lo guarì dalle sue ferite, e l’accompagnò in Francia. Il marchese di Pescara avea comprato dai militi cesariani il re di Navarra per settemila scudi, e lo teneva suo prigioniero nel castello di Pavia, cercando settantamila scudi per il riscatto. Ma i fratelli Lonate, gentiluomini pavesi, colle scale di corda, lo liberarono; indi lo scortarono con cavalli e servi sino in Francia. Essi perdettero la patria; il re diede loro nella Francia con che vivere887.

Tanta felicità delle armi cesaree eccitò ben presto negli animi di quasi tutti i principi d’Italia un ragionevole timore d’essere l’uno dopo l’altro oppressi e soggiogati dal vicino esercito; ond’è che, dopo varii ripieghi, specialmente progettati tra Clemente [p. 247 modifica]VII ed i Veneziani, stimò più opportuno il pontefice di stabilire una concordia cogli Imperiali per mezzo di Gian-Bartolomeo da Gattinara, ministro di Cesare in Roma, restando conchiuso quest’accordo, il 1° di aprile 1525, pubblicato poi nel dì 10 di maggio dello stesso anno. Le condizioni principali di questo trattato, nel quale fu compreso Francesco Sforza qual duca di Milano, furono la scambievole difesa del ducato di Milano e degli Stati pontificii, compresa Fiorenza coi Medici che vi dominavano, e la contribuzione di centomila ducati da darsi dai Fiorentini, con che le truppe cesaree partissero dai quartieri occupati nelle terre di Parma e Piacenza. I Veneziani, a’ quali era stato lasciato il luogo d’entrarvi, intese le mire del re inglese di collegarsi colla regina, madre del re prigioniero, sospesero di determinarsi ad alcun partito. Frattanto gl’insorti lampi di speranza per la tranquillità dell’Italia lasciavano luogo a qualche angustia d’animo ne’ ministri cesarei sulla sicurezza del re Francesco in Pizzighettone. Infatti il Lannoy ragionevolmente sospettava che il re da Pizzighettone non venisse o tolto per subornazione di qualche generale, o per tumulto de’ soldati, mal pagati e vinti dalla umanità del re, o per effetto di qualche unione de’ principi italiani, e singolarmente dello Sforza, il quale poteva acquistarsi un sicuro godimento dello Stato col liberare Francesco I, o coll’opera del duca di Borbone, che potevasi riconciliare con tale beneficio. Forse questi sospetti del vicerè Lannoy accelerarono nell’animo di Carlo V la risoluzione di volere al più presto in Ispagna tradotto il re prigioniero. Lannoy, vedendo il re impaziente della sua liberazione, colse l’opportunità di persuadergli che in un’ora di colloquio coll’imperatore [p. 248 modifica]si sarebbe terminato ciò che portava degli anni, trattato ministerialmente. Quindi fecegli desiderare di andare in Ispagna. Tutto fu segretamente concertato, fingendosi di condurlo a Napoli per custodia più sicura. Venne destinato a scortare il re in Ispagna, a preferenza del marchese di Pescara, a cui principalmente dovevasi la insigne vittoria di Pavia. Preferenza ingiuriosa, e che perciò produsse nel Pescara una palese malcontentezza di Cesare, ed un’inimicizia aperta col Lannoy, da cui poscia derivarono gravi conseguenze. Pertanto, sul fine di maggio, scrive il Muratori888, scortato esso re da trecento lance e da quattromila fanti spagnuoli, fu menato a Genova, dove, imbarcatosi con dieci galee genovesi ed altretante franzesi, ma armate dagl’imperiali, in compagnia del vicerè Lanoy, arrivò poscia a Madrid; dopo però di essere stato per qualche tempo rinchiuso nella fortezza di Xsciativa nel regno di Valenza, dove i re di Arragona anticamente custodivano i rei di Stato, siccome è concorde testimonianza degli storici. Il capitano Alarçon fu assegnato custode del re, da quando, prigioniero, fu tradotto a Pizzighettone, fino al termine del suo destino in Madrid. La permanenza del re in Pizzighettone fu di settantanove giorni, quanti se ne contano dal giorno 28 febbraio sino al 18 maggio, in cui accadde il suo trasporto in Ispagna889.

