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per vivere, fuori che i pochi grani scampati dall’incendio. È assai facile il figurarci la depressione e l’avvilimento nel quale dovettero a tal vista cadere gli animi de’ Milanesi. Il solo scampo che poteva loro rimanere, era quello di avventurare tutto a una giornata: uscire dalla loro città con tutte le forze riunite, dare una battaglia, e terminare la vita con onore, e salvare la patria, distruggendo il nemico, e obbligandolo a lasciarla libera. Ma per abbracciare questo estremo partito, vi voleva quel vigor d’animo ne’ cittadini e quell’entusiasmo della patria, che cominciava a venir meno dopo tante infelici vicende. Molti cittadini avevano abbandonato il partito della patria, e si erano gettati a vivere co’ nemici. L’esempio del conte di Biandrate ci allontanava dall’affidarci ad un secondo dittatore. Ne’ casi estremi il dispotismo solo può salvare la città; ma non sempre vive nella città l’uomo che, per la sua virtù e talenti, meriti il deposito di quella terribile autorità; nè sempre il popolo ha mezzi per conoscerlo. Cercarono perciò i consoli di aprire la strada a una convenzione col nemico; e, chiesti i salvacondotti dal duca di Boemia e dal conte Palatino del Reno, fratelli dell’imperatore, non meno che dal landgravio di Assia, di lui cognato, scortati con questi, uscirono dalla città per entrare con essi in parlamento. Il Morena, lodigiano e fautore di Federico, ci racconta che dalle truppe dell’arcivescovo di Colonia Reinoldo, contro il gius delle genti, vennero fatti prigionieri; e, quantunque i tre nominati principi altamente se ne dolessero, l’imperatore approvò il fatto. Lo storico nostro Sire Raul ci descrive molte crudeltà praticate