Storia di Milano/Capitolo VII
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Della rovina di Milano sotto l’imperatore Federico I
Il nome di Federigo I imperatore, comunemente conosciuto col soprannome di Barbarossa, non è ignoto a veruno anche del popolo di Milano. Ognuno sa che Milano fu distrutta da lui. Molte favolose tradizioni, come accade, si frammischiarono colla verità. Federico Barbarossa però si ricorda come un barbaro. L’epoca di questo imperatore è stata funesta. Siamo stati avviliti; ma non vili, nè senza gloria. I Romani ebbero due epoche di somma umiliazione; le Forche Caudine e l’invasione de’ Galli. Noi avemmo Uraja e Federico. Gli autori di Germania di que’ tempi ne fanno un eroe; i nostri ne fanno un tiranno. L’unico partito ch’io prendo sarà quello di appoggiare il mio racconto singolarmente agli autori tedeschi che scrivevano in que’ tempi; e credere di Federico I tutto il bene che ne dicono i Milanesi, e tutto il male che ne dicono i Tedeschi. I primi autori che mi serviranno di guida, saranno Ottone, vescovo di Frisinga, figlio di Leopoldo Pio, marchese d’Austria, e zio paterno dello stesso imperatore Federico; il quale, come esercitato, quanto in que’ tempi potevasi, nelle lettere latine, scrisse i fasti del nipote, da lui animato a farlo: l’altro sarà il canonico di Frisinga Radevico, il quale, per ordine dello stesso imperatore, continuò que’ fasti dopo la morte del vescovo Ottone. Ivi si legge la lettera che l’imperatore diresse al vescovo suo zio, animandolo a scrivere e dandogli una traccia dei suoi fatti nell’Italia; ivi pure si vede che il continuatore Radevico, dice di avere scritto per obbedienza al desiderio del defunto vescovo: Ejus jussu, pariterque divi imperatoris Friderici nutu. Sicuramente essi non hanno propensione per i Milanesi. Il terzo sarà il canonico di Praga Vincenzo, che accompagnò il suo vescovo in quella spedizione d’Italia, e fu presente alla maggior parte degli avvenimenti accaduti in Milano. La cronaca di Vincenzo fu data al pubblico per la prima volta nel 1764 dal padre Dobner, nel primo tomo dell’opera intitolata: Monumenta Historica Boemiae, stampata in Praga. Gli altri autori tedeschi, pubblicati nelle raccolte del Pistorio Nidano, del Menckenio, dello Struvio, dell’Oefalio, mi serviranno pure di guida. Farò uso ancora de’ nostri Italiani Morena e Sire Raul, autori tutti contemporanei; ma unicamente pe’ fatti che non possono essere contrari all’imperatore; sebbene il Morena sia più imperiale di alcun altro. Sarò costretto a registrare più le parole altrui, che a scrivere le mie; ma i lettori che temono lo spirito di partito e che bramano di conoscere quanto si può la verità de’ fatti accaduti, non mi sapranno mal grado, se pongo sotto a’ loro occhi piuttosto i pezzi interessanti degli autori originali che scrivevano le cose dei loro tempi, anzi che un sempre incerto racconto negli argomenti contrastati. Questo è il solo partito che conviene allorchè s’entra a narrare una porzione di storia controversa.
(1152) Corrado, poco dopo il suo ritorno da Terra Santa, morì in Bamberga l’anno 1152, e fu eletto re de’ Romani il di lui nipote Federico Barbarossa. Egli allora aveva trentadue anni. Pieno di ardor militare e di un carattere fermo e impetuoso, sembra che il suo primo pensiero sia stato quello di sottomettere le città del regno d’Italia, e di ridurle ad una reale obbedienza, dallo stato indipendente a cui si erano poste da centoventi anni e più. Albernardo Alamano e Omobono Maestro, due cittadini lodigiani, si portarono alla dieta di Costanza, e gettaronsi a’ piedi di Federico, implorando il suo aiuto contro de’ Milanesi, i quali non cessavano di opprimere i Lodigiani, anche presso le diroccate mura della loro patria distrutta. Il re Federico destinò Sicher per suo ministro a Milano, con un decreto in cui domandava che si cessasse di opprimere Lodi. I due Lodigiani ritornarono alla patria, per cui avevano operato senza commissione. Credevano di essere accolti come salvatori dei cittadini, e non ritrovarono che biasimo, strapazzi ed ingiurie; poichè il timore de’ Milanesi era il solo sentimento che restava a quegl’infelici, dopo il peso di lunghe e gravissime sciagure. Venne a Milano Sicher, e presentò il decreto del re. I consoli milanesi stracciarono la carta, la calpestarono; e a stento il regio messo potè sottrarsi al furore del popolo e fuggirsene di notte. Dopo un tale affronto Federico si determinò di venire in Italia alla testa di un’armata. I nemici de’ Milanesi non potevano mancare di unirsegli contro di Milano; la quale, come dice il panegirista e parente di Federico: Inter caeteras ejusdem gentis civitates primatum nunc tenet... non solum ex sui magnitudine, virorumque fortium copia, verum etiam ex hoc, quod duas civitates vicinas in eodem situ positas, idest Cumam et Laudam, ditioni suae adjecerit. Cominciò Federico a devastare alcune nostre terre. Erano amici nostri i Tortonesi, i Piacentini, i Cremaschi ed i Bresciani. Federico assediò, prese e distrusse Tortona; e dai Pavesi fu accolto con solenne pompa. Così il re Federico nella sua lettera riferita da Ottone di Frisinga: Destructa Terdona, Papienses, ut gloriosum post victoriam triumphum nobis facerent, ad civitatem nos invitaverunt. Col vocabolo però di distruzione non si può intendere già, che fossero atterrate le case della città, ma deve intendersi soltanto la demolizione delle fortificazioni, e lo smantellamento de’ ripari che la munivano. Poichè nello stesso anno in cui venne distrutta Tortona, la repubblica di Milano scrisse ai Tortonesi la lettera seguente: Consules, populusque mediolanensis, consulibus derthonensibus, omnique populo, salutem - Cuncto romano Imperio notum fore credimus, urbem vestram, quam de caetero confidenter nostram dicemus, contra fas ac pium, injuria penitus, destructam, a nobis audacter nec non viriliter restauratam esse, murisque, omnium nostrorum invicem sudore constructis, circumdatam. Tria itaque civilia signa ad perennem memoriam ad vos dirigimus. Tubam videlicet aeneam, qua populos in unum convocetur, vetrum significantem incrementum. Album vexillum cum cruce Domini Nostri Jesu Christi, rubeum colorem habens per medium significans a manibus inimicorum post multas ac magnas angustias vos esse liberatos: in quo solem et lunam designari jussimus. Sol Mediolanum, luna Derthonam significat; lunaque lumen a sole suum trahit, omne a Mediolano Derthona suum trahit esse. Haec duo mundi sunt lumina, haec duo regna. Sigillum, quo vestrae signentur chartae, continens in se duas civitates Mediolanun et Derthonam, designans Mediolanum cum Derthona ita esse unitos, ut separari numquam possint amplius. Millenus centenus quinquagesimus annus quintus erat Christi, cum lapsa, refecta fuit. I Milanesi innalzarono la circonvallazione di Tortona con somma rapidità e con sommo ardire, nel tempo in cui Federico si portò a Roma, e fu incoronato imperatore dal papa Adriano IV. Questa riparazione di Tortona dovette irritare sempre più l’animo dell’imperatore; al quale inutilmente avevano già in prima offerto i Milanesi considerabili somme di oro per accontentarlo. Non si trovò forte Federico allora abbastanza per cimentarsi contro di Milano, ovvero gli affari l’obbligarono a portarsi in Germania. Prima però di abbandonare l’Italia, nelle vicinanze di Verona pubblicò un decreto in cui spogliava i Milanesi della zecca, dei telonei, e di ogni podestà: e ciò in pena d’avere distrutto Lodi e Como, e oppressi que’ cittadini, con contumacia agli ordini imperiali: per lo che li condannò al bando dell’Impero. La sentenza di questo anatema non cagionò male alcuno ai Milanesi. Essa era concepita con frasi che provavano l’inimicizia passionata dell’imperatore. Leggevasi che i delitti imputati ai Milanesi fossero enormi, commessi con animo sacrilego, empiissimamente, con iniquità, malizia e pertinacia. Ciò non di manco, appena allontanato che fu Federico, i nostri ritornarono al loro abituale mestiere: batterono i Pavesi; insultarono e vinsero i Novaresi; presero Vigevano, e ne demolirono il castello. Tanto erano poco disposti a lasciar liberi i Lodigiani e i Comaschi già sottomessi! Pretesero anzi dai Lodigiani un giuramento positivo di fedeltà; e sull’opposizione che i Lodigiani fecero, volendo essi porvi la condizione che salvo fosse il primo giuramento di fedeltà da essi già prestato all’imperatore, e non accordandolo i nostri, vennero saccheggiate e abbruciate le povere abitazioni dei Lodigiani, ed essi costretti a ricoverarsi presso dei Cremonesi. Per tal modo erano nemici nostri i Lodigiani, i Comaschi, i Pavesi, i Novaresi, i Vigevanaschi e i Cremonesi.