Il papa Clemente VII, poco fidando nella precaria convenzione di Roma, cominciò a temere che Carlo V, coll’occasione di venire ad essere incoronato, non s’impadronisse della Romagna, e fors’anco [p. 249 modifica]della stessa Roma, facendo rivivere le antiche pretensioni; il che non poteva avere ostacolo, singolarmente colla dominazione ch’egli avea del regno di Napoli. Il papa anche temeva per Firenze, la quale era già divenuta una signoria della casa Medici. I Veneziani erano pure atterriti da una tanto prevalente grandezza dell’imperatore, e temevano che non cercasse di rivendicare le città della terra ferma, altre volte costituenti parte del ducato milanese. In queste circostanze, era in Roma ambasciatore di Francia Alberto Pio, conte di Carpi, signore di nascita illustre, al quale i Cesarei avevano usurpato la contea; uomo di molta sagacità ed eloquenza, e pratico de’ politici affari. Questi, con intelligenza della duchessa d’Angoulême, madre del re prigioniero, gettò i primi fondamenti d’una lega per opporsi alla dominazione dell’imperatore nell’Italia. Tutto si maneggiò segretamente. Il papa ed i Veneziani non bastando, si tentò di far entrare nella lega il re d’Inghilterra Arrigo VIII. Gl’interessi del re sarebbero stati quelli di unirsi anzi con Carlo V, e mentre era il re di Francia di lui prigioniero, smembrare la Francia, togliendone la Provenza in favore del duca di Borbone, e la Brettagna ed altri Stati pretesi dalla corona d’Inghilterra, invadendoli contemporaneamente Arrigo stesso. Così veniva depressa per sempre la potenza dei rivali francesi, ed assicurato il dominio dell’Italia a Cesare. Ma le pubbliche mire cedettero anche allora, come suole comunemente accadere, alle passioni personali. Era il re Arrigo VIII sdegnato contro di Cesare, perchè, avendo Carlo V sposata, d’anni sette, la principessa Maria d’Inghilterra, sua figlia, non la volle da poi per moglie, preferendole Isabella, [p. 250 modifica]figlia del re di Portogallo, e, come dice Sepulveda890: Propter injuriam neglectae filiae, quam Carolo citra legittimam et maturam aetatem cum spopondisset, non ille quidem neglexit, sed justis de causis Isabellae, Portugalliae regis Emmanuelis filiae, posthabuit891. Quindi è che Arrigo s’unì col papa, co’ Veneziani, co’ Francesi per far argine alla troppo estesa potenza dell’imperatore. Fattasi la lega, che si volle chiamare Santa, per esservi alla testa il papa, cominciò questa col dare al re prigioniero consigli veramente poco santi, benchè utili per quel momento: Nullam fidem, nullum jusjurandum, nullos obsides dare recuset, modo se vindicet in libertatem; facile enim fore jurisjurandi veniam a pontifice maximo, principe conspirationis, qui hanc ipsam veniam ultro deferat, impetrare892: così il succennato Sepulveda893.

Carlo V venne in chiaro della lega, per avere i collegati tentato di trarre dal loro partito Fernando d’Avalos marchese di Pescara, vincitore del re Francesco, il quale a quel tempo era mal contento [p. 251 modifica]dell’imperatore, perchè, senza riguardo ai segnalati servigi da lui resi alla corona, avea confidato al Lannoy la custodia e la trasmissione a Madrid del re di Francia. Anzi si era lasciato credere al Pescara, che da Genova il re si dovesse trasportare a Napoli; nè egli seppe il destino del re, se non quando lo seppe ognuno. Questa diffidenza e questa ingratitudine di Carlo V, avevano lacerato l’animo sensibile del marchese di Pescara. Il marchese era Italiano; e la nazionale gelosia tra Spagnuoli ed Italiani fu la cagione di un mistero inopportuno ed ingiurioso. Perciò Girolamo Morone, gran cancelliere del ducato, ed intimo consigliere del nostro duca, uomo di molta eloquenza, dignità e dottrina894, fu dai collegati incaricato ad aprire discorso col marchese di Pescara. Sepulveda ne riferisce il transunto895. Ricordò il Morone al Pescara, che a gran proposito era l’occasione; che tutti i principi italiani erano pronti a far causa comune per la patria; che altro non mancava se non un capitano d’animo, di cuore, di sperienza, di celebrità, degno d’essere posto alla testa di un’armata; che il marchese di Pescara era quegli che