Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. II)/Libro settimo - Capo I

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Storia delle arti del disegno presso gli antichi (vol. II) Libro settimo - Capo II

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STORIA

DELLE ARTI DEL DISEGNO PRESSO GLI ANTICHI.




LIBRO SETTIMO.

Meccanismo della Scultura presso i Greci,

e loro Pittura.


C a p o   I.

Maniera con cui i greci artisti lavorarono - Modelli in creta... e lavori in gesso — Piccoli intagli rilevati in avorio, in argento, e in bronzo - Lavoro delle statue in marmo... abbozzo... e ultima mano — Sculture in marmo nero... in alabastro... in basalte...e il porfido ~ Bassi-rilievi — Figure restaurate - Gemme... maniera d’inciderle -.. notizia delle più pregevoli... sì incise...che in rilievo.

Abbiamo ne' Libri antecedenti esaminata, a così dire, la teoria delle Arti del Disegno presso i Greci; e in questo ne considereremo la pratica, cioè il meccanismo con cui essi [p. 6 modifica]lavoravano. Della scultura parleremo principalmente, e daremo poscia un’idea della loro pittura.

LIB.VII.CAP.I Maniera con cui i greci artisti lavorarono §. 1. Prendendo il nome di scultura in un senso esteso, comprendiamo in esso anche il modellare, l’incidere, e’l fondere1. Si modellò la creta e ’l gesso, s’intagliò l’avorio e ’l legno, si scolpirono i sassi di varie qualità, s’incisero le gemme, e si fusero i metalli. Di quelli parleremo nel Capo seguente. Nulla si dirà de’ lavori in legno, perchè nessun’opera di questa materia s’è fino a noi conservata2.

Modelli in creta... § 2. Comincerò dalla creta, che naturalmente dev’essere stata la prima materia adoperata dagli artisti3, e, unitamente al gesso, dev’avere servito per modellare, come ferve anche oggidì4. Che si modellasse collo stecco lo dimostra il basso-rilievo in marmo d’Alcamene, con esso in mano, esistente nella villa Albani, del quale noi diamo la figura a principio di questo Libro5. Gli artisti però serviansi anche delle dita, e particolarmente delle ugne per lavorare con maggior dilicatezza alcune parti più fine. A quest’uso si riferisce un detto del famoso Policleto, secondo cui la parte più difficile dell’esecuzione era quando la creta attaccavasi alle ugne, o fra l’ugna e la carne intromettevasi; Ὅταν ἐν ὄνυχι ὁ πηλὸς γένηται.6. Quelle parole [p. 7 modifica]non sono state sinora ben intese dagl’interpreti, e Francesco Giunio7 che traduce: cum ad unguem exigitur lutum, non ne rende il vero senso. Il verbo ὀνυχίζειν o ἐξονυχίζειν dinota quì quegli ultimi tocchi che lo scultore dava coll’ugna al suo modello; e questo chiamavasi κίνναβος. All’uso di finire il modello coll’ugna si rapporta pure l’espressione Oraziana:

. . . . . . ad unguem
Factus homo8
Perfectum decies non castigavit ad unguem9;

come all’uso di adoperare principalmente il pollice nel far figure di cera si riferiscono chiaramente le parole di Giovenale:

Exigite ut mores teneros ceu pollice ducat,
Ut si quis cera vultum facit . . . . . 10

§. 3. Un chiaro scrittore, il conte di Caylus, leggendo in Diodoro11 che gli artisti egiziani aveano lavorato secondo un’esatta norma, laddove i greci determinavano a occhio le necessarie proporzioni, s’è argomentato di quindi conchiudere, che questi non si valessero punto di modello pe’ loro lavori12. Ma è facil cosa il dimostrargli l’opposto, non solo co’ modelli in creta anche tuttora esistenti di statue, de’ quali parlammo nel Libro I. Capo iI.; ma eziandio con una gemma del museo Stoschiano13, ove [p. 8 modifica]rappresentasi Prometeo che prende le misure della sua statua col filo a piombo, come vedesi nella figura che noi daremo in appresso. I pittori devon avere la misura negli occhi; ma gli scultori hanno in ogni tempo dovuto adoperare la squadra ed il circolo, anche per modellare, essendo questo lavoro una preparazione alla scultura.

...e lavori in gesso §. 4. Formavansi anticamente di gesso, oltre i modelli14, le immagini delle divinità pei poveri15; e forse di tal materia pur furono le figure de’ più celebri uomini, che Varrone spediva da Roma in altri paesi16.

§. 5. Sono pervenuti fino a noi alcuni degli antichi bassi-rilievi in gesso, e de’ bellissimi se ne sono ritrovati nelle volte di due camere, e d’un bagno presso Baja non lungi da Napoli17. Ometto i bei bassi-rilievi ne’ sepolcri di Pozzuolo, poichè non sono di gesso, ma di calcina e pozzolana. Questi lavori quanto più sono bassi, tanto più dilicati appariscono e belli; osservasi però che dar volendo gli artisti a que’ lavori di molto basso-rilievo diverse e varie degradazioni, sognavano con un più profondo contorno ciò che sul fondo piano dovea comparir rilevato. Pertanto deve [p. 9 modifica]considerarsi come una rarità il basso-rilievo in gesso d’una cappelletta nel cortile, detto περίβολος18, del tempio d’Iside a Pompeja, rappresentante Andromeda con Perseo, in cui la mano dell’eroe, che tiene la testa di Medusa, fu fatta interamente staccata dal muro: essa è caduta, ma si vede il luogo dove sporgeva, e v’è tuttora il ferro necessario per sostenerla19.

Piccoli intagli rilevati in avorio §. 6. Si lavorò anticamente pur molto in avorio20; e tutto ciò che in esso, o in argento, o in bronzo intagliavasi, venía detto toreutice21; intorno alla qual voce mal s’appongono sì i moderni che gli antichi interpreti, dandole il significato di un lavoro fatto al torno. Le parole τορευτικὴ, τόρευμα, toreuma22, τορευτὸς, e τορευτὴς usate ove si tratta de’ mentovati lavori, e degli artefici che vi si occupavano, non derivano già da τόρνος (torno, noto stromento de’ tornitori), a cui non si può riferire nessuno dei passi addotti da Enrico Stefano, come osservò egli medesimo; ma hanno la loro radice nel vocabolo τόρος, che significa chiaro, e propriamente si usa come epiteto d’una [p. 10 modifica]voce chiara e ben distinta23. Sembra pertanto che la parola τορευτικὴ sia stata usata per indicare un lavoro a rilievo, differente dal lavoro incavato delle gemme, che diceasi ἀναγλύφον; onde τόρευμα si chiamava propriamente un intaglio a figure rilevate, e perciò ben discernibili e chiare, nel qual senso ha qualche analogia col significato della voce τόρος24. E poichè quest’arte occupavasi principalmente in piccole cose, e minuti fregi, perciò Plutarco, parlando d’Alessandro, terzo figlio di Perseo ultimo re de’ Macedoni25, il quale per tai lavori erasi fatto celebre in Roma, unì la voce τορεύειν con λεπτουργεῖν, cioè lavorare in cose minute.

§. 7. Alcone di Mila in Sicilia doverebbe riputarsi il primo artista di questa maniera, se potessimo prestar fede ad Ovidio26, il quale lo fa anteriore alla guerra di Troja, ove rammentando i doni fatti da Anio re di Delo ad Enea, parla d’una tazza, lavoro di quell’artista, e annovera coloro che dianzi aveanla posseduta. Ma quì il poeta cade in un manifesto anacronismo; poichè Mila fu edificata alcuni secoli dopo l’incendio di Troja, come si può vedere nella Sicilia del Cluverio; sebbene nè questi nè i commentatori d’Ovidio ne abbiano osservato l’errore27.

Lavoro delle statue in marmo... §. 8. La scultura in sasso fu principalmente esercitata su i marmi28, e talora eziandio su più dure pietre, quali sono il basalte e ’l porfido.

[p. 11 modifica]§. 9. La maggior parte delle statue son fatte d’un sol pezzo, la qual cosa avea pure ordinata Platone29 nella sua repubblica. Ciò non ostante v’ha delle figure di marmo, alle quali fin da principio fu attaccata la testa lavorata a parte, come ad evidenza si vede nelle teste di Niobe e delle sue figlie, in quelle di due belle Palladi della villa Albani30, e delle Cariatidi scoperte nel 1761.31. Talora [p. 12 modifica]vi furono pure attaccate le braccia, e tali sono nelle due mentovate Palladi.