Frattanto però che stavamo rendendoci più odiosi ai vicini ed al lontano nemico, la sola cosa ragionevole che femmo, si fu di munire d’un valido fossato, ossia d’una linea di circonvallazione tutta la città; la quale, sebbene avesse tuttavia in piedi le antiche mura di Massimiliano, ristorate dall’arcivescovo Ansperto due secoli e mezzo prima, nondimeno, per l’accresciuta popolazione doveva avere molte abitazioni esternamente adiacenti alle mura medesime. Questo fossato è precisamente quello per cui ora scorre il canale del Naviglio, e così con chiarezza ognuno può capire qual fosse il giro delle antiche mura, che ora è indicato dalle chiaviche, da noi chiamate cantarane, e quale quello del fossato, che visibilmente anche oggidì circonda la città. Di questo fossato ne parla il continuatore di Ottone da Frisinga Radevico, inimico de’ Milanesi, con questi termini: Mediolanenses autem, utpote viri bellicosi et strenui, civitatem suam magnis fossis circumdederunt, et imperatori audacter et viriliter restiterunt; e della terra cavata nel fare la fossa se ne formò il parapetto nel luogo che anche presentemente conserva il nome di Terraggio. Convien dire che queste fortificazioni fossero assai ben fatte; poichè vedremo che non vennero mai superate colla forza; e che, perduta che fu la città, ebbe somma cura il vincitore di vederle distrutte. Venne in Italia l’imperator Federico alla testa di un’armata poderosissima, la quale conteneva quasi tutte le forze della Germania. Basti il dire che aveva sotto di lui a bloccare Milano Ladislao re di Boemia, Corrado duca di Rotenburg, Lodovico conte palatino del Reno, Federico duca di Svevia, Enrico duca d’Austria, Alberto conte del Tirolo, Ottone conte palatino di Baviera, l’arcivescovo di Colonia Federico, Arnaldo arcivescovo di Magonza, Hellino arcivescovo di Treveri, Wikmanno arcivescovo di Magdeburg, il duca di Zaringhen, e altri principi sovrani. (1158) La venuta di questa terribile armata accadde l’anno 1158. È strana la cerimonia che l’imperator Federico volle premettere alle sue operazioni militari. Prima di innoltrarsi nel Milanese fece intimare alla città un termine perentorio a presentare le discolpe, se ne aveva. Non volle dare un gastigo senza una sentenza, nè una sentenza senza un giudizio, nè un giudizio senza una citazione. Vennero i legati di Milano a questa formalità. L’eloquenza e i doni furono inefficaci; e la sentenza dichiarolli pubblici nemici. Così, pagando questo facile tributo alla manìa del secolo, che in Italia singolarmente aveva riscaldati gli animi nello studio del Codice e delle Pandette di Giustiniano, rese sacra in certo qual modo la vendetta e interessate più che mai le città nostre nemiche a favorire la rovina di Milano. Poich’ebbe data Federico la sentenza, si rivolse al Milanese, e, affacciatosi a Cassano per passar l’Adda, trovò il ponte così bene presidiato dai Milanesi, che non ardì superarlo. Gl’Imperiali tentarono il guado verso Corneliano: alcuni perirono nel fiume; ma però un buon drappello di militi si postò sulla sponda destra del fiume. Per lo che i nostri che trovavansi alla custodia del ponte, dovettero abbandonarlo, per non vedersi a un tempo stesso assaliti di fronte e al fianco; e si ricoverarono in Milano. L’esercito imperiale s’incamminò a passare sul ponte, il quale si ruppe, non sappiamo se a caso, con qualche danno dell’esercito. Questi avvenimenti, anche minuti, meritano luogo nella storia; poichè fanno conoscere che la guerra non si faceva con un cieco impeto, ma con arte e consiglio anche in que’ tempi. Un errore però commisero allora i nostri, e fu quello di collocare un presidio nella torre dell’Arco Romano, di cui ho data notizia nel capitolo primo. Quella mole, fabbricata dai vincitori romani fuori del recinto per dominare la città, e fondata sopra quattro enormi pilastri e quattro arcate, doveva atterrarsi da una città che aspettava un potentissimo esercito nemico. Un presidio così isolato non poteva nè difendersi nè reggere, soltanto che sotto vi si fosse collocata una catasta di legna e postovi il fuoco. Gl’imperiali, ben presto cominciando a rompere i pilastri, costrinsero gl’infelici situati tanto incautamente ad arrendersi, e dalla cima poi di quella gran torre, gl’imperiali, colla pietrera, scagliarono incessantemente de’ sassi a danno ed incomodo inevitabile di coloro che stavano alla difesa della porta Romana. L’imperatore pose il suo quartiere verso la Commenda di Malta, che allora era la magione de’ Templari. Il re di Boemia pose il suo a San Dionigi. L’arcivescovo di Colonia alloggiò verso San Celso. Di contro a ciascheduna porta della città vi si postò un principe; e si circondò la città con un esercito di centomila uomini; ovvero, come dice lo storico nostro contemporaneo Sire Raul, di quindicimila cavalieri, e innumerevoli fantaccini. A tutte queste terribili forze della Germania, dalla quale erano venuti quasi tutti i sovrani alla testa de’ loro sudditi armati, si unirono le forze di quasi tutte le città di Lombardia; e il canonico di Praga Vincenzo, che vi era presente, nomina Pavesi, Cremonesi, Lodigiani, Comaschi, Veronesi, Mantovani, Bergamaschi, Parmigiani, Piacentini, Genovesi, Tortonesi, Astigiani, Vercellesi, Novaresi, d’Ivrea, di Padova, d’Alba, di Treviso, d’Aquilea, di Ferrara, di Reggio, di Modana, di Bologna, d’Imola, di Cesena, di Forlì, di Rimini, di Fano, d’Ancona e di altre città ancora, che tutte avevano mandate le loro milizie a combattere contro di noi. Al comparire di tante forze i Milanesi stavano armati, tranquillamente rimirandole dalle loro fortificazioni: Stabant armati super vallum, nihil omnino strepentes; dubium, principis advenientis aspectus utrum hanc reverentiam, et hujus silentii disciplinam, an metum universis incusserit, dice Radevico, lib. I, cap. XXXII. Una tanto spaventosa unione di forze non si impiegherebbe al dì d’oggi per acquistare una città presidiata da soli cittadini. Un esercito assai minore basterebbe, e coll’assedio, ovvero con un impetuoso assalto se ne renderebbe padrone; ma allora la polve per anco non era conosciuta (la più antica memoria della polve ascende sino alla pubblicazione dell’opera: De nullitate Magiae, in Oxford, fatta da Rugiero Bacone circa l’anno 1260 cioè quasi un secolo dopo i tempi de’ quali tratto; e il più antico uso della polve nella guerra seguì l’anno 1346 nella battaglia di Crecy, come ci attestano Larrey e Mezerai. Il re d’Inghilterra Eduardo scompigliò i Francesi con cinque o sei cannoni; ciò accadde più d’un secolo e mezzo dopo Federico). Troppo era ardua impresa il venire a cimento contro gli assediati, i quali, dalla sommità del terrapieno, scacciavano nella larga fossa gli aggressori prima che ad essi potessero nemmeno accostarsi, e perciò: Divisis, ut dictum est, inter principes exercitus portis Civitatis, singuli eorum festinare, parare, sudibus, palis aliisque propugnaculis castra munire, propter improvisos hostium incursus, decertabant. Neque enim vineis, turribus, arietibus, aliorumque generum machinis tantam civitatem attentandam putabant. Sed longa potius obsidione fatigatos ad deditionem cogi, vel si foras propter fiduciam multitudinis erupissent, proelio superatum iri. Si aspettò adunque che il tedio e i maneggi inducessero i Milanesi alla resa, e non ardì Federico di sottometterli colla forza. Questi fatti, trasmessici da un Tedesco, nemico del nome italiano, e panegirista dell’imperator Federico, provano abbastanza che Milano in quel tempo era una repubblica, piccolissima per la sua estensione, ma