ciascuno eleggeva; che il servigio [p. 252 modifica]ch’egli avrebbe reso all’Italia, oltre la gloria, non sarebbe stato senza degna mercede, poichè, scacciati i barbari, nè rimanendo più alcun dominio straniero in Italia, ed assicurato Francesco Sforza e stabilito libero duca di Milano, il premio dell’invitto marchese sarebbe stato il possedimento del regno di Napoli896. Non è dubbio, prosiegue il Guicciardini897, che tali consigli sarebbero facilmente succeduti, se il marchese di Pescara fosse in questa congiunzione contro Cesare proceduto sinceramente. Il marchese di Pescara ascoltò la proposizione con apparente favore; soltanto mostrò d’avere avanti gli occhi la fortuna e la potenza di Carlo V, e le difficoltà da superarsi. Si protestò interessatissimo per la salute della patria. Per lo che il Morone gli svelò il piano della lega già fatta fra il papa, i Veneti, i Fiorentini, lo Sforza, il re Arrigo d’Inghilterra ed il regno di Francia. Il Pescara destinò di tenerne più comodamente discorso in casa, attesochè questo primo cenno se gli era dato sulla spianata del castello di Milano. Ma [p. 253 modifica]diffidando egli di un’impresa dipendente da tanti interessi combinati, e facili a sciogliersi, concepì il piano di comparire fedele all’imperatore, ed ottenere in premio il ducato di Milano, col pretesto della fellonia di Francesco Sforza898. All’intento quindi di aver le prove dell’ordita trama, nascose Antonio de Leyva dietro i parati della stanza, ed ivi insidiosamente indusse il Morone a palesargli il piano della lega. Comunicato il fatto a Cesare, questi lodò la condotta del marchese di Pescara, il quale, per non romperla col Morone, mostrossi pronto, soltanto che venissero tolte le inquietudini ch’egli provava internamente col tradire l’imperatore che lo stipendiava; al che si tentò dal papa di rimediare. Pontifex, fallacibus quibusdam, sed a juris specie ductis argumentis, Marchioni persuadere nititur id facinus ab ipso pie atque sancte patrari posse899. Gli ordini di Cesare volevano che venisse imprigionato il Morone per avere giuridicamente le prove della lega, e soprattutto contro il duca Francesco Sforza. In questo mentre si ammalò il marchese in Novara, e chiamò a sè il Morone, nella persona del quale si può dire che consistesse l’importanza di ogni cosa900. Il Morone, che se ne diffidava, e di cui aveva detto al Guicciardini non essere uomo in Italia nè di maggiore malignità nè di minor fede del marchese di Pescara, volle un salvo condotto da lui; il quale poichè ebbe ottenuto, in compagnia di Antonio da Leyva cavalcò a Novara il giorno 14 di ottobre 1525. Visitato che ebbe il marchese e congedatosi da lui, mentre il Morone salutava il Leyva nell’anticamera per andarsene, questi gli disse: venite a casa con noi; il Morone ringraziò dell’invito; il Leyva ripigliò: voi ci verrete, essendo prigioniero dell’imperatore901. In tutto questo fatto il Pescara si disonorò. Egli adoperò l’industria d’uno sbirro, anzichè mostrare l’animo nobile e franco d’un illustre capitano. Proposizioni di cotal fatta o non si dà luogo a farle, o, fatte, si accettano, o, dispiacendo, la lealtà vuole che diasi avviso di abbandonare il progetto, o di doverlo altrimenti [p. 254 modifica]palesare. Carlo V non ebbe torto diffidando del Pescara. Chi è capace di servire da sbirro, è capace di mancar di fede902. Il marchese di Pescara morì poi il 3 dicembre di quell’anno, di morte sospetta903. Il duca Francesco Sforza spedì a Novara il senatore Jacopo Filippo Sacco per ottenere la libertà del suo gran cancelliere, ch’egli dichiarava innocente verso l’imperatore; ma il Pescara fieramente rispose, che Morone era reo, e che reo era non meno Francesco Sforza. Datosi principio agli esami, nei quali, per via di tormenti, si venne in chiaro di ogni disegno de’ congiurati904; e poscia da Novara tradotto il Morone a Pavia, quivi in presenza del Pescara e del Leyva furono compiti i processi; la risultanza de’ quali fu che il Morone fosse condannato a perdere la testa. Nelle memorie manoscritte del Moroni trovasi l’apologia ch’ei fece di sè medesimo colla data del 25 di ottobre, undici giorni dopo la sua carcerazione. Mostra dapprima che, non essendo egli nè vassallo nè suddito all’imperatore, ma bensì del duca di Milano, non poteva riconoscere nel Pescara e nel Leyva veruna legittima giurisdizione sopra di sè. Poi, ricordando d’essere suddito non solo, ma gran cancelliere del duca, dichiara che senza una perfidia manifesta e una infame violazione de’ suoi doveri, ei non poteva svelare i segreti del suo naturale sovrano. In seguito espone un prospetto della vita propria e della condizione presente degli affari pubblici; e con tanta energia, con tanta evidenza si difese, che, giunto a morte il marchese di Pescara, ordinò nel testamento all’erede marchese del Vasto di supplicare Carlo V per la liberazione del Morone. Ma il tardo buon [p. 255 modifica]volere del Pescara poco avrebbe giovato a scampare il Morone dalla morte, se non fosse venuto in pensiero al duca di Borbone, tornato di recente in Italia, di mettere a prezzo il di lui riscatto; onde gli offerse la libertà mediante il pagamento di ventimila ducati. L’irregolarità del giudizio e l’improvvisa proposta fecero credere al Morone che tutto fosse una finzione, ma sentendo che erasi già eretto il palco per la esecuzione della capitale sentenza, pagò, e fu liberato dal carcere. La carica però di gran cancelliere venne trasferita nel conte di Landriano, Francesco Taverna.

Questa pericolosissima sciagura del Morone ebbe origine dallo sdegno per le esorbitanti vessazioni con cui l’armata imperiale smungeva lo stato di Milano. Francesco Sforza non aveva che il nome di duca, sebbene l’imperatore avesse preso le armi per lui. L’imperatore avea posto un tributo di centomila ducati sul Milanese, indi chieste somme esorbitanti allo Sforza per l’investitura905. Inoltre il duca, vedendo vessati sopramodo i [p. 256 modifica]suoi sudditi dall’esercito cesareo, avea fatto un accordo col marchese di Pescara di pagargli altri centomila ducati, con che, represse tutte le estorsioni, si prendesse egli la cura di provvedere l’esercito di viveri e di stipendi906.

La somma di queste disavventure ed oppressioni [p. 257 modifica]del duca Francesco si fu che, giovandosi il marchese di Pescara ed Antonio de Leyva dei progetti manifestati da Girolamo Morone, fecero, in un congresso tenuto in Pavia, sentenziare di fellonìa il duca Sforza, dichiarato sovrano del Milanese l’imperatore Carlo V. In conseguenza della quale dichiarazione il marchese di Pescara fece domandare allo Sforza il castello di Milano, quello di Cremona ed altri, presidiati dal duca. Il povero duca appena cominciava a riaversi da una malattia mortale, quando gli venne fatta sì terribile intimazione dall’abate di San Nazaro. Ricusò egli di dare al Pescara i due nominati castelli: bensì accordò gli altri, e disse che se l’imperatore voleva anche quelli, e a lui fosse constato, non solamente i castelli, ma lo Stato eziandio e la vita gli avrebbe dato; ch’egli era sempre stato ed attualmente era innocente e fedele a Cesare, e sperava che tale sarebbesi fatto conoscere. Si lagnò del suo destino, che, bambino ancora, lo aveva portato esule lontano dalla patria, colla prigionia e rovina del padre; poi, ricuperato appena lo Stato nella sua adolescenza, il re di Francia ne lo aveva balzato. Finalmente, fatto prigione il re, mentre credeva veder pacifici i sudditi e ristorati dai sofferti lunghi danni, mentre credevasi tranquillo, ecco una mortal malattia, ecco una calunnia a rovinarlo. A malgrado di siffatte querele il marchese di Pescara volle entrare in Mlano. Lo Sforza chiedeva soltanto che si aspettasse la risposta [p. 258 modifica]di Sua Maestà cesarea; che se quella comandava che egli fosse privato dello Stato, era pronto a tutto cedere. Il Pescara ricusò di aspettare, mandò tremila Tedeschi ad assediare il castello, ove il povero duca s’era ricoverato, e da mille altri Tedeschi e cinquecento Spagnuoli fece occupare Cremona907. I nostri cronisti proseguono a dire che il duca, assediato nel castello di Milano, faceva spesse sortite con grave danno de’ Cesariani, mentovando un curioso cambio di prigionieri: il duca rimise liberi cinquanta Lanschinetti per cinquanta vitelli908.