§. 10. Le membra che restavano staccate dal corpo della figura, attaccarvisi soleano dagli antichi, come si usa anche oggidì, con un sostegno o puntello. Ciò si osserva in alcune statue, e anche ove forse era inutile, come in un Ercole esistente nel giardino interno del palazzo Borghese, in cui l’estremità del membro virile è sostenuta da un piccolo cilindro di marmo non più grosso d’una penna da scrivere, che vi si vede tuttora fra il mentovato membro e i testicoli. Quell’Ercole si è così ben conservato, che può annoverarsi fra le più rare figure di Roma: è affatto intero, se non che gli mancano le cime di due dita del piede, che probabilmente non sarebbono tronche, se non avessero sporto in fuori dello zoccolo.


...abbozzo.... §. 11. Soleano pur gli antichi lavorare le loro statue a un dipresso come i nostri scultori, cominciando a farne l’abbozzo. Abbiamo un argomento di ciò nella figura muliebre d’un Fiume poco men che colossale, che dianzi stava nel palazzo d’Este a Tivoli, ed ora è nella villa Albani. Le parti inferiori di quella statua sono grossolanamente abbozzate, onde nelle ossa principali, ricoperte dal panneggiamento, sono stati lasciati alcuni punti sollevati che serviano di norma, e si toglievan poi quando si finiva la statua. Lo stesso si pratica anche oggidì.

... e ultima mano. §. 12. Quando la statua era terminata, o le si dava il pulimento e ’l lustro, prima colla pomice32, indi col piombo e col tripoli, ovvero lo scultore vi ripassava lo [p. 13 modifica]scarpello. Questo faceasi probabilmente, dopo che le s’era data la prima mano di pulimento colla pomice, per due motivi; cioè per meglio imitare la verità delle carni e del panno, e perchè si era osservato che le più finite e dilicate parti, quando fono soverchiamente lustrate, riflettono sì vivamente la luce che veder non si può il minuto lavoro, nè conoscere la diligenza dell’artista. Aggiungasi che, siccome chi lustra le statue non è mai lo scultore medesimo, facilmente dallo strofinamento ne fono corrosi e cancellati i più fini e forse i più significanti tratti33; e perciò alcuni antichi maestri ebbero la pazienza di ripassare l’intera statua, e tutta nuovamente ritoccarla collo scarpello, dopo che aveva avuta la prima mano di pulimento. Ciò non ostante la maggior parte delle statue, ben anche colossali, furono perfettamente lustrate, come si vede dai pezzi d’un preteso Apollo colossale del Campidoglio34. Così pulite sono, nelle parti almeno che rappresentano la carne, due teste colossali di Tritoni, e quelle pur colossali di Tito e di Trajano nella villa Albani. Pertanto il detto del filosofo Lacide35, che ricusò l’invito del re Attalo, „ perchè i re dovean essere guardati da lungi come le statue „, non deve di tutte intendersi, come non può applicarsi a tutt’i re: le mentovate opere sono lavorate con tanta delicatezza [p. 14 modifica]e sì finite, che possono guardarsi da vicino, come le gemme incise.

§. 13. Fra le statue, a cui è stata data l’ultima mano collo scarpello, bellissimo è il Laocoonte, e un occhio attento potrà in esso scorgere con quant’arte e con quanta franchezza sia stato adoperato lo scarpello per non perdere nel pulirlo nessuno di que’ tratti più dilicati e maestri. La pelle di questa statua, in confronto di quelle che sono lustrate e liscie, sembra alquanto ruvida; ma può assomigliarsi ad un morbido velluto in paragone d’un lucido raso, per valermi d’un esempio più acconcio, può paragonarsi alla pelle degli antichi Greci, allorchè non l’aveano lisciata ancora e ammorbidita pel continuo uso de’ bagni caldi e delle strigili introdotto dalla mollezza de’ Romani36: sulle carni loro sorgeva, a così dire, una sana traspirazione, simile alla prima lanugine che veste un mento giovanile37. I due grandi leoni di marmo trasportati da Atene a Venezia, e posti all’ingresso dell’arsenale, sono nella stessa maniera finiti col solo scarpello, come si richiede per bene imitarne il pelo e la giubba.

[p. 15 modifica] sculture in marmo nero §. 14. Il marmo nero, di cui v’era una cava nell’Isola di Lesbo38, fu lavorato più tardi del bianco; trovasi però fatta menzione d’una statua in quel marmo scolpita da un antico artista d’Egina. La più dura e più fina specie di marmo nero è quella che chiamasi volgarmente pietra di paragone; e di questi ci sono pervenute alcune figure intere, cioè un Apollo nella galleria del palazzo Farnese, il cosi detto dio Aventino nel museo Capitolino, amendue maggiori dell’umana statura39, i due mentovati Centauri più piccoli della grandezza naturale (che dianzi appartenevano al card. Furietti, ed ora esistono nel suddetto museo), sul di cui zoccolo leggonsi scritti i nomi de’ loro scultori Aristea, e Papia d’Afrodisio40. Sono di grandezza naturale in marmo nero scolpiti un Satiretto in atto di danzare, ed un Lottatore che tiene in mano un’ampolla d’olio. Si vedono amendue nella villa Albani, e trovati furono dal signor card. Alessandro nelle ruine dell’antica città d’Anzio, ove stavano in una camera tonda non lungi dal teatro, insieme ad un Giove e ad un Esculapio del medesimo sasso e d’eguale grandezza. In marmo nero, oltre le statue di stile greco, alcune ne abbiamo lavorate ad imitazione delle egiziane, disepolte nella villa d’Adriano a Tivoli, delle quali ho parlato nel Libro iI Capo IV.

[p. 16 modifica]§. 15. Varia è la durezza di questo marmo: il più tenero è anche il più nero, detto da noi nero antico; ma quello, che anche oggidì si cava, come vetro facilmente si spezza. Il marmo de’ mentovati Centauri da taluno, a cagione di sua durezza, è stato creduto una pietra d’Egitto; ma alla menoma prova che gli si dia, se ne conosce la differenza.

... in alabastro. §. 16. Più duro del marmo bianco comune è l’alabastro orientale; e poichè questo, come ogni altro alabastro, è composto di strati laminosi, nè ha un grano seguente ed uniforme, come il marmo, facilmente si schieggia, e più difficile ne riesce il lavoro. Se vogliamo giudicarne dai monumenti che ancor ci restano, par che non sia mai stata fatta una figura intera di nessuna specie d’alabastro; ma che almeno le estremità, cioè la testa, le mani e i piedi, vi siano sempre state aggiunte d’altra materia, e probabilmente di bronzo41. Abbiamo però in quello sasso de’ busti e delle teste: nelle virili e barbate è stata lustrata la carne, ma ruvida fu lasciata la barba. Di quelle una sola se n’è confermata in Roma, anzi la sola parte anteriore, ossia il volto d’una testa d’Adriano, esistente nel museo Capitolino.

§. 17. Fra le figure d’alabastro abbiamo due Diane minori della grandezza naturale, la più grande delle quali sta in casa Verospi, e la più piccola nella villa Borghese; ma, come teftè avvisai, non v’è d’alabastro che il bellissimo panneggiamento, essendone di bronzo e di moderno lavoro i piedi, le mani, e ’l capo. Sono amendue di quella specie d’alabastro, che dicesi agatino per avere il colore dell’ [p. 17 modifica]agata, cui si avvicina pure nella durezza. Un’altra Diana di simil pietra è nella villa Albani, restaurata però nella metà inferiore. La più grande ftatua d’alabastro a me nota è un torso armato, scolpito con tutta la maestria, il quale è stato trasportato a sant’Idelfonso in Ispagna col museo Odescalchi: anch’esso ha la testa, le braccia, e le gambe di bronzo indorato, lavoro d’un recente artefice, che pretese rappresentarvi un Giulio Cesare. Nè alcun qui mi rammenti la grande statua sedente di bianco alabastro di Tebe nella villa Albani, di cui ho parlato nel Libro iI.42: essa è lavoro egiziano, ed io qui sol tratto de’ greci.