di una forza e di un ardimento meravigliosi; e se ella avesse avuta tanta sapienza, quanto ardire e robustezza, forse la storia posteriore d’Italia sarebbe più simile alla romana. Lo storico nostro Sire Raul ci parla di varie scorrerie che i Milanesi fecero su i nemici, col rappresagliar ai medesimi molti cavalli: Interea milites Mediolani egrediabantur de civitate, et auferebant scutiferis exercitus roncinos, et tantos abstulerunt, quod roncinus quatuor solidis tetriolorum vendebatur; e il Radevico, che scrisse i fasti dell’imperator Federico per comando di lui, e in conseguenza non è mai sospetto di parzialità per i Milanesi, descrive varie sortite da essi fatte; ed una singolarmente caduta sopra il conte palatino del Reno, e sul duca Federico di Svevia: Apertis portis, cum pugnacissimis egressi, disjectis custodibus, usque ad jam dictorum heroum castra excurrunt, oppugnant, sauciant. Alemanni, ubi hostes adventare senserant, inopinata re, ac improvisa primo perculsi (l’affare era di notte) alter apud alterum formidinem simul, et tumultum facere: deinde alius alium appellare, hortari, arma capessere, venientes excipere, instantes propulsare: clamor permixtus hortatione, strepitus armorum, etc., e conchiude che, accorsovi poi il re di Boemia coi suoi, e così resasi più vasta l’azione, i Milanesi, non potendo reggere a tanti, ritornarono nella città. Questo fatto, altrimenti in parte, lo descrive la cronaca del canonico Vincenzo da Praga, che si legge nel libro del P. Gelasio Dobner. Secondo detto cronista, la sortita fatta dai Milanesi non fu di notte, ma circa horam vespertinam... fit pugna ex utraque parte: fortissimi caeduntur milites, nec hi vincuntur nec illi. Videns autem praedictus princeps se eis sufficere non posse, ad Regem Bohemiae plurimos mittit nuncios, rogans ut ei sua subveniat militia; dice poi che il re accorse co’ suoi, e piombò addosso ai Milanesi: Mediolanenses pro libertate adversariis suis fortissime resistunt; ex utraque, parte fortissimi caeduntur milites. A vespertina hora usque ad crepusculum durat praelium. Mediolanenses tandem, plurimis amissis, et captis, Bohemorum ictus non valentes sustinere, inter muros se retrahunt, quos Bohemi victores, usque ad ipsas portas caedentes, insequuntur. Interea nox praelium dirimit. Questo autore era presente, quindi il di lui racconto pare più verisimile; poichè di notte non poteva tentarsi un’operazione, quando si combatteva, come allora, in mischia. Altra uscita fecero i Milanesi per testimonianza dello stesso autore tedesco e panegirista dell’imperatore Federico, contro il duca d’Austria, che s’avanzava per attaccare una porta della città: Mediolanenses quippe, molitiones nostrorum praesentientes, ignominiam judicabant, si pares, imo plures multitudine, minori animo venientibus non occurrerent: e allora pure furono respinti. La più fortunata azione ce la descrive lo stesso Radevico, quando uscirono i Milanesi contro una schiera di mille volontari, comandati dal conte Ekeberto di Butene, che, dopo un ostinato conflitto, vennero fugati coll’uccisione del conte e di varii altri nobili imperiali. Osserva però lo stesso Radevico, come dalla porta che era bloccata dall’imperatore (ed era quella del Buttinugo, ora detto Bottonuto, e il conte Giulini la crede posta al ponte dell’Ospedale) i Milanesi non ardirono mai di presentarsi, o per timore o per riverenza verso la persona dell’imperatore: Sed nec ad portam, ubi militia principis obsidionem celebrabat, excursus facere, dubium an metu, an reverentia imperatoris cohiberentur. Tentarono gl’imperiali di prendere la città di assalto, e potè loro riuscire di porre il fuoco ad una porta ed al bastione vicino, combustibile, perchè composto di fascine e travi, che rassodavano la terra e la munivano al di fuori; ma furono vigorosamente respinti, e il colpo andò a vuoto. Ciò nondimeno fa meraviglia, come dopo un mese di blocco la città si rendesse; e non è facile il persuaderci, come questa dedizione fosse allora cagionata dalla fame e dalle malattie, siccome varii scrittori asseriscono, appoggiati al testimonio Radevico. Non è da credersi che i Milanesi da lungo tempo prevenuti dell’odio dell’imperatore, e che con prodigioso dispendio ed ardimento avevano premunite le abitazioni colla linea di circonvallazione, avessero preparato così poco ne’ magazzini, da penuriare dopo di un mese; nè è da credersi che un morbo contagioso ponesse tanta desolazione da obbligare in quattro settimane alla dedizione una città non ancora offesa da macchina o assalto nemico; tanto più che di questa supposta pestilenza, la quale avrebbe dovuto comunicarsi al campo nemico, nessuna menzione se ne fece poi; e il canonico Vincenzo di Praga, che era presente a questi avvenimenti, non scrive nè della fame nè d’altra malattia, se non che: Foetor cadaverum intolerabiliter ex utraque parte omnes cruciabat exercitus ita quod jam plurimi plurimis cruciabantur aegritudinibus. L’autore medesimo ci avverte che il patriarca d’Aquileia Peregrino, il vescovo di Praga Daniele, il vescovo di Bamberga Everardo aprirono i discorsi di pace co’ Milanesi, e Radevico ci attesta che l’autore di questa dedizione de’ Milanesi fu il conte Guido di Biandrate; eccone le parole: Hujus auctor negocii dicitur fuisse Guido comes Blanderatensis, vir prudens, dicendi peritus, et ad persuadendum idoneus. Is, cum esset naturalis in Mediolano civis, hac tempestate tali se prudentia et moderamine gesserat, ut simul, quod in tali re difficillimum fuit, et curiae charus, et civibus suis non esset suspiciosus. Questo conte Guido di Biandrate, per testimonianza del conte Giulini, era generale della milizia de’ Milanesi. La maggior parte del Novarese era sua, ed esposta alle invasioni degl’imperiali. Il carattere e la fede di questo conte, anche prima in un fatto co’ Pavesi, si resero soggetto di dubitazione, e sembra che, comandando i Milanesi, li disponesse per essere battuti. L’imperatore poi sempre se lo ebbe caro, l’adoperò in molte commissioni, creò arcivescovo di Ravenna suo figlio, e fu perfino trascelto, insieme col cancelliere imperiale, per obbligare gl’infelici Milanesi, esuli dalla patria, a sborsare nuovi tributi. Posta tutta questa serie di fatti, io credo che, senza pericolo di oltraggiare indebitamente la memoria di lui, sospettar si possa aver egli sacrificata la patria alla personale ambizione. I patti della resa furono: 1) I Lodigiani e i Comaschi nel governo civile saranno indipendenti dai Milanesi; 2) i Milanesi giureranno fedeltà all’imperatore; 3) fabbricheranno un palazzo imperiale; 4) pagheranno novemila marche d’argento; 5) daranno ostaggi; 6) i consoli saranno eletti dai Milanesi, ma approvati dall’imperatore; 7) nel palazzo imperiale risederanno i legati cesarei, e giudicheranno le liti; 8) si restituiranno i prigionieri; 9) saranno dell’imperatore la zecca e le regalìe; 10) saranno assoluti dal bando imperiale i Milanesi, tosto che dai Cremaschi sieno pagate centoventi marche; 11) eseguito ciò, l’imperatore partirà fra tre giorni, e tratterà da amico i Milanesi e le cose loro; 12) i Milanesi eseguiranno i loro patti con buona fede, quando non siavi impedimento legittimo, ovvero il consenso cesareo non li dispensi; 13) potranno i Milanesi imporre una colletta per pagare la somma convenuta, e chiamare in contributo quei che solevano, eccetto i Lodigiani e i Comaschi, e alcuni del contado del Seprio, i quali, poco prima, avevano giurato fedeltà all’imperatore. Così Milano si rese, il giorno 7 settembre 1158, all’imperatore Federico.
Questo avvenimento non fu veramente nè di gloria all’imperatore nè di biasimo a Milano. Con un’armata immensa, atta a conquistare un regno, doveva certamente prendersi una città abbandonata, e sola in mezzo a tanti e sì potenti aggressori. Nè l’imperatore, scortato di tanti e sì poderosi mezzi, allora mostrò quel vigore militare che caratterizza un gran generale. Non pose assedio, non attaccò le fortificazioni, non usò dell’impeto, ma con mezzi industriosi, e probabilmente colla seduzione del comandante, acquistò la città. Questo avvenimento pure ci mostra quanto imprudente sia stata la scelta del conte Guido, che i Milanesi vollero avere per loro generale. Si trovano, è vero, delle anime nobili, più sensibili alla gloria che a qualunque altro bene presente, capaci d’un generoso entusiasmo che faccia loro trovare il massimo interesse nelle azioni virtuose; ma furono sempre mai rare, e ne’ secoli barbari singolarmente. In ogni tempo poi imprudentemente si pone un uomo nell’alternativa o di essere un eroe, o di sacrificarci. Se la capitolazione pose Milano nella dipendenza, però l’imperatore riconobbe nella città una esistenza civile con quest’atto medesimo, perchè capitolò, e perchè si obbligò a partirsene, e lasciò il reggimento della città ai consoli; nè proibì ai Milanesi il governo della loro città, o la facoltà della pace e della guerra. Se la città fosse stata resa suddita, si sarebbe posto un conte a governarla a nome dell’imperatore, si sarebbe abolita la nuova magistratura de’ consoli nata colla Repubblica; e si sarebbe espressamente proibito di contrarre mai più leghe o far guerre, come da un secolo e più s’andava facendo. L’articolo della zecca è pure meritevole di osservazione. Ho già accennato che di monete battute in Milano prima di Federico non ve ne sono, se non col nome dell’imperatore o re d’Italia; che le monete della Repubblica mancanti del nome del sovrano hanno l’immagine di sant’Ambrogio colla mitra, ornamento che prima di Federico non fu generalmente in uso. Dopo gli Ottoni, dei quali abbiamo le monete, non ho altre monete della nostra zecca, che di Enrico, non ben sapendosi se del primo, secondo, terzo o quarto; ma nè dei Corradi nè di Lottario II non ne ho; nè alcuno ne ha pubblicate; e perciò sembra verosimile che da molti anni la zecca di Milano fosse oziosa; appunto perchè la nuova Repubblica non osasse di sottrarsi interamente da ogni protezione dell’Impero coll’omettere il nome augusto nel conio, e nemmeno volesse espressamente confermarsi dipendente col riporvelo. Conservo bensì alcune monete dell’imperatore Federico coniate in Milano, e sono pubblicate in più opere. Così quel sovrano, richiamando a sè la moneta, ravvivò anche nel conio la soggezione dalla quale ci eravamo col favore dei tempi sottratti.
Poichè fu sottomessa Milano, l’imperatore radunò una dieta in Roncaglia. Ivi, ricorrendo molti per farvi giudicare le liti, quell’Augusto, se crediamo a Radevico, diceva: Mirari se prudentiam Latinorum, qui cum praecipue de scientia legum glorientur, maxime legum invenirentur transgressores; quumque sint tenaces justitiae sectatores, in tot esurientibus et sitientibus injustitiam evidenter apparere. Se quell’Augusto avesse riflettuto che lo studio delle leggi si fa per acquistare onori e lucro, e che questo desiderio non esclude i vizii dell’animo; che il raffinamento medesimo nell’interpretare le leggi debb’essere una fecondissima sorgente di litigi; che in una nazione ricca ed ingegnosa vi debbon essere più controversie che in una più povera e indolente; non avrebbe parlato con derisione degl’Italiani, perchè, studiando molto le leggi di Giustiniano, erano in molte liti imbarazzati. Cesare, Ottaviano Augusto e gli altri Romani non deridevano i vinti. Il grande Ottone si mostrò pure abitatore del mondo, come lo sono le anime grandi. Le antipatie nazionali sono minute opinioni del volgo. In ogni secolo e presso di ogni nazione le anime nobili sempre furono al disopra della popolare invidia, ingiusta per lo più o fomentata da una meschina politica. Cercano esse indistintamente il vero merito, e si pregiano di onorarlo ovunque lo trovino; mirano la terra come la patria del genere umano, e gli uomini una famiglia, divisa in buoni e malvagi. Un sovrano poi, che è il padre dei suoi popoli, non può avere piccole gelosie di fazione. Federico mancò di politica. Dovevano accorgersi i Lodigiani, i Pavesi, i Cremonesi, i Comaschi e gli altri che l’imperatore non era punto affezionato nè agli Italiani nè ad essi. La guerra fatta ai Milanesi certamente non aveva per oggetto la loro felicità, liberandoli dall’oppressione; ma, profittando delle nostre discordie, cercava di sottometterci. È vero che con una pomposa formalità aveva Federico, il giorno 3 di agosto dello stesso anno 1158, consegnato ai consoli lodigiani in Monteghezzone un vessillo, e data loro la proprietà di quello spazio alla sponda dell’Adda per fabbricarvi, siccome fecero, la nuova città di Lodi; ma l’imperatore con questo dono non perdeva cosa alcuna; e le città alle quali in quella dieta prese tutte le regalìe, per formare a se medesimo un tributo annuo di trentamila marche d’argento, perdevano assai. Più accortamente avrebbe operato quell’Augusto, se, dopo di aver vinto, colla moderazione e colla clemenza si fosse proposto di far amare il suo governo; forse avrebbe lasciato a’ suoi successori un regno fedele e tranquillo, fondato sull’interesse medesimo de’ popoli governati, i quali avrebbero naturalmente preferita la pace sotto di una moderata monarchia, alla turbolenta indipendenza, alle stragi, all’incertezza che da lungo tempo li rendevano infelici, Ma è più facile il vincere che il saper godere della vittoria; ed è più facile il carpire la fortuna, che il convertirla in propria stabile felicità. L’incauta condotta dell’imperatore gettò i semi di molte sciagure funeste ai popoli d’Italia; funeste all’Impero medesimo; perchè, dopo le miserie di una seconda guerra, potè bensì opprimere i malcontenti, ma rovinò il suo Stato, e impresse un tal ribrezzo per la soggezione, che le città giunsero poi a liberarsene interamente, e col fatto si resero indipendenti. Questo errore in politica fu allora tanto più grande, quanto che il sistema feudale somministrava bensì all’imperatore un’armata combinata per una spedizione; ma non gli lasciava mezzo di avere un corpo di truppe costantemente assoldate e acquartierate nell’Italia per mantenersela soggetta.
Nella dieta che tenne l’imperatore in Roncaglia, simulò di essere interamente amico de’ Milanesi, e come dice il canonico di Praga Vincenzo: Mediolanenses in suum vocat consilium, quomodo urbes Italiae sibi fideles habeat quaerit, qui ei dant consilium, quod eos quos per civitates Italiae sibi fideles habet, per suos nuncios, eos sibi suas constituat potestates... quod imperator laudans, usque ad tempus huic rei competens in corde suo recondit. I Milanesi, appoggiati alla fede di un trattato che lasciava loro il governo dei consoli, e l’elezione, soltanto da approvarsi dal sovrano, non sospettarono che un consiglio pronunziato con candore e con impegno di corrispondere alla confidenza di quell’Augusto, dovesse cadere a loro detrimento. Così però avvenne. Il citato canonico era presente in Milano, quando i nunzi dell’imperatore pretesero di creare un podestà, cioè un dispotico ministro che reggesse a nome di Federico. Egli così ci racconta la risposta dei Milanesi. Nullo modo se hoc facere posse respondent; verumtamen, sicut in privilegio imperatoris habebant, quod ego Vincentius ex parte imperatoris et regis Bohemiae scripseram, se per omnia facturos promittebant. È da notarsi che l’autore era presente, ed ei medesimo aveva scritto la capitolazione: Scilicet quod ipsimet, quos vellent, consules eligerent, et electos ad imperatorem, vel ad ejus nuncium ad hoc constitutum, pro juranda imperatori fidelitate. adducerent. Contra hoc, nuncii imperatori respondent quod ipsi Runcaliae hoc imperatori dederint consilium, quod per suos nuncios in civitatibus Lombardiae ponat potestates: eo consilio utantur et ipsi. Ognuno facilmente giudicherà quale dei due mancasse ai patti. La maggior parte degli scrittori tedeschi incolpano gl’Italiani d’aver infranta la data fede; nessuno però era presente al fatto, come questo autore, che era al seguito del suo vescovo di Praga. Egli è certo che il popolo di Milano si mosse, e che si ascoltavano le grida fora, fora! mora, mora! come dice l’autore medesimo; e i nunzi (sebbene i nobili milanesi cercassero di guadagnarseli co’ regali e procurassero di persuader loro che il rumor popolare si sarebbe calmato) non trovandosi sicuri, se ne partirono di notte e s’avviarono verso dell’imperatote. Egli era col suo esercito vicino a Bologna. (1159) E previe le citazioni perentorie legalmente promulgate, proferì nuovamente una sentenza contro i Milanesi dichiarandoli contumaci, ribelli, disertori dell’Impero e nemici; condannò quindi i beni de’ Milanesi al saccheggio e le persone alla schiavitù. Ognuno sente qual grado di nobile eroismo vi sia in tale sentenza, e s’ella rassomigli più ai fasti dei Scipioni, ovvero a quei di Attila. La data di tale sentenza è 16 aprile 1159. Dopo un tal fatto non vi era più altro partito che tentare nuovamente la sorte delle armi. Il castello di Trezzo era presidiato dagl’imperiali, i quali devastavano le campagne all’intorno. I nostri prontamente ne fecero l’assalto, e condussero a Milano il comandante e la guernigione. L’imperatore aveva fatto un errore, allontanando la sua