In queste turbolenze e desolazioni dello Stato di Milano, la disegnata lega pensava seriamente a prevenire il pericolo di divenire bersaglio delle vendette di Cesare, e Cesare stesso non ne ignorava gli sforzi ed i pericoli; laonde, per allontanare il turbine che andavasi formando, rivolse l’animo a trarre il pontefice in una nuova alleanza per distaccarlo della contraria; il che tuttavia non ebbe effetto per volersi troppo pretendere da ambe le parti. Uno però degli accordi più importanti a quest’oggetto fu il trattato conchiuso della liberazione del re Francesco, mosso l’imperatore a ciò fare dal vedere collegati contra di sè tutti i principi d’Italia. Ma l’affare, per la esorbitanza delle condizioni, andò lento. Perciò, scrive il Muratori909, esso re, mal sofferendo questa gran dilazione, e forse più per non averlo mai l’imperatore degnato di una visita, cadde gravemente infermo, sino a dubitarsi di sua vita. Allora fu che l’augusto Carlo, non per generosità, ma per proprio interesse, andò a visitarlo, e di sì dolci parole [p. 259 modifica]e belle promesse il regalò, che a questa sua visita fu poi attribuita la di lui guarigione. È qui da notarsi col Guicciardini che Carlo V operò col suo prigioniero, come Ponzio Sannita co’ Romani alle Forche Caudine. Non l’oppresse nè lo trattò con generosità. Conveniva o lasciar libero il re Francesco colla generosità di un gran monarca, scortandolo con pompa ed onore sino a’ suoi confini, senza condizione alcuna e senza fasto insultante; ovvero conveniva tenerlo prigioniero, e frattanto invadere la Francia, staccarne porzione pel duca di Borbone, invitare Enrico VIII a staccarne altretanto; indi lasciare sul rimanente del regno un re liberato dalla prigionia e tributario dell’imperatore. Carlo V prese il partito di mezzo, che riuscì, come sempre, il peggiore. Vi fu chi gli consigliò il primo generoso spediente; ed il parere di quell’accorto politico fu ricusato come un’idea romanzesca dalla pluralità del consiglio di Stato. La condizione de’ monarchi è tale, che debbesi ascrivere a molta lode dell’imperatore Carlo V che avesse uno nel suo consiglio capace di pronunziare una tale opinione. In vece si ritenne prigioniero il re; ebbe questi a soffrirne due malattie, dovette sopportarne molte umiliazioni, sottoscrisse un trattato vergognoso, e a Carlo V non lasciò poi che una carta inutile, scritta da un inimico irreconciliabile. (1526) Nel giorno adunque 17 di gennaio (epilogherò questa grand’epoca colle succose parole del Muratori)910 dell’anno 1526, e non già di febbraio, come ha il Guicciardino e il Belcaire, suo gran copiatore, seguì in Madrid la [p. 260 modifica]pace fra que’ due monarchi, con aver ceduto911 il re a Cesare tutti i suoi diritti sopra il regno di Napoli, Milano, Genova, Fiandra ed altri luoghi, e con obbligo di cedergli il ducato della Borgogna con altri Stati, per tacere tante altre condizioni, tutte gravosissime al re cristianissimo. Il gran cancelliere Mercurino da Gattinara, siccome quegli che detestava sì fatto accordo, ben prevedendo quel che poscia ne avvenne, con tutto il comando e l’indignazione di Cesare, non volle mai sottoscriverlo, allegando non convenire all’uffizio suo l’approvar risoluzioni perniciose alla corona. Il tempo comprovò per vero il suo giudizio. Fu poi, nel principio di marzo (altri vogliono il giorno 21 di febbraio) condotto il re ai confini del suo regno, e rimesso in libertà; e consegnati per ostaggio a Carlo V il Delfino e il secondogenito del cristianissimo, finchè fosse, entro un tempo discreto, data piena esecuzione al concordato, con obbligarsi il re di tornare personalmente in prigione quando non si eseguisse.