§. 18. Alle figure appartengono gli Ermi, e i busti. Quattro Ermi della grandezza ordinaria lavorati in alabastro fiorito, con teste antiche di marmo giallo, adornano la villa Albani, e son questi i soli ch’io abbia veduti. De’ busti o, a parlare più esattamente, de’ panneggiamenti del busto, o petti se ne vedono cinque nel museo Capitolino; quei d’Adriano, di Sabina, di Settimio Severo fono in alabastro agatino; e in alabastro fiorito son quei di Giulio Cesare, di Faustina maggiore, ed un altro d’alabastro più grossolano, fu cui è stata adattata la testa di Pescennio Nigro. Tredici petti di quella specie di marmo stanno nella villa Albani, tre de’ quali son di grandezza naturale, e due di quelli son di quell’alabastro che, per la somiglianza che ha colla mela cotogna quando è cotta, chiamasi cotognino: di simil pietra è il mentovato torso di s. Idelfonso. Il terzo petto, come pur gli altri dieci minori del naturale, son d’alabastro agatino. Un consimile petto con testa muliebre vedesi nella casa del marchese Patrizi-Montorio43.

[p. 18 modifica] ...in basalte... §. 19. I greci scultori non solo nell’alabastro impiegarono il loro scarpello, ma eziandio nel duro basalte44, sì di color ferrigno che verdognolo. Di questo sasso però io non ho veduta che una sola statua intera di color nericcio, cioè un Apollo, maggiore della grandezza naturale, ma d’un mediocre lavoro, il quale in una vecchia stampa in rame è stato pubblicato come un Ermafrodito, e tale è stato pur creduto dal conte di Caylus45. Di basalte verdognolo è il torso d’una figura virile, di grandezza naturale nella villa Medici, che mostra d’esser l’avanzo d’una delle più belle statue dell’antichità; e non può guardarsi senz’ammirazione, o ’l sapere dello scultore li confederi, o s’esamini la finezza del lavoro. Dalle teste di basalte, che ci fono rimaste, ben si scorge che i più grand’artisti han voluto sovente in quello sasso far pompa di tutta la loro abilità46.

§. 20. Nè rare sono le teste e i busti di basalte, lavoro de’ greci artisti. Delle prime, oltre quella di Scipione, una ve n’era di giovane eroe nel palazzo Verospi, posseduta ora dal signor di Breteuil, dianzi Ambasciatore di Malta a Roma, e un’altra testa ideale di donna si vede nella villa Albani posta su un antico petto con panneggiamento di porfido. Bellissima però tra tutte le teste di basalte sarebbe senza [p. 19 modifica]dubbio, se fosse intera, quella che è presso di me, e di cui non altro s’è conservato che la fronte, gli occhi, le orecchie, e i capelli, dalle quali parti lì riconosce che un giovane rappresentava in grandezza naturale. Il lavoro della capigliatura, s in questa testa che in quella del palazzo Verospi, è diverso da quello che si vede nelle teste virili di marmo; cioè i capelli non sono messi a ciocche sciolte, come in quelle, nè a ricci traforati col trapano; ma vi sono espressi come recisi, corti, e poscia con fino pettine composti, quali vedersi sogliono sulle teste virili ideali in bronzo, in cui par che ogni capello sia stato indicato distintamente. Osservisi però che nelle teste ricavate dal vero diverso è il lavoro de’ capelli. M. Aurelio a cavallo, e Settimio Severo nel palazzo Barberini, hanno i capelli ricciuti nella stessa maniera che le loro figure in marmo. L’Ercole del Campidoglio ha fitti e crespi i capelli, quali sempre aver li suole quello dio. Nella capigliatura della mentovata testa mutilata v’è un’arte e una diligenza straordinaria e inimitabile; e colla medesima finezza è lavorata in durissimo basalte verdognolo la chioma d’un torso di leone esistente nella vigna Borioni47. Vedasi ciò che di queste due teste ho detto dianzi, parlando delle orecchie de’ Pancraziasti48. Lo straordinario lustro e pulimento che è stato dato, e che dar conveniva a questa pietra, congiunta alla finezza delle parti che la compongono, ha impedito che vi s’attaccasse quella crosta, la quale suole formarsi su i più fini marmi; e perciò tali teste furono trovate sotterra pulite e lucide, come se uscite fossero allora dalle mani dell’artefice.

[p. 20 modifica] ...e in porfido. §. 21. Delle opere in porfido ho parlato nel Libro iI.49 ove ho spiegato in qual maniera, e con quali stromenti tal pietra si lavorasse. Per tanto su di ciò non tratterrommi lungamente, e dopo d’aver data un’idea della maniera di lavorare i vasi di porfido, additerò alcuni degli antichi lavori greci che ci rimangono in quello sasso.

§. 22. Mal informato fu certamente chi scrisse non sapersi da’ moderni più lavorare il porfido50; e diede prove d’una puerile credulità il Vasari51, scrivendo che Cosmo de’ Medici gran duca di Toscana avea trovata un’acqua atta ad ammollirlo. Il lavoro in porfido non è punto un segreto presso i nostri artisti, e v’ha delle opere in questa pietra fatte a’ dì nostri riguardevoli, qual è fra le altre il coperchio dell’antica urna nella sontuosa cappella Corsini in s. Giovanni in Laterano di Roma52. Questo pezzo, che stava dianzi sotto il vestibolo del Panteon, servì probabilmente nelle terme di M. Agrippa a quel tempio contigue, siccome inferir si può dalla forma stessa del vaso; onde era naturalmente senza coperchio, e quello se gli dovè fare, allorchè fu destinato a servire pel deposito di Clemente XII.53. Varie teste di porfido fecersi a Roma nel secolo scorso, in cui questa pietra [p. 21 modifica]piucchè oggidì vi abbondava, e vi sono, fra le altre, quelle dei dodici Cesari nel palazzo Borghese.

§. 23. Ma fra i lavori in porfido i più pregevoli per la difficoltà, e quasi direi inimitabili, sono certi vasi interamente voti, e assottigliati alla grossezza d’una penna co’ loro contorni, e scanalature all’orlo, sì nel piede che nel coperchio, in guisa che al primo vederli si conosce tosto, che sono stati lavoraci al torno. Questi vasi furono trovati dentro antichi sepolcri, incassati nel travertino; per la qual cosa sì perfetti e interi si sono conservati. Il più bello si vede nella villa del cardinale Alessandro Albani, e costò tre mila scudi al Papa Clemente XI.

§. 24. Che gli antichi artisti lavorassero al torno anche vasi di altre pietre, ce lo attesta Plinio54; e ciò ch’egli dice altrove delle cencinquanta colonne del labirinto, fabbricato nell’isola di Lenno, tutte lavorate al torno, è un chiaro indizio dell’abilità de’ più vetusti artefici in questo meccanismo. Tali colonne stavano sì ben poste in bilico, che anche un fanciullo poteale far girare55.

§. 25. Quest’arte di lavorare i vasi di porfido tennesi come un arcano, fino a che al signor card. Albani riuscì di togliere quello pregiudizio, e di far vedere che pur oggidì i nostri, non meno degli antichi artefici, sanno tornire il porfido con farne eseguire uno perfettamente. Vero è però che costa tre volte più l’incavare un vaso che il dargli l’esterna forma, e tredici mesi di lavoro al torno s’impiegarono per il suddetto. Tutti gli altri vasi di porfido posti ne’ palazzi e nelle ville di Roma son lavori moderni di forma inelegante, e quando son voti, vedesi che sono incavati a cilindro: il che si fa con una grossa canna di rame, [p. 22 modifica]larga quanto il vano che vuolsi nel vaso; e questa vien girata per mezzo d’un adattato manubrio.

§. 26. E’ da notarsi che le statue di porfido hanno la testa, le mani, e i piedi di marmo, anzichè della stessa pietra56. Nella galleria del palazzo Chigi, che è stata trasportata in Dresda, v’era in porfido una testa di Caligola, ma era moderna, e imitata da quella di basalte nel museo Capitolino: moderna è pure una testa di Vespasiano della stessa pietra nella villa Borghese. Le quattro figure tutte di porfido, poste a due a due nel palazzo del Doge a Venezia, son lavoro greco del basso impero o de’ tempi posteriori; e mostrò d’esser ben poco intelligente dell’arte Gerolamo Maggio, scrivendo che quelle rappresentavano i liberatori d’Atene, Armodio e Aristogitone57.