armata da Milano; nel tempo in cui, violando la convenzione, voleva renderla perfettamente suddita. Ora si accostò, e, considerando Crema la amica alleata de’ Milanesi, cominciò dal porvi l’assedio. Sono concordi gli scrittori italiani e tedeschi nel fatto della Torre, e fu: l’imperatore aveva fatta fabbricare una torre di travi posta sulle ruote; e la faceva spignere verso le mura di Crema da un lato in cui erano giunti gli assedianti a riempire la fossa colla terra. Se riusciva di accostare tali ordigni alle mura, si combatteva a condizioni pari dalla torre al baloardo. I Cremaschi scagliavano colle loro macchine vigorosamente grossi macigni contro di quella torre, che innoltrando correva pericolo di essere rovinata. L’espediente che prese Federico, fu di far legare alcuni prigionieri cremaschi e milanesi fra i più distinti, e con essi, coprendo il lato della Torre, che si presentava alla città assediata, farla così spingere da’ suoi verso quelle mura. Così furono ridotti i Cremaschi alla scelta o di essere crudelmente i carnefici dei loro parenti ed amici, ovvero di sacrificare la patria loro. Difesero la patria, e lasciarono all’imperatore la macchia d’una inutile atrocità. Nè questa fu la sola. I Cremaschi, usando del dritto di rappresaglia, uccisero sulle mura in faccia de’ nemici alcuni prigionieri cremonesi e lodigiani: e l’imperatore fece tosto impiccare in faccia della città due prigionieri cremaschi; e questi piantarono sulle mura le forche, e vi appesero due altri prigionieri; finalmente l’imperatore fece condurre sotto le mura tutti i Milanesi e Cremaschi che aveva in suo potere, e dispose perchè tutti fossero appiccati. Se non che alla preghiera dei vescovi si arrese, e si accontentò che ne fossero impiccati non più di quaranta. Il fatto ce lo racconta il Morena, ed io lo riferirò come lo espone Radevico, continuatore di Ottone Frisinghese. Egli comincia a incolpare i Cremaschi assediati, perchè si difendessero con valore e facessero delle uscite coraggiosamente: In eruptionibus suis aut machinis flammas inire, aut turres destruere, aut lethali vulnere aliquos de nostris sauciare moliti sunt, nullumque specimen audaciae aut ostentationis fuit, quod illi futurorum ignari praetermitterent; et dum jam inclinata putaretur eorum superbia, de patratis facinoribus tumidi gloriabantur. L’imperatore perciò, continua lo stesso autore a narrarci: Jubet ergo de captivis eorum vindictam accipere, eosque promuris jussit appendi. Non credo che Cesare, quando assediava le città delle Gallie e della Germania, lasciasse ne’ suoi fasti esempi tali. Contumax autem populus, nimis de pari volens contendere, etiam ipse quosdam de nostris in vinculis positos eodem modo traxit ad supplicium. E prosiegue a narrarci come allora Federico obsides eorum, numero quadraginta, adduci jubet ut suspendantur; e, non contento di quaranta miseri prigionieri di guerra, sei militi milanesi, allora còlti, perchè parlavano co’ Piacentini, vennero condannati alle forche; Tum interim adducuntur captivi quidam de nobilibus mediolanensium sex milites, qui deprehensi fuerant ubi cum Placentinis perfida miscebant colloquia... nam ut supra dictum est, Placentia principi, etiam tum, ficta devotione, et simulata adhaerebat obedientia... hos itaque... duci jubet ad supplicium, similisque his, qui et prioribus, vitae finis extitit. Se Radevico avesse scritto per oltraggiare l’imperatore, non poteva fare di più. Eppure egli scriveva, nutu serenissimi imperatoris Friderici. Convien confessare che le idee della virtù e del vizio, dell’eroismo e della crudeltà erano diverse da quello che ora sono generalmente. Finalmente, così Radevico ci descrive il fatto della Torre. Jamque ad civitatis perniciem machinae plurimae admovebantur, jamque turres in altum extructae applicari caeperant. Tum illi summa vi atque pertinacia resistere, atque a muris turres arcere, suisque instrumentis, validis saxorum ictibus, nostras machinas impellere. Efferatis vero animis princeps absistendum putans, obsides eorum, machinis alligatos, ad eorum tormenta (quae vulgo mangas vocant, et intra civitatem novem habebantur) decrevit obiiciendos. Seditiosi, quod etiam apud barbaros incognitum, et dictu quidem horrendum, auditu vero incredibile, non minus crebris ictibus turres impellebant: neque eos sanguinis, et naturalis vinculi communio, neque aetatis movebat miseratio. Sicque aliquot ex pueris, lapidibus icti, miserabiliter interierunt. Alii, miserabilius adhuc vivi superstites, crudelissimam necem, et dirae calamitatis horrorem penduli expectabant: o facinus! Secondo i principii che formano la base della giustizia e della morale, poteva controvertersi, se la indipendenza delle città d’Italia fosse diventata legittima dopo molti anni, dacchè erasi acquistata. Poteva anche chiamarsi ingiusta la guerra difensiva che facevano i Cremaschi. Ma non si può biasimare come audacia, o superbia, o pertinacia, o sfrenatezza di animo la costanza e il valore dei combattenti: nè imputare a delitto se gli assediati respingevano le macchine degli aggressori; e se vuolsi compiangere, come lo merita, il fato degl’infelici legati alla Torre, la barbarie è da imputarsi non mai a’ Cremaschi. L’imperator Federico però volle che i suoi fasti fossero scritti, come Radevico lo fece. Crema fu obbligata a rendersi finalmente dopo un lungo assedio, e Radevico ci dice: Ipsum castrum, egressis inde quasi XX millibus hominum diversi generis, flammis traditum, et militibus ad diripiendum permissum est. Questo modo di assediare e di prendere una fortezza l’imperator Federico lo credette modo clemente: e la presa d’una piccola città, dopo un lungo assedio, ei la chiamò una vittoria. La lettera circolare che allora scrisse l’imperatore, ce la conservò Radevico nel libro secondo, cap. 43; Fridericus, Dei gratia Romanorum imperator, et semper augustus. Scire credimus prudentiam vestram, quod tantum Divinae Gratiae donum, ad laudem et gloriam nominis Christi, honori nostro tam evidenter collatum occultari vel abscondi tamquam res privata non potest. Quod ideo dilectioni vestrae ac desiderio significamus, ut, sicut charissimos et fideles, vos partecipes honoris et gaudiorum habeamus. Proxima siquidem die post conversionem S. Pauli, plenam victoriam de Crema nobis Deus contulit, sicque gloriose ex ipsa triumphavimus, quod tam miserae genti, quae in ea fuit, vitam concessimus. Leges enim tam divinae quam humanae summam semper clementiam in principe esse testantur.
(1159) Durante tutto l’anno 1159 e 1160 niente intraprese l’imperatore Federico direttamente contro di Milano; e si passò il tempo in varie zuffe, per lo più dai Milanesi provocate, e terminate con vario successo, ora felice, ed ora contrario. L’erudizione tutto raccoglie; la voce della storia racconta que’ soli fatti che meritano di essere conosciuti o per la relazione che ebbero cogli avvenimenti accaduti dappoi, ovvero per l’influenza che hanno a dimostrarci lo stato delle cose in quei tempi. Aspettava quell’Augusto nuovi soccorsi dalla Germania, e frattanto girava per la Lombardia convocando concilii, sostenendo papa Vittore, scomunicando i partigiani di papa Alessandro III, il quale scomunicava i fautori di Vittore. L’origine di questo scisma venne, perchè morto, nel 1159, Adriano IV, che nascostamente animava i Milanesi a resistere a Federico, i cardinali si divisero in due partiti: l’uno creò papa il cardinale Rolando, che poi fu chiamato Alessandro III; l’altro creò papa Ottaviano, cardinale di Santa Cecilia, col nome di Vittore III. Federico era del partito di Vittore; convocò in Pavia un concilio di cinquanta vescovi suoi sudditi o aderenti, al quale invitò i due pretendenti al papato. Vittore solo vi comparve, e fu dichiarato legittimo papa; e contemporaneamente in Anagni si tenne un concilio, con molti vescovi e cardinali, nel quale fu riconosciuto per vero papa Alessandro III, che ivi il giorno 24 marzo, che era il giovedì Santo, scomunicò Federico. Vittore scomunicò i Milanesi e i loro fautori. Alessandro scomunicò Federico, l’antipapa e i consoli cremonesi, pavesi, novaresi, vercellesi e lodigiani, aderenti all’imperatore e all’antipapa. Tali erano le occupazioni e gli affari di quegli anni, interrotti da piccoli e giornalieri fatti ostili, che, con un lento macello, affliggevano l’umanità, senza ricompensare in qualche modo il danno con qualche gran mutazione. La guerra è sempre un male atroce, e le società civili si sono instituite al fine di non provarla. Ma s’ella cagiona una gran rivoluzione, perde in certo qual modo la sua atrocità per i beni ch’ella talvolta produce; che se lascia il genere umano come prima, anzi più afflitto di prima, non si può rimirarla senza ribrezzo. (1160) Erano giunti rinforzi all’imperatore Federico, che divisava d’impadronirsi di Milano; e a noi era accaduto il più sciagurato avvenimento, un incendio cioè furiosissimo, che, il giorno 25 agosto 1160, abbruciò quasi tutti i nostri magazzini e quasi la terza parte di Milano. A questa disgrazia dobbiamo attribuire interamente l’umiliazione alla quale venimmo ridotti; e dopo il giorno in cui Uraja distrusse Milano, dobbiamo negli annali nostri ricordare il 25 d’agosto, come il giorno sopra gli altri infausto: poichè ci trovammo da quel momento in faccia di un potentissimo nemico, aiutato dai nostri nemici vicini; tagliata ogni corrispondenza colle città amiche; privi d’ogni speranza di aver pane; e desolate le campagne nostre da ogni parte; per lo che una disperata fame ci costrinse a rinunziare ad ogni difesa.
(1161-1162) Il secondo blocco della città di Milano durò quasi sette mesi, e terminò alla fine di febbraio dell’anno 1162. Non seguì alcuna operazione militare che forzasse alla resa; non furono diroccate le fortificazioni in verun modo; non fu dato l’assalto; ma l’unica cagione della dedizione in quella seconda volta è da attribuirsi alla fisica mancanza d’alimento. Lo storico nostro contemporaneo Sire Raul ci dice che, per provvedere la città, electi sunt de unaquaque parochia civitatis duo homines, et de iisdem tres de unaquaque porta, quorum unus ego fui, ut eorum arbitrio annona, et vinum, et merces venderentur, et pecunia mutuo daretur, quod in perniciem civitatis versum est: parole che non furono abbastanza sinora meditate; perchè la violazione della proprietà, e la mediazione del legislatore fra chi vende e chi compra furono sempre mai operazioni insterilitrici, sebbene di autorità e lucro per gli esecutori, i quali soli parlano per un popolo che non ragiona ed ubbidisce, e perciò continuate per lunga serie di secoli. L’incendio memorando distrusse, in agosto del 1160, quasi tutte le provvisioni. L’esercito nemico, del 1161, cominciò a postarsi tra levante e tramontana della città; poi sloggiò e collocò il suo campo, inviandosi a ponente, poi a mezzodì, sempre facendo fronte verso Milano. Una così poderosa armata copriva frattanto dietro di lei una moltitudine di guastatori, i quali tagliavano i grani ancor verdi, le viti, le piante, e devastavano, per la distanza di quindici miglia, tutte le terre. Poi l’esercito nemico scomparve; e si accampò verso Lodi, lasciandoci il miserando spettacolo d’una terra devastata che non poteva darci nulla; e non lasciando altro compenso per vivere, fuori che i pochi grani scampati dall’incendio. È assai facile il figurarci la depressione e l’avvilimento nel quale dovettero a tal vista cadere gli animi de’ Milanesi. Il solo scampo che poteva loro rimanere, era quello di avventurare tutto a una giornata: uscire dalla loro città con tutte le forze riunite, dare una battaglia, e terminare la vita con onore, e salvare la patria, distruggendo il nemico, e obbligandolo a lasciarla libera. Ma per abbracciare questo estremo partito, vi voleva quel vigor d’animo ne’ cittadini e quell’entusiasmo della patria, che cominciava a venir meno dopo tante infelici vicende. Molti cittadini avevano abbandonato il partito della patria, e si erano gettati a vivere co’ nemici. L’esempio del conte di Biandrate ci allontanava dall’affidarci ad un secondo dittatore. Ne’ casi estremi il dispotismo solo può salvare la città; ma non sempre vive nella città l’uomo che, per la sua virtù e talenti, meriti il deposito di quella terribile autorità; nè sempre il popolo ha mezzi per conoscerlo. Cercarono perciò i consoli di aprire la strada a una convenzione col nemico; e, chiesti i salvacondotti dal duca di Boemia e dal conte Palatino del Reno, fratelli dell’imperatore, non meno che dal landgravio di Assia, di lui cognato, scortati con questi, uscirono dalla città per entrare con essi in parlamento. Il Morena, lodigiano e fautore di Federico, ci racconta che dalle truppe dell’arcivescovo di Colonia Reinoldo, contro il gius delle genti, vennero fatti prigionieri; e, quantunque i tre nominati principi altamente se ne dolessero, l’imperatore approvò il fatto. Lo storico nostro Sire Raul ci descrive molte crudeltà praticate dall’imperatore in questo secondo blocco. Pretende quell’autore contemporaneo, che ai prigionieri che andava facendo in alcune scorrerie de’ nostri, Federico facesse tagliar le mani. Nomina sei Milanesi nobili, a cinque dei quali fece cavare gli occhi, lasciando al sesto un occhio solo, acciocchè servisse di guida a ricondurre nella città i suoi compagni. Comunque sia, egli è certo che i Milanesi, in dicembre dell’anno 1161, e molto più in gennaio del 1162, erano ridotti all’estremo della penuria, a tal segno che colle armi nelle domestiche mura si vegliava, perchè il padre non rubasse al figlio, il marito alla moglie il pane, e come ci dice il nostro Calchi: Fame inopiaque cuncti urgebantur; vir uxorem, socrus nurum, frater fratrem, pater filium strictis gladiis incessebat, quod pane fraudarentur, passimque domesticae discordiae et privata jurgia audiebantur. Tutto mancava. Ancora cinque mesi era lontano il raccolto. Soccorso non se ne poteva ottenere da veruna parte; poichè le strade erano occupate dai nemici. Il popolo incessantemente tumultuava. La morte era il solo termine, e non lontano, che si prevedeva dover succedere alla fame. Esclamava il popolo volendo che la città si rendesse all’imperatore. Si opponevano i consoli; ancora volevano che non si disperasse, asserendo che il tempo partorisce talvolta inaspettate vicende, e procura soccorsi non preveduti. Ricordavano essi che l’armata imperiale, già da tre anni dimorante nell’Italia, non vi poteva più a lungo soggiornare, o per bisogni della Germania, o per la stanchezza de’ principi: essere sempre aperto il disperato partito di assoggettarsi ad un monarca offeso e adiratissimo; del quale, nello stato in cui erano le cose, non era da sperarsi diminuito lo sdegno, quand’anche si accelerasse di qualche poco la dedizione; per modo che una più lunga resistenza riusciva in favore della città. Così allora dicevano i consoli, dei quali i nomi meritano di essere ricordati, Ottone Visconte, Amizone da Porta Romana, Anselmo da Mandello, Gottifredo Mainerio, Arderico Cassina, Anselmo dell’Orto, Aliprando Giudice, ed Arderico da Bonate. (1162) Ma l’intollerabile peso de’ mali della carestia mosse il popolo, e la vita de’ consoli fu in pericolo; per lo che si dovettero spedire immediatamente all’imperatore le condizioni della resa. Nessuna condizione volle ammettere il vincitore, e volle che ci rendessimo senza alcun patto, abbandonandoci alla clemenza sua. Così Milano se gli rese; a ciò anche animati i Milanesi dalle promesse de’ principi, i quali assicuravano che l’imperatore avrebbe operato generosamente; il che ce lo attesta lo stesso Bucardo, oltre il Morena.
La sommissione dei Milanesi si rappresentò, al principio di marzo 1162, nella nuova città di Lodi. Ivi si prostrarono avanti l’imperatore gli otto consoli. Furongli consegnati quattrocento ostaggi, trascelti fra gli ottimati. Le armi e le insegne militari furono depositate a’ suoi piedi. Gli fu giurata obbedienza illimitata. Io non descriverò minutamente quello spettacolo umiliante; poichè quando una città si rende a discrezione, come facemmo noi, è detto tutto. Ogni avvilimento, ogni insulto di più che debba soffrire il popolo che in tal modo si è reso, può far torto bensì alla grandezza d’animo del vincitore, ma non aggiugne alcuna macchia di più ad una città che non ha più mezzi per resistere. Il giorno 26 marzo 1162 l’imperatore Federico venne a Milano; e comandò che i cittadini tutti uscissero dalla città, e che la città venisse distrutta. L’imperatore medesimo ce lo attesta nella sua lettera diretta al conte di Soissons, in cui dice: Fossata complanamus, muros subvertimus, turres omnes destruimus, et totam civitatem in ruinam, et desolationem ponimus. Radevico descrive così: Deinde muri civitatis et fossata et turres paulatim destructi sunt, et sic tota civitas de die in diem magis in ruinam et desolationem detracta est. Dodechino, nella continuazione della cronaca di Mariano Scoto, dice: Populus expulsus: murus in circuito dejectus: aedes, exceptis Sanctorum templis, solo tenus destructae; e nella cronaca dell’abate Anselmo Gemblacense, così racconta: Mediolanenses, obsidione, fame, inopia, dissensione coarctati, per internuntios petunt ab Imperatore misericordiam... Imperator, qui proposuerat eos, ad terrorem aliorum, diversis suppliciis interimere, vita donatos, rebusque necessariis, quantum secum ferre poterant, concessis, per regiones dispersit, ita ut non haberent licentiam in civitatem amplius revertendi: deinde jussit suos civitatem ingredi, muros, turres, alta et supera fastigia, et aedificia destrui. L’anonimo autore della cronaca Sampietrina Erfurtense, così dice: Mediolanenses, regis, et italici atque teutonici exercitus obsidione, jant quadriennio, arctati, post multa et praeclara militaris audaciae facinora, tandem pertaesi malorum, et inedia magis quam armis devicti manus imperatori tradunt supplices, regiae potestati se suaque omnia dedentes. Optimatibus igitur ac populo in deditionem susceptis, Rex civitatem cum victricibus aquilis, ac grandi multitudine circa Palmas ingreditur, et civibus salute, omnique supellectile concessa, eo jubente valli complanantur, muri, turres, omnisque munitio destruitur, caetera aedificia, excepta matrice ecclesia, ac reliquis ecclesiis, voraci flamma consumantur, et civitas opulentissima... terrae funditus coaequatur; indi più oltre, per accennare il modo con cui i Milanesi alloggiavano, dice: Mediolanenses, post suae excidium civitatis, quatuor oppida per quatuor plagas, imperiali edicto, fecerunt; e nel Cronico Boemico si legge che l’imperator Federico allora, muros urbis diruit, et aspera mutat in plana. Il canonico di Praga Vincenzo così ci descrive più a lungo questo avvenimento: Mediolanenses autem tantae fortitudini resistere non valentes, crebris vastationibus, fame, siti, diversis captionibus, fratrum quoque et amicorum suorum diversis cruciatibus, et interfectionibus defatigati, a princibus, tam Lombardiae, quam Teutoniae, inveniendi gratiam imperatoris modum quaerunt, quibus sic a principibus respondetur: quod nullo modo gratiam domini imperatoris obtinere valeant, nisi prius Mediolanum in manus domini imperatoris tradant. Et ex-consilio suorum fidelium Laudam civitatem veniunt, et imperatore pro tribunali suo cum suis principibus sedente, claves omnium portarum mediolanensium ante ipsum portantes, coram eo, et tantis principibus, nudis pedibus, ad terram se prosternunt. Ex mandato imperatoris surgere jubentur, ex quibus Alucherus de Wimarkato sic incipit. Peccavimus; injuste egimus, ita quod contra romanorum imperatorem dominum nostrum naturalem arma movimus; culpam nostram recognoscimus, veniam petimus, colla nostra imperiali majestati vestrae subdimus; claves civitatis nostrae, urbis antiquae, imperiali majestati vestrae offerimus, et ut tantae urbis, tam antiquorum imperatorum operi antiquissimo, pro Dei et S. Ambrosii amore, et eorum qui intus requiescunt sanctorum misereri subditis, pacem dare subjectis imperialis dignetur pietas, vestigia pedum vestrorum adorantes, humili, et supplici prece rogamus. Hic eorum imperator auditis precibus, claves portarum mediolanensium recipit, et sic contra respondet: quod sicut per quatuor partes orbis terrae innotuit quod contra dominum imperatorem orbis terrae dominum arma movere praesumpserunt, sic per quatuor orbis terrae partes eorum poena innotescat. Per quatuor partes circa Mediolanum, ad Orientem, ad Occidentem, ad Aquilonem, et Austrum, qua quis vult suam deportet pecuniam, Mediolanum urbem imperatoris in potestatem reddant. Hoc audito, Mediolanenses ejus assistunt volontati, et licet inviti, ejus obtemperant imperio. Per praedictas quatuor partes sua ponunt domicilia, ad Orientem, Occidentem, Aquilonem, et Austrum: Mediolanum in potestatem domini imperatoris reddunt. Imperator autem, Teutonicorum, Papiensium, Cremonensium et aliorum Longobardorum collecta militia, Mediolani suo residet pro tribunali; quid de tanta urbe faciendum sit consilium quaerit. Ad quod a Papiensibus, Cremonensibus, Laudensibus, Cumanis, et ab aliis civitatibus, respondetur: qualia pocula aliis propinaverint civitatibus, talia gustent et ipsi. Laudam, Cumas, imperiales destruxerunt civitates, et eorum destruatur Mediolanum. Hoc audito, imperator ex eorum consilio tali in Mediolanum data sententia, extra progreditur in campestria. Primo dominus Theobaldus, frater domini regis Wladislai, deinde Papienses, Cremonenses, Laudenses, Cumani et diversi de diversis civitatibus, ocyus dicto, ignem ex omni parte in Mediolanum jaciunt, hoc ipso imperatore cum suis exercitibus spectante. Sic Mediolanum, urbs antiqua, civitas imperialis, diversis attrita miseriis, destruitur. Imperator autem, Mediolano destructo, in tota Italia imperialem exercebat potestatem, tota enim in cospectu ejus tremebat Italia, et in urbibus Italiae suis positis potestatibus, versus Siciliam cum Siculo de ducatu Apuliae rem acturus, suos disponit exercitus. Tutti i riferiti autori tedeschi (e per conseguenza non mai sospetti di essere animati contro dell’imperatore) uniformemente ci assicurano che fummo dalla città scacciati, ripartiti a vivere in quattro borghi; e che la città non solamente fu smantellata, ma posta in rovina e desolazione, e distrutte le case, trattene le chiese. I quattro borghi o terre nelle quali venne collocata tutta la popolazione di Milano, sono a vista delle porte della città, e distanti appena due miglia; e sono Noceto, Vigentino, Carraria e San Siro alla Vepra. Se questo numero di autorità ancora non bastasse, un fatto solo basterebbe a provare che i Milanesi, dal mese di marzo 1162 sino al 1167, non abitarono in Milano, ma ne’ suddetti luoghi; e questo si è che nessun contratto, nessuna carta scritta in quello spazio di cinque anni porta la data di Milano; ma i nostri archivi conservarono i contratti di quell’epoca, i quali portano In burgo de Veglantino, ovvero In burgo Noceti, che anche chiamavasi Burgo Porte Romane de Noxeda; e le monache de’ monasteri di Milano facevano i loro contratti in questi borghi, nei quali si erano ricoverate; come accadde all’abadessa del monastero di Orona, di cui vi è un livello fatto nel 1163: Ante portam sancti Georgii de Noxeda. Da tutto ciò, senza alcun dubbio, si conosce che non le sole fortificazioni di Milano furono demolite, ma realmente fu rovinata la città, la quale per cinque anni rimase un acervo di rottami disabitati, mentre i cittadini vennero separatamente collocati nei quattro nominati luoghi, che ora sono povere terre suburbane, capaci appena di ricoverare alcuni contadini.
I nemici o si disarmano co’ benefici, o si spengono, come insegnò il Segretario Fiorentino: i partiti mediocri guastano l’impresa. I Goti, considerando gl’Insubri come nemici, affezionati all’Impero, per non trovarsi assaliti dagl’imperiali con averci alle spalle, e per conservarsi la comunicazione co’ Borgognoni, ossia Svizzeri, loro alleati, sotto Vitige, spedirono Uraja, il quale, alla testa d’un’armata, passò a fil di spada i nostri maggiori, e lasciò il paese deserto per cinque secoli, siccome si è veduto. La condotta dell’imperatore Federico è stata men crudele; ma non più eroica nè più saggia. Egli voleva che non vi fosse più Milano; ne fece uscire gli abitanti, e distrusse la città. Doveva prima giudicare se uno sterile ammasso di rovine deserte sia una dominazione gloriosa ed utile per un monarca. Poi, supposto che trovasse conveniente un tal partito, doveva trasportare i cittadini nel fondo della Germania, divisi in modo che non più potessero concertare il ritorno. Collocandoli alle porte della città, non potevasi aspettare l’imperatore altro avvenimento, se non di vedere rinata la città al primo istante in cui fosse allontanata la forza ch’egli vi esercitava. Nel 1758 gli Austriaci furono a Berlino, e i Prussiani a Dresda; che direbbe la storia se avessero posto l’incendio nelle due città? In mezzo all’ardore della guerra le nazioni colte ed i sovrani illuminati risparmiano all’umanità tutti i danni superflui. Tutti sono concordi gli scrittori asserendo che non furono demolite le chiese; ed abbiamo anche oggidì il colonnato di San Lorenzo, l’atrio di Sant’Ambrogio, le torri di San Sepolcro, le chiese di San Giovanni in Conca, di San Sempliciano, di San Celso, di San Satiro, il battisterio incorporato nella chiesa di San Gottardo, ed altri edifici, che ci fanno prova del riguardo usato allora ai luoghi sacri. A qual uso poi si riservassero questi edifici privi di ministri e di adoratori, non saprei dirlo; tanto più che le reliquie ivi esistenti furono trasportate dai vincitori nella Germania, dove anche oggidì in Colonia veggonsi i tre corpi che si dicevano de’ Magi, dall’arcivescovo di Colonia Reinoldo levati da Sant’Eustorgio. La superstizione di quei tempi avrà fatto credere che fosse un maggior delitto il diroccare le mura d’un tempio, che di ridurre alla estrema angoscia gli uomini d’una città. Il Morena, lodigiano ed imperiale, ci lasciò scritto, che: Quinquagesima pars Mediolani non remansit ad destruendum; lo storico milanese Sire Raul ci scrive: Primo succendit universas domos, postea destruxit et domos. Vero è che il guasto principalmente lo soffrimmo dai nostri nemici italiani, cremonesi, lodigiani, pavesi, comaschi, vercellesi, novaresi, e dagli abitanti del ducato medesimo delle province Martesana e Seprio, i quali, a più riprese, ritornarono a demolire e incendiare le antiche abitazioni d’una città che gli aveva con troppo orgoglio e ingiustizia maltrattati; ed è probabile che l’imperatore Federico fondasse su questo radicato livore il progetto di impedire che i Milanesi mai più non osassero rientrare nella città; e dovessero vivere sempre a vista della rovinata città, ma separati in quattro terre. Ma gli amori e gli odii d’una città e di una nazione sono tanto variabili quanto l’autorità e l’interesse; poichè la prima li dirige nei paesi ignoranti, l’altro, negli illuminati. Gli autori contemporanei non parlano, nè che fosse sparso il sale sulle rovine della città, nè che vi fosse passato l’aratro. Queste circostanze s’immaginarono dal Meimbomio, e dal Fiamma posterormente; e il giudizioso nostro conte Giulini dissipa queste favole, troppo incautamente ripetute da chi descrisse questa nostra sciagura. I buoi non potrebbero trascinare l’aratro sopra di un ammasso di mura diroccate: nè in un paese mediterraneo e senza miniere, il sale è tanto abbondante da farne tal uso insolito ed inefficace. Il sale anzi si vendeva in Milano soldi trenta lo stato, come ci attesta Sire Raul, e i trenta soldi di allora valevano, secondo il calcolo del conte Giulini, più che non valgono tredici zecchini ai tempi nostri; tanta era la carestia di ogni cosa, da cui erano i miseri nostri cittadini oppressi. Sire Raul ci descrive: Planctum, et luctum marium, atque mulierum, et maxime infirmorum, et foeminarum de partu, et puerorum egredientium et proprios lares reliquentium. E a dire vero, questo trattamento fatto ai milanesi dall’imperatore Federico non ha, ch’io sappia, molti esempi nella storia. Non ancora erano cessati i freddi dell’inverno, che da noi anche in marzo è durevole. La neve, il ghiaccio non sono cose insolite in Milano in quella stagione. Donne da parto, infermi, vecchi, bambini, costretti a sgombrare e collocarsi a cielo scoperto per ivi mirare la rovina delle loro case! Una popolazione invitata ad abbandonare se stessa alla clemenza di quell’augusto dalle promesse de’ principi, che assicuravano una generosa accoglienza, dopo aver dati ostaggi e deposte le armi, condannata così a penuriare di tutto e soffrire una morte lenta, miseranda, amareggiata dalla baccante vendetta dei nemici, che sotto i loro occhi distruggevano la città infelice, non fanno un’epoca gloriosa per la magnanimità di Federico. Debellare gli arditi e perdonare ai vinti furono le virtù dei Romani; e Federico credette così gloriosa impresa per lui l’avere, non già sottomessa, ma distrutta Milano, che in varii diplomi, che tuttora si conservano, vi pose la data: Post destructionem Mediolani, e ne fece solenni feste in Pavia, ove con nuova pompa sedette incoronato ad un pranzo colla imperatrice, pure incoronata, ed i vescovi colla mitra sul capo; ornamento che allora si rese universale ai vescovi.
Sebbene io creda verisimile l’asserzione del Morena, il quale narra che appena la cinquantesima parte di Milano rimase intatta, non credo io già per ciò che le quarantanove cinquantesime parti della città siano state distrutte in modo che veramente fossero le case dai fondamenti demolite. Una demolizione ridotta a quel segno costerebbe un lavoro grandissimo; e chiunque abbia sperienza di fabbricare, comprende quanto dispendio e quanto tempo vi voglia per appianare una casa di buone e antiche mura. È verisimile che lo sfogo della vendetta de’ nemici desse il guasto alle abitazioni, a tal segno da renderle inservibili; ma probabilmente le muraglie o in tutto o in parte restarono, se non altro nella parte più vicina al suolo; poichè i mattoni, la calce, i travi, cadendo, le dovevano sepellire sotto il mucchio di que’ rottami. E ciò sembrami assai naturale, osservando la capricciosa tortuosità e l’angustia di molte delle nostre vie, singolarmente al centro della città; poichè se non si fossero riattate le case sopra i fondamenti antichi, vedremmo della simmetria, come si vede in ogni città fabbricata tutt’in un tempo. Quel disordine che ci rimane al centro di Milano a me pare che provi l’opinione da me esposta sin dapprincipio, cioè che Milano non abbia fondatore alcuno, ma dallo stato di semplice villaggio, gradatamente crescendo sia diventata una città. Le prime case che piantano gli uomini in mezzo ai campi sono collocate con nessuna legge, ma puramente a libero comodo del padrone; a queste si aggiungono altre abitazioni sul pezzo di terra che ciascuno acquista, e si forma un villaggio colla sola distanza fra casa e casa, che ne lasci l’uscita e l’ingresso. Cresciuto che sia poi il numero degli abitatori, si comincia a conoscere la necessità d’un regolamento, e si obbligano i nuovi che vengono ad osservare nelle nuove case che v’innalzano certa distanza e certo ordine; e come i nuovi sono costretti a sempre più allontanarsi dal centro, quanto più tardi si determinano a scegliervi la dimora, perciò sempre più regolari e spaziose sono le vie lontane dal mezzo della città; perchè le case dei centro sono state aggiunte ad un villaggio; e quelle più lontane, ad una città che aveva un regolamento di Edili. Io perciò opino che la maggior parte delle vie interne di Milano sieno antichissime, e le case, ristorate sempre sopra i primi fondamenti; poichè dopo cinque anni ciascuno sarà ritornato esattamente a possedere lo spazio della sua casa, e l’avrà riattata sopra gli antichi fondamenti.
Come fossero trattati i Milanesi confinati nei quattro borghi, e quanti vilipendii ed a quante miserie andassero esposti, è facile immaginarselo, e gli autori ce lo descrivono. Se è possibile un governo civile che abbia per oggetto l’infelicità del popolo, lo fu quello; e negli annali nostri ancora si ricordano i nomi di Pietro da Cunin, di Marquardo di Wenibac e del conte di Grumbac, i quali poterono distinguersi nella rapacità, durezza ed oppressione sotto cui fecero gemere i nostri antenati. Il terrore di questo trattamento costrinse Piacenza, Brescia e Bologna a sottomettersi a Federico: ne sicut Mediolanum, quod fuerat flos Italiae, si ribelles imperatori existerent, funditus subverterentur, dice il Morena. Tutte le città del regno italico, anche le adiutrici dell’imperatore, dovettero soffrire l’orgoglioso disprezzo dei ministri imperiali, che le avevano poste nella servitù. Le doglianze non portavano in risposta che scherno e vilipendio. Tale fu il punto a cui le interne discordie condussero le città della Lombardia. Tale fu la condotta dell’imperatore Federico, che non collocheremo fra gli eroi benèfici, nè fra gli eroi militari; poichè per vincere una città fiancheggiata da’ nemici, ed ancora mal ferma nella propria costituzione, circondandola con un esercito, di cui dice Wernero Rolewinck: Federicus imperator, quasi cum innumerabili Alamannorum exercitu, Mediolanum obsedit, non fa mestieri di arte alcuna; peggio poi, con un apparato simile, il non acquistare la città per assalto, ma l’ottenerla colla subordinazione in prima, poi colla fame. Un numero assai minore di forze poteva restituire all’Impero la città; e rivolgendo poi la subordinazione in beneficio dei vinti, poteva Milano trovare sotto il governo d’un solo quell’ordine, quella pace e quella sicurezza che desiderava nella passata condizione; e poteva un più virtuoso monarca, dandoci una stabile esistenza civile, farci amare la perdita della indipendenza, di cui incautamente avevamo abusato per acquistarci la civile libertà. Allora non avrebbe la storia lasciato scritto quello che il monaco bavaro pose nella sua cronaca: Mediolanenses sponte se suaque imperatori dederunt, qui absque ulla clementia Mediolanum destruxit. Una scorreria di barbari può demolire molte città: ma appena nel corso d’un lungo regno può un monarca potente fabbricarne ed abbellirne una sola. Questi umani e deliziosi sentimenti non si conoscevano in que’ secoli feroci; e ciò diminuisce in qualche parte la colpa dell’imperator Federico.