Bassi-rilievi. §. 27. Poche cose dirò de’ bassi-rilievi scolpiti nelle sin qui mentovate materie. Non devo però passare sotto silenzio l’ingiusta accusa che vien data generalmente agli antichi scultori, cioè che su i bassi-rilievi, non facendo essi nessuna degradazione nelle figure, abbiano a tutte dato un eguale sporto e rilievo. Questa obbiezione contro l’abilità degli antichi artisti è stata pubblicata anche ultimamente da Pascoli nella sua Prefazione alle vite de’ Pittori; ma ho già detto altrove58 quanto poco conto far si debba di questo scrittore. Per dimostrare il contrario, potrei qui indicare molti de’ bassi-rilievi che stanno in Roma allo sguardo de’ curiosi pubblicamente esposti; ma alcuni solo ne additerò ne’ quali le varie degradazioni delle figure fono più sensibili. Tale è principalmente il bellissimo basso-rilievo del palazzo Ruspoli da me pubblicato ne’ miei Monumenti antichi59. La figura principale rappresentante il giovane Teleso è ivi sì [p. 23 modifica]sollevata dal fondo, che fra questo e la testa entrano due dita: dietro a Teleso sta un cavallo, che per conseguenza dev’essere molto men rilevato, e presso a quello è un vecchio suo scudiere ancor più leggiero e basso. Rimpetto a Teleso siede Auge sua madre, di cui egli impalma la destra; e quella, sebbene più rilevata che lo scudiere e ’1 cavallo, lo è manco del figlio, almeno riguardo alla testa. Pendono in alto una spada ed uno scudo, che sono con somma leggerezza indicati. Hanno simili degradazioni un Satiro che giuoca con un cane nella villa Albani, e due sagrifizj, il più grande de’ quali rappresenta Tito. Vedasene la figura ne’ miei Monumenti antichi60.

Figure restaurate. §. 28. Al meccanismo della scultura appartiene il rappezzamento che si scorge in parecchie figure, le quali danneggiate ne’ tempi antichi, allora o poco dopo furono restaurate. Quello talvolta faceasi per rimediare ai difetti del marmo guasto o mancante per l’opera che scolpir si voleva; e talora per rimettervi ciò che erane stato rotto in seguito di tempo.

§. 29. Riparavansi i difetti del marmo collo stesso marmo pesto, per mezzo d’uno stucco con cui riempievasi il voto, e si suppliva alla mancanza; siccome ho osservato nella coscia d’una Sfinge sotto gli ornati d’un’ara infranta, scopertasi l’anno 1767. nell’isola di Capri presso Napoli, e collocata nel museo Hamiltoniano.

§. 30. Il restauramento delle parti mutilate faceasi anticamente, come si fa oggidì, cioè con un perno, il quale per mezzo de’ pertugi opportuni, metà entra nel vecchio, e metà nell’aggiunta, e l’una parte all’altra fortemente attaccata sostiene61. Tal perno era per lo più di bronzo, ma talora [p. 24 modifica]anche di ferro, qual si vede, per omettere molte altre statue, dietro alla base del Laocoonte62. Il bronzo è però da preferirsi, poiché non produce una ruggine dannosa al marmo63, come il ferro che lo corrode tutto all’intorno, principalmente se resti esposto all’umidità, come si vede nel torso delle figure d’un Apollo e d’una Diana, scoperte a Baja, e da me già dianzi mentovate. In quello il ferro ancor visibile, con cui stava attaccata al busto la testa rimessavi, ed or nuovamente perduta, ha comunicato il color di ruggine fino alla metà del petto. Per ovviare a quello male gli antichi attaccavano le colonne o i pilastri di marmo bianco alle basi con perni di bronzo, siccome ognuno può vedere anche al dì d’oggi nelle basi de’ pilastri del tempio di Serapi a Pozzuolo64.

§. 31. Mi si chiederà per avventura in qual tempo tali statue mutilate furono, e dagli antichi restaurate. Sembrerà strano che ciò dicasi succeduto ne’ tempi, in cui l’arte fioriva; e pur è vero. Il mutilamento delle greche statue è in parte avvenuto nella Grecia stessa, quando gli Achei combattevano contro gli Etolj, siccome più diffusamente dirò ne’ Libri seguenti; in parte allorchè dalla Grecia in Roma trasportar si vollero i più bei monumenti dell’arte; e in parte in Roma medesima. Del guasto dato alle statue in Grecia sono probabilmente un testimonio quelle che furono scoperte a [p. 25 modifica]Baja, poiché colà, ov’erano le più famose ville de’ Romani, dacché le arti presso questi s’introdussero fino alla loro de- cadenza, non furono mai usate ostilità. Egli è credibile per tanto che sì queste che le altre statue, le quali per avventura così rappezzate scoprirannosi a Baja o in que’ contorni, siano state portate guaste dalla Grecia, e allora restaurate; poiché dopo gli Antonini cadde l’arte ad un tratto dal suo Splendore, e più non si pensò a restaurarne i pregevoli monumenti. Lo stesso possiamo dire in parte delle opere che in Roma stessa trovansi mutilate, se non che qui denno avere grandemente sofferto e per l’incendio di Nerone65, e pel tumulto di Vitellio, in cui i soldati si difesero nel Campidoglio col precipitar su i nimici le statue66.

$. 32. Io non parlo qui se non di que’ lavori mutilati che dagli antichi medesimi furono restaurati, e non già di quelli che rotti e guasti si disotterrarono in seguito, e che probabilmente sono lagrimevoli monumenti dell’irruzione de’ popoli settentrionali, che Roma, il Lazio, l’Italia tutta, e la Grecia medesima devastarono67. Troppo m’è dolorosa la rimembranza di tanto danno, ed io qui parlar deggio de’ lavori dell’arte, non del loro distruggimento.

Gemme... §. 33. Resta che per ultimo trattiamo delle gemme incise, e della maniera con cui sono state lavorate. Ha diffusamente intorno a ciò scritto il sig. Mariette68, non solo parlando di tutte le pietre dure e preziose, in cui l’arte degli antichi s’è esercitata; ma ha altresì chiaramente esposto il meccanismo del lavoro, quale, secondo lui, l’usarono i Greci, e quale si usa oggidì.

[p. 26 modifica]§. 34. Le più celebri, tra le pietre dure, che in maggior copia delle altre furono nobilitate dall’arte greca, sono la corniola, la calcedonia col giacinto, e l’agata coll’agatonice69. Queste servirono pei lavori in rilievo, ossia pe’ cammei, e quelle pei lavori incavati.

...maniera d’inciderle... §. 35. Non v’è chi questo ignori; ma nessuno ha saputo ben determinare in qual maniera incidessero gli antichi le loro gemme. Ch’eglino adoperassero puntine di diamanti legati fu un ago d’acciajo, ce ne fa fede Plinio70; ma egli poi non ci dice se di questi diamanti si servissero, come fanno dello scarpello i nosrii intagliatori in legno; ovvero se, attaccando l’ago diamantato su una ruota, lavorassero col torno, siccome far li suole generalmente oggidì71. Vi sono de’ chiari scrittori sì per l’una che per l’altra opinione, ed io non sono tale da voler qui decidere la quistione. Sosterrei però che gli antichi conoscessero l’uso della ruota e del torno, del che veggonsi indizj in quelle gemme, il cui lavoro è stato sol abbozzato, ma non finito.

§. 36. Posseggo io stesso un’agatonice lavorata a rilievo d’un pollice e mezzo di diametro, trovata due anni fa nelle catacombe di Roma, in quella medesima terra che sul luogo stesso era stata ben visitata, e quindi, affinchè nulla si perdesse delle reliquie de’ Santi che ivi avrebbero potuto essere, portata alle Cappuccine, le quali nel crivellarla vi trovaron la detta gemma. Pregevole è questa non tanto per la bellezza del colore, quanto perchè rappresenta un tratto della storia eroica, che non ci è pervenuto, ch’io sappia, su nessun monumento, cioè Peleo padre d’Achille allorché, cacciando in un bosco con Acasto, e da quello lasciato indietro, [p. 27 modifica]s’adtormentò; del che avvedutisi i Centauri voleano ucciderlo, ed uno di questi è in atto di gettarli addosso un gran sasso; ma Chirone lo desto e salvò, come in quella gemma lo salva Psiche, con cui si volle indicare la di lui vita salvata72. Quella gemma si vedrà nella terza parte de’ miei Monumenti antichi inediti.

§. 37. Che gli antichi pei lavori in gemme adoperassero delle lenti che ingrandissero gli oggetti è molto verosimile, sebbene non ne abbiamo nessuna prova diretta73. Chi sa che questa utile anzi necessaria invenzione non siali ne’ tempi oscuri perduta come molte altre, quale, a cagion d’esempio, è quella del pendolo? Ne’ tempi di mezzo serviansi di quello gli Arabi per misurare il tempo colle uguali sue [p. 28 modifica]oscillazioni; ma se dall’erudito Eduardo Bernardo74 non si fosse ciò ritrovato negli scritti di quella nazione, noi avremmo tuttora creduto, che Galileo ne avesse il primo fatta la scoperta.

§. 38. A queste osservazioni sulla maniera d’incidere le gemme e pietre dure aggiugnerò alcune notizie sul medesimo soggetto. Soleano gli antichi metter sotto la gemma una foglia d’oro. Plinio ciò rapporta riguardo al grisolito che non era ben trasparente, affine di dargli maggior fuoco75; ma sappiamo che lo stesso faceasi con qualche altra pietra che non avea bisogno di quello lume non suo, come vedesi in una bellissima corniola, di un fuoco eguale a quello d’un rubino, in cui Agatangelo, greco artista, incise la testa di Sefto Pompeo. Questa pregevolissima gemma legata colla mentovata foglia in un anello di circa un’oncia d’oro, fu trovata in un sepolcro presso a quello di Cecilia Metella; e dopo la morte dell’antiquario Sabbatini, nelle cui mani era pervenuta, comprolla al prezzo di 200. scudi il conte di Lunavilla, da cui la ereditò sua figlia la duchessa di Calabritto a Napoli.

... notizia delle più pregevoli ... §. 39. Non farà discaro, io mi lusingo, agli amatori delle belle arti, che io qui accenni brevemente alcune delle più pregevoli fra le antiche gemme; e siccome difficil cosa non è il vederne almeno la copia sulle paste di vetro, o su [p. 29 modifica]gli zolfi, potranno così paragonarle con altre che loro cadranno sott’occhio, e non senza fondamento giudicarne. Ristringerommi a quelle sole che ho io stesso vedute o in originale, o su esatte impressioni. Parlerò prima delle incise, indi delle rilevate, εἰσοχῆ, καὶ ἐξοχῆ 76.

... sì incise ...} §. 40. Fra le gemme incise, cominciando dalle teste, quella d’una Pallade col nome dell’incisore Aspasio nell’imperial museo di Vienna, quella d’un giovan Ercole nel museo Stoschiano, e principalmente quella dello stesso giovan eroe incisa in uno zaffiro da Gnajo o Cnejo nel museo Strozzi a Roma, sono lavori eccellenti, e darci possono la più alta idea della perfezione, a cui era stata portata quest’arte. Posso pure con ragione qui nominare fra gli Antichi di quello museo la testa d’una Medusa, non la celebre calcedonia incisa da Solone, che è il ritratto d’una bella persona, anziché una bellezza ideale77, ma una più piccola in corniola. Vanno del paro con quella il preteso Tolomeo Aulete nel museo del re di Francia, che verosimilmente è un Ercole in Lidia, come ho dimostrato nel Tomo I.78, la pocanzi mentovata testa di Sesto Pompeo incisa da Agatangelo, e quella di Giulia figliuola di Tito, incisa da Evodo in un gran berillo, esistente nell’abazia di s. Dionisio a Parigi79.

§. 41. Tra le figure intere incise in gemme è sommamente pregevole Perseo lavoro di Dioscoride nel museo Farnesiano a Napoli, di cui però non deesi portar giudizio sulla stampa pubblicatane, ove gli è tolta tutta l’aria giovanile. Hanno pure molto merito Ercole ed Iole incisi da Teucro nel museo granducale a Firenze, l’Atalanta del museo di Stosch, e un ignudo giovane che porta sulle fpalle un troco (cerchio di bronzo che serviva per certo giuoco) in una bianca e [p. 30 modifica]trasparente corniola del signor Byres architetto scozzese in Roma. Io ho pubblicata questa gemma80; ma la figura non agguaglia la beltà dell’originale, ove fra le altre parti bellissima è l’orecchia81.

..che in rilievo. §. 42. Delle gemme rilevate ossia cammei, che celebri persone rappresentano, merita il primo luogo il busto d’Augusto in una calcedonia di color di carne, alta più d’un palmo romano, e incorporata alla biblioteca Vaticana con tutto il museo del cardinal Carpegna. Buonarruoti ce ne ha data la figura e la descrizione82. Ha pur molto pregio il Caligola, che comprò in Roma il signor generale Walmoden ministro plenipotenziario della gran Brettagna presso l’Imperiai corte di Vienna.

§. 43. I due Tritoni del signor Jennings, il Giove che fulmina i Titani inciso da Atenione nel museo Farnesiano a Napoli (di cui daremo la figura a principio del Libro X.), e quello che si mostra a Semele nel museo del Principe di Piombino a Roma, sono assai pregevoli tra le gemme antiche rappresentanti figure intiere a rilievo. Ma a nessuna certamente cedono due gemme esistenti l’una presso il signor Mengs83, e l’altra nel mentovato museo Piombino, lavorate in maniera che quasi tutto il contorno delle figure d’un bellissimo bianco è rilevato, e cupo n’è il fondo: la prima rappresenta Andromeda e Perseo sedenti su un letto84, e la seconda il giudizio di Paride in cinque figure. Non possiamo [p. 31 modifica]immaginarci una perfezione maggiore, sia nel disegno, sia nel lavoro85. Nello stesso museo si vede una Ninfa sedente incisa in un agatonice86, alta circa un mezzo palmo, che è il più bel pezzo nel suo genere, e forse il solo che si trovi nel mondo.


Note

  1. La scultura nel senso suo rigoroso e stretto si riferisce ai lavori in marmo, chiamandosi plastica l’arte di far le figure di terra, statuaria l’arte di gettarle in bronzo, e intaglio l’arte di farle in legno. Aveano tai nomi anche gli antichi, come si vede presso Plinio lib. 34. cap. 7. sect. 16., e l. 35. cap. 12.
  2. Ma però se ne è parlato nel Tomo I. pag. 25. e segg.
  3. Vedi Tomo I. pag. 20. e segg.
  4. Scrive Plinio l. 35. c. 12. sect. 44., che dopo Lisistrato non si lavorava statua, o simulacro, che non se ne facesse il modello in creta.
  5. Prometeo si vede pure collo stecco in mano, e la figura sulle ginocchia in un basso-rilievo del Museo Capitolino riportato dal Bartoli Admir. Antiq. Roman. Tab. 65., dal Montfaucon Antiquit. Expl. Tom. I. par. iI. pag. 24., e ultimamente da Foggini Museo Capitol. Tom. IV. Tav. 25. pag. 119. Si vede anche in una gemma presso il Galeotti Gemmæ antiq. litt. &c. Tab. 5. n. 1., e presso altri.
  6. Plutarch. Sympos. lib. 2. probl. 3. oper. Tom. iI. pag. 636. C. [Plutarco riporta lo stesso detto De profectu in virtut. sent. in fine, pag. 88. princ.: Policleti dictum, qui difficillimum opus tractare eos pronunciavit, quibus ad unguem lutum pervenerit. οἷς ἂν εἰς ὄνυχα ὁ πηλὸς ἀφίκηται. Non pare che voglia dire altro in amendue i luoghi, se non che la parte più difficile era appunto quando altro non rimaneva a fare, che far gli ultimi ritocchi coll’ugna ai modelli di creta; senza cercare se quella s’intromettesse all’ugna e al dito: il che più facilmente poteva succedere nel maneggiare la creta per fare il modello, anzichè nel ritoccarlo quando era già quasi finito. Peraltro siccome oggidì comunemente non si adopra l’ugna a tal effetto, potrebbe darsi anche altra spiegazione al passo di Plutarco, più conforme a qualche maniera di dire, o a qualche altra usanza degli antichi artisti, che noi non conosciamo: Come, per esempio, che il modello è vicino alla sua perfezione, quando l’artista è giunto a fare anche le estremità, e le ugne della figura.
  7. Catal. Pictor. in Policl. p. 168. [Giunio seguita la traduzione di Silandro, e degli altri.
  8. lib. 1. serm. 6. vers. 32.
  9. De arte poet. vers. 254.
  10. Sat. 7. vers. 237. Conf. Rutgers. Var. lect. lib.1. cap. 2. pag. 8.
  11. lib. 1. circa fin.
  12. Vedi Tomo 1. pag. 120. e seg.
  13. Descript. des pierr. grav. du Cab. de Stosch, cl. 3, sect. 1. n. 6. pag. 315.
  14. Di gesso si facevano anche le forme per copiare le statue fin dai tempi anteriori a Lisistrato, Plin. lib. 35. cap. 12. sect. 44.
  15. Prudent. Apoth. vers. 526. [ Prudenzio parla di Giuliano l’apostata, il quale soleva mettere il capo sotto una statua d’Apollo in gesso per venerazione:  ::Quin & Apollineo frontem submittere gypso. Degl’idoli di gesso ne parla anche Arnobio Adv. Gent. lib. 6. p. 203. Giovenale Sat. 2. vers. 4. fa menzione delle molte figure del filosofo Crisippo, che in gesso si facevano; Pausania lib. 9. cap. 32. pag. 773. nomina una statua di Bacco di tal materia, e dipinta; e Plinio lib. 36. cap. 25. sect. 59. scrive, che se ne facevano figurine, e bassi-rilievi per adornare i palazzi.
  16. I ritratti degli uomini illustri pel mondo spediti da M. Varrone, sino al numero di settecento, non dovettero esser fatti in gesso, ma disegnati sulla pergamena con uno o più colori, Plinio lib. 35. cap. 2. sect. 2., da cui abbiamo questo racconto, parla d’immagini d’uomini, che chiudersi poteano, e che erano inserite ne’ codici delle opere loro. Da quell’espressione pliniana insertis voluminibus... aliquo modo imaginibus si può argomentare che tali copie fossero con leggiera tinta eseguite. [ Mi pare che Plinio dica, che Varrone inseriva nelle sue opere i ritratti degli uomini illustri che lodava, o de’ quali parlava, non già nelle opere di essi. Marcus Varro benignissimo invento, insertis voluminum suorum fecunditati, non nominibus tantum septingentorum illustrium, sed & aliquo modo imaginibus: non passus intercidere figuras, aut vetustatem ævi contra homines valere, inventor muneris etiam Diis invidiosi, quando immortalitatem non solum dedit, verum etiam in omnes terras misit, ut præsentes esse ubique, & claudi possent.
  17. Questi, e quell’altro appresso del tempio d’Iside sono di stucco.
  18. Paus. lib. 2. cap. 27. pag. 172., c. 29. pag. 179. lin. 5., cap. 32. pag. 186. lin. 28., cap. 34. pag. 193. lin. 17.
  19. Qui si può aggiugnere, che gli antichi lavoravano anche di smalto, facendone de’ bassi-rilievi, teste, e figure co’ suoi colori in tutte le parti simili a’ naturali, come osserva il Buonarruoti Osservaz. istor. sopra alc. medagl. prefaz. pag. XVII. con una testa di Fauno, e un altra d’un Sileno, e pag. XX.
  20. Ved. Tom. I. pag. 27. e segg.
  21. Fidia, al dire di Plinio lib. 34. cap. 8. sect. 19. §. 1. fu il primo che fece di tali lavori con buon successo, e poi vi riusci a perfezione Policleto, §. 2.: Primus (Phidias) artem toreuticen aperuisse, atque demonstrasse merito judicatur. §. 2.: Judicatur (Policletus) toreuticen sic erudisse, ut Phidias demonstrasse, Cosi credo, che possa spiegarsi quell’ aperuisse, atque demonstrasse: Vuol dire Plinio, che Fidia aveva introdotto l’uso più frequente di quei lavori (come pare che possa arguirti dai tanti artisti, che probabilmente tutti vissero dopo di lui, e vi si resero celebri, per attestato dello stesso l. 33. c. 12. sect. 55., lib. 34. cap. 8. sect. 19. §. 25.), ne aveva facilitata l’arte, e vi si era reso famoso per gli ornamenti fatti al Giove olimpico, come scrive lo stesso nel lib. 36. cap. 5. sect. 4. §. 4. Nè so accordarmi al signor Falconet, che nelle sue Notes sur trois livr. de Pline l'anc. liv. 34. chap. 8. pag. 80. 81. Œuvr. Tom. iiI. fa dire a questo scrittore, che Fidia il primo abbia scoperto, e insegnato l'arte di far bassi-rilievi in metalli, per poi convincerlo di errore coll’autorità di Anacreonte, che visse quasi cent’anni prima di Fidia, e ne parla nelle sue Odi 17. 18. e 51.; coll’esempio dell’arca di Cipselo descritta da Pausania lib. 4. cap. 17. pag. 419., e segg.; e degli altri fatti da Batticle, di cui parla questo medesimo autore lib. 3. cap. 18. pag. 255., non dicendo per altro l’età, in cui vivesse. Il nostro Autore, che nella prima edizione di questa storia era caduto nello stesso errore, che in questa seconda rimprovera agli altri, avea preso per lavori fatti al torno questi di Fidia.
  22. Virg. Cul. vers. 66.
  23. Non può però dirsi, che tutti gl’interpreti, e scrittori abbiano errato intorno al vero senso di quelle parole; come tra gli altri le ha capite, e spiegate Arduino al cit. lib. 34. cap. 8. sect. 19. §. a. not. 33. di Plinio, e Salmasio Exercit. Plin. in Sol. cap. 52. Tom. iI. p. 736. e seg.. molto diffusamente.
  24. Si rischiara cosi il vocabolo τορείας usato da Dione Grisostomo Orat. 30. pag. 307. D., ove parla di tazze intagliate, le quali ἕλικάς τινας καὶ τορείας aveano, cioè erano circondate di fregi e ornati di bassi-rilievi: il traduttore mal a proposito l’intese di lavori fatti al torno.
  25. in Æmil. op. Tom. I. pag. 275. A.
  26. Metam. lib. 13. vers. 679.
  27. Sicil. antiqua, lib. 2. cap. 5. pag. 301.
  28. Il signor Winkelmann nella prima edizione di questa Storia tratta in un paragrafo particolare dei più belli e più celebri marmi della Grecia; e non ben si vede, perchè, volendo egli migliorare ed accrescere l’Opera sua, abbia qui omesso tal paragrafo. Di due marmi nominatamente ivi ragiona, del pario, detto anche λίγδινος dal monte di questo nome nell’isola di Paro, e del pentelico somministrato da una cava vicina ad Atene, scopertavi da Biza di Nasso, che ne fece le tegole al tempio di Giove olimpico nell’olimpiade lxxxvii., Pausan. lib. 5. c. 10. p. 398. princ. [ Biza non iscoprì la cava, ma solamente introdusse il primo le tegole di marmo pentelico, per coprire il detto tempio; e lo prova Pausania colli due versi greci, che furono scolpiti alla base della statua, che gli fu eretta in Nasso:

    Naxi hæc Latoidæ fecit sollertia Byza,
    Cui primum secta est tegula de lapide. ]

    Maggior uso di questo che dell’altro fecero gli antichi Greci, talché di dieci statue, nove erano di marmo pentelico, ed una di pario. Id. passim. Il pentelico, sebbene men candido del marmo di Carrara, Plin. lib. 36. c. 5. princ., era però di pasta più dolce e molle; onde lavoravasi quasi come una cera. Fecero gli antichi delle pregevolissime statue in amendue quelli marmi. S’inganna dunque Isidoro Orig. lib. i 6. cap. 5., dicendo che di marmo pario non si posson avere che de’ piccoli pezzi atti solo a far vasi. [ Vedi sopra Tom. I. pag. 121. not. A. ] Altri bianchi marmi avea la Grecia. Tal era l’imezio cavato dal monte Imeto presso Atene, Strabone l. 9. pag. 613. princ. Tom. I., ed il porino che traevasi dall’Elide provincia confinante col Peloponeso. Il primo assomigliava nel candore al pentelico, al pario il secondo, se non che n’era assai più leggiero, Plin. l. 36. cap. 77. sect. 28.: e di questo erano fabbricati i due famosi tempj d’Apollo delfico, e di Giove olimpico, Herodot. lib. 5. cap. 62. pag. 401., Paus. lib. 5. cap. 10. pag. 398. princ. Celebre per la bianchezza era similmente il marmo d’Efeso, scoperto da Possidoro pastore, a cui perciò gli Efesini decretarono divini onori. Bianco pure era il marmo tasio, e ’l proconeso; ma in questo scorrevano alcune vene nericce, V. Salmas. Exerc. Plin. in Solin. cap. 37. Tom. I. p. 4195. col. 2. C.: come alcune vene gialle nel sengite, altro marmo bianco della Cappadocia, Plin. l. 36. cap. 22. sect. 46.. che prendeva il lustio in guisa da servire di tersissimo specchio, Sueton. in Domit. cap. 14. Un candore accostantesi all’avorio aveva il coralitico o sangario, Plin. lib. 36. cap. 8. sect. 14., e d’un bianco livido con macchie sanguigne erano i marmi di Lesbo, e di Jasse. Altre specie di bianchi marmi meno celebri passo sotto silenzio. Sarebbe oggidì quasi impossibile il distinguere ne’ monumenti greci, che ci rimangono, tutte le specie diverse dei marmi. Oltre i marmi bianchi, moltissimi ne aveano i Greci di varj colori e diverlamente macchiati, il caristio, ossia eubeo di color verde mare; il chio a più colori, ma specialmente venato di nero; il tenario di due specie, una nera, l’altra d’un bel verde, che era pure il color del prafino; il frigio con rotonde macchie di color di porpora; l’alabandico, il lidio, l’onichite, il conchite, e più altri che veder si possono presso il Cariofilo De antiq. marmor. pag. 3. & segg. Servirono quelli principalmente per le colonne. Quando s’introdusse in Roma il gusto d’intonacare di marmo le pareti, gusto portatovi da Mamurra, e riprovato da Plinio lib. 36. cap. 6. sect. 7., non solo vi si trasportarono i più bei marmi della Grecia e dell’Asia, ma si argomentarono gli artisti di colorirli col pennello, ed anche di connetterne uno con l’altro, incastrando, come dice Plinio lib. 35. cap. 1., un ovato di numidico in una tavola di sinnadico: due marmi che sì il traduttor italiano Domenichi, che il francese du Pinet hanno presi per due personaggi. In quell’arte i moderni artisti romani hanno certamente superati gli antichi. Molti marmi simili a quei della Grecia vanta anche la Sicilia, de’ quali eruditamente ragiona Agostino Tetamo Disserr. VII. vol. I. Saggi di Dissert. dell’Acc. Palerm.

  29. De leg. lib. 12. oper. Tom. iI. p. 956. princ.
  30. Una è quella di cui abbiamo data la figura nella Tavola XIII. Tomo I.
  31. Ora nella stessa villa, come abbiamo già detto nel Tomo precedente pag. 441. n. a.
  32. Plinio lib. 36. cap. 7. sect. 10. narra, che gli artisti si servivano a tale effetto di certa pietra detta nasso, cosi detta, come ivi nota Arduino, perchè si preparava in Nasso nell’isola di Creta, benché si trovasse nell’isola di Cipro. Aggiugne Plinio, che in appresso ai adoprarono altre pietre, portate dall’Armenia. Al dire di Vitruvio lib. 7. c. 9., le di cui parole si riportano qui appresso al capo IV. §. 7., si strofinavano le statue con cera consistente, ossia di candela, e con netti pannilini. Non dice però se questo si usasse per le statue nuove a dar loro il lustro; o se per pulire le vecchie, e per ricoprirvi qualche difetto; come si usa da qualche moderno artista nei lavori di marmo, e di altre pietre generalmente.
  33. Cosi scrive l’Algarotti Lettere sopra la pittura, lett. 1. oper. Tom. VI. pag. 7. „ Si dolgono in Francia che ripulendosi, starei per dire con poca pulitezza, le statue di Puget, e di Girardon, che sono ne’ giardini di Versaglia, ne viene raschiato via l’epidermo, e quel fior di carne, onde pare si rammollisca il marmo„: e poi si lagna, che per ravvivare gli antichi quadri de’ gran maestri Tintoretto, Tiziano, ed altri „ne levino via le unioni, i velamenti, e quella patina tanto preziosa, che lega insensibilmente le tinte, le rende più soavi, e più morbide, e che solamente può dare alle pitture quel venerabile vecchio del tempo, che vi lavorava fu con pennelli finissimi, e con incredibile lentezza, siccome egli apparve allo Spettatore in quella sua visione pittoresca„.
  34. Fra le statue più lustrate possono vedersi anche in Campidoglio nel cortile del palazzo dei Conservatori quelle dei due prigionieri, delle quali già si è parlare nel Tomo I. pag. 426., e si riparlerà in appresso lib. XI. cap. 1. §. 17. Lo sono a segno che riflettono la luce come specchi.
  35. Presso Laerzio lib. 4. segm. 61.
  36. Concederò, che l’uso di tali bagni, e delle strigili fosse ignoto ai primi Greci; ma non già che sia stato introdotto dalla mollezza de’ Romani; essendo certo, che questi da’ Greci lo hanno appreso, e presso di essi era cognito anche prima di Omero, come si rileva dalle opere di lui, e molto più frequente si andò tendendo in appresso, passando poscia ai Romani, che ne adottarono anche le parole proprie di tutte le cose, che lo concernevano. Vegg. Laurenti De baln. & med. antiq. schediasma, cap. 2., Casali De therm. & baln. vet., Ferrari De balneis post init., Denina Istoria della Grecia, Tomo iI. lib. VII. capo iiI. Mercuriale, che coll’autorità d’Ippocrate vuol provare, De arte gymnast. lib. 1. cap. 10. princ., che rari usassero il bagno ai tempi di quel gran medico, forse non lo avrà letto bene De victus rat. in morb. acut. sect. 3. §. 114., ove anzi fa capire l’opposto, e lo consiglia come un ottimo rimedio; e solo si lagna, che non si avessero luoghi più comodi, e tutte le cose necessarie a tal fine. Per l’uso delle strigili si può vedere la gemma rappresentante Tideo data nel Tomo I. pag. 161., e ciò che ne ho detto alla pag. 189.; e può osservarsi in Senofonte De exped. Cyri, lib. 1. pag. 246. D., che Xenia capitano di Ciro Minore ne’ lupercali da lui celebrati ne distribuì di quelle d’oro.
  37. Questi paragoni potranno forse rischiarare un’espressione di Dionisio Alicarnasseo, non ben intesa finora, meglio che tutte le dispute di Salmasio Not. in Tertull. de pall. p. 234., & Confut. animadv. And. Cercotii, p. 173., e di Petavio Andr. Kerckoet. Mastrigoph. part. 3. pag. 106. Dionisio, parlando della maniera di scrivere di Platone, usa queste voci: χνοῦς ἀρχαιοπινὴς e χνοῦς ὁ τῆς ἀρχαιότητος [ antiqua illa inv.. lis] Epist. ad Cn. Pomp. de Plat. oper. Tom, iI. pag. 204. lin. 7. Non potrebb’ella l’espressione dì Dionisio intendesi e spiegarsi di quel ruvido e lanuginoso dell’antichità ? La voce χνοῦς non dee quì prendersi in un senso allegorico e stiracchiato, ma naturale e ovvio, cioè della prima lanugine che adombra un mento; poiché ha quello medesimo senso quando si adopra per indicare la corteccia lanuginosa de’ pomi, come presso Aristofane Nub. vers. 974. [ Doveva dire Winkelmann, che Aristofane la prende in quel senso appunto, non già nel senso della lanuginosa corteccia de’ pomi, de’ quali non parla ]; e se si paragoni tale espressione all’applicazione che io fo della stessa immagine per la pelle di Laocoonte, si vedrà che Dionisio ha voluto dire la medesima cosa. Hardion Sur une lettre di Denys d’Alicarnasse à Pompée, pag. 128., che dopo i mentovati scrittori ha tentato di rischiarare questa frase, non ha fatto che accrescere oscurità. Con quest’immagine si spiegano pure le literæ πεπινωμέναι [eleganti] di Cicerone ad Att. lib. 14. ep. 7.
  38. Philostr. De vit. soph. lib. 2. num. 1. Herod. cap. 8. Tom. iI. pag. 556., [ altre a Tenaro, e in Africa più celebri, Plin. lib. 36. cap. 18. sect. 29.
  39. E sono amendue di basalte verde. Di paragone è la statua di un eroe nudo con una figurina allato involta in un manto nel casino della villa Negroni sull’Esquilino; ed è rimarchevole non ostante l’ignoranza a chi l’ha restaurata.
  40. Sono di bigio morato.
  41. Ne eccettueremo almeno le figure piccole; e tra le altre una femminile dell'altezza di pollici 18., di candidissimo, e pulitissimo alabastro, scopertasi in un’apertura di terreno fattasi per una scossa di terremoto li 16. gennajo 1773. fra san Paolo tre castelli, e Chaussaie in Francia, portata quindi in Parigi, e da altri creduta una Venere, da altri una Cleopatra, da altri una Rodope. Ved. Antologia Romana 1774. num. X. pag. 77.
  42. Capo IV. §. 19. pag. 137.
  43. Altro parimente con testa muliebre di alabastro orientale della maggior conservazione lo possiede il signor cavaliere de Azara; e vi si crede effigiata Antonia maggiore. Vedi appresso al capo iI. §. 22.
  44. Secondo il signor Guettard Mèm. sur le basalte des anc. & des modernes, non siamo ben sicuri, se gli antichi dessero il nome di basalte alla stessa pietra, che noi così chiamiamo, [ ed io credo che ne siamo sicurissimi per riguardo almeno al basalte nericcio antico, di cui abbiamo monumenti, convenendo alla descrizione, che ne fa Plinio lib. 36. c. 7. sect. 11., di essere cioè della durezza, e del colore del ferro; come abbiamo già notato nel Tomo I. pag. 129. not. b. ]. Dopo Plinio [a cui doveva aggiugnere sant’Isidoro Orig. lib. 16. cap. 5. ], a suo avviso, il primo a parlare di basalte fu M. Agrippa nel secolo XVI. Qualche cenno però molto prima dell’Agrippa ne fece Papia, Lex. v. Basantes, scrittore del secolo XI., che chiamollo basantes, e descrivendone la natura lo riconobbe di color terrigno e assai duro. A giudizio inoltre del citato Guettard non ci rimane nessun monumento riconosciuto dagli antichi come di basalte. La statua del Nilo circondata da puttini, la quale si vede in Campidoglio, è d’un sasso calcare e diversa da quella che, al dir di Plinio cit. lib. 36. c. 7. sect. 11., fece Vespasiano collocare nel tempio della Pace. Circa l’origine del basalte, oltre quello che ne abbiamo detto nel Tomo I. pag. 128., può vederli negli Opusculi scelti ann. 1779. P. iI. pag. 86., la Dissertazione del sig. Bergmann, che ne attribuisce la formazione all’azione unita del fuoco e dell’acqua.
  45. Rec. d’Antiq. Tom. iiI. pag. 120.
  46. Vedi sopra pag. 15. not. a.
  47. Ora restaurato nella villa Albani incontro alla statua di breccia egiziana, di cui si è parlato nel Tomo I. pag. 135.
  48. Credo cioè che voglia dire della testa posseduta da lui, e dell’altra del signor di Breteuil, delle quali parla nel Tomo 1. libro iI. capo IV. §. 9. pag. 129., e qui appresso lib. X. cap. iI. §. 19.
  49. Capo IV. §. 10. pag. 129. segg.
  50. Juvenel de Carlenc. Ess. sur l'hist. des belles lettr. Tom. IV. Arts méchan. p. 295. e 296.
  51. Vite de’ Pitt. Introduz. Tom. I. p. 40. [ È molto diverso il discorso di questo scrittore: Dice che mancando alla perfezione delle atti il saper lavorare perfettamente il porfido, Cosmo fece di non so che erbe stillar un’acqua di tanta virtù, che spegnendovi dentro ferri bollenti faceva una tempera durissima.
  52. Molto è più ragguardevole il restauro fatto in questi anni all’urna di sant’Elena, di cui si riparlerà nel libro XII. capo iiI. §. 2., con tante figure, e cavalli di quasi tutto rilievo. Oggidì gli artisti in Roma fanno assottigliare il porfido a segno di farne scatole da tabacco, e casse da orologi.
  53. Il Vasari al luogo citato pag. 37. crede che questo vaso servisse di urna sepolcrale; ed è più probabile stante la sua forma, e altezza, e che non ha alcun buco solito vedersi nelli vasi da bagni: ma non saprei approvare la congettura degli antiquari al tempo di Flaminio Vacca, i quali, com’egli riferisce nelle sue Memorie, num. 35., pensavano che anticamente fosse posto in cima al portico della Rotonda, colle ceneri di M. Agrippa; sapendo noi da Dione Cassio Hist. l. 54. c. 28. pag. 759. Tom. I., che Augusto fece seppellire Agrippa nel sepolcro, che avea destinato per sè. Può aver servito anche per qualche fontana incontro al Panteon, nella quale gettassero acqua i due leoni, che v’erano insieme quando fu trovata, e poi furono posti alla fontana Felice a Termini da Sisto V., come narra lo stesso Vacca.
  54. lib. 36. cap. 22. sect. 44.
  55. ib. cap. 13. sect. 19. §. 3.
  56. Come è, tra le altre, la Roma sulla fontana nella piazza del Campidoglio.
  57. Miscell. lib. 2. cap. 6.
  58. Tomo I. in fine.
  59. Num. 72.
  60. Num. 178.
  61. Poi si fermava col piombo. Paolo nelle Pandette lib. 6. tit. 1. De rei vindic. l. In rem actio 23. §. Item 5. Da questo giureconsulto, e da Pomponio nella l. Statuam 14, De auro, argento &c. legato, abbiamo che le statue solessero restaurarsi con braccia, gambe, o altri pezzi presi da altre statue.
  62. Non si vede altro perno in questo gruppo, se non dietro al braccio sinistro di Laocoonte, ove uno se ne vede di metallo per raffermarlo col braccio destro della figura di uno dei figli, ove si era rotto il marmo; e non può essere antico.
  63. Ved. Caylus Ree. d’Antiquit. Tom. iI. Antiq. Rom. princ. pag. 273., ove fa la stessa riflessione per tutti gli usi, che gli antichi facevano del bronzo principalmente per gli edifizj. Plinio lib. 24. c. 9. sect. 21. osserva, che il bronzo lustrato più facilmente prende la ruggine, o verderame; e che gli antichi per guardarnelo solevano ungerlo con olio, o con pece squagliata.
  64. Un’altra ragione, per cui gli antichi popoli tutti facevano uso del bronzo, e anche del semplice rame (essendo il bronzo un composto di rame, di stagno, e di altre materie) nelle statue, nelle fabbriche, nelle armi, negli utensili, e generalmente in tutti gli strumenti, per li quali ora adoprasi il ferro, si è perchè ve n’era in maggior abbondanza, che di ferro. Vegg. Goguet Della Orig. delle leggi, delle arti, ec. Tom. I. par. I. lib. iI. art. VI. cap. IV.
  65. Suetonio in Ner. cap. 38.
  66. Vitellio cioè costrinse Sabino, e gli altri Flaviani a entrare in Campidoglio, ove li oppresse incendiando il tempio di Giove capitolino. Suetonio in Aulo Vitell. c. 15.
  67. Vedi appresso libro XII. capo ultimo §.5. e 6.
  68. Traité des pierr. gray. ec.
  69. E la sardonica, l’opalo, ed altre, delle quali parla Plinio l. 37. c. 3. sect. 14. e segg.
  70. lib. 37. cap. 4. sect. 15. Solino Polyhist. cap. 52.
  71. Oggidì si mette della polvere di diamante umettata con olio sulla ruota di rame, o d’acciajo, la quale girando opera sulla pietra. Vegg. Baillou Mem. prés. ec. pag. 174.
  72. Apollod. lib. 3. cap. 12. §. 3., Schol. Pind. Nemes. 4. vers. 95. [ Chirone salvò Peleo dopo che si era destato, ed era stato assalito dai Centauri.
  73. Non è stato il solo Winkelmann fra i moderni autori, il quale abbia creduto noto agli antichi l’uso degli occhiali per ingrandire e rischiarare l’oggetto. Molti sostenitori di tale opinione novera il ch. Domenicomaria Manni Rag. 1. degli Occhiali, Tom. IV. Racc. d’Opusc. scient. Da un passo di Plinio lib. 7. cap. 53. sect. 54. mal inteso, e da un supposto verso di Plauto furono essi tratti in errore, e nello stesso vieppiù confermati da un’antica iscrizione mal interpretata, nella quale fassi menzione di certo Patroclo fabbro oculariario presso Aldo Manuzio, Reinesio, Grutero, ec. Quel tanto, a cui arrivò l’industria degli antichi, si fu di adoperare un vaso di vetro ripieno di limpid’acqua, pila detto da Seneca Quæst. nat. lib. 1. c. 6.; il qual vaso collocavasi fra ’l lume e gli oggetti per rischiararli ed ingrandirli; maniera che presso alcuni artigiani suol praticarsi anche a’ dì nostri. Volendoci noi attenere a’ documenti recati dal signor Manni Rag. 2. ibid., contro i quali nulla oppor si può di ragionevole, riconoscer dobbiamo l’invenzione degli occhiali uscita da Firenze, città, ove forse maggiore ne era il bisogno; e l’inventor di essi Salvino d’Armato degli Armati sulla fine del secolo XIII. Tal gloria gli viene attribuita non solo da alcuni scrittori vicini a que’ tempi, ma dal medesimo suo epitafio, che una volta vedeasi nella chiesa di s. Maria Maggiore di Firenze, dal quale pur ai rileva esser egli morto nel 1317. Se pel ritrovamento degli occhiali somma lode si è acquistato l’Armati, non minore al certo si deve a P. Alessandro Spina dell’Ordine de’ Predicatori, suo contemporaneo. V. Redi Lett. Tomo I. oper. Tom. IV. pag. 67. Questi al solo vederli, da per sé stesso, trovò la maniera di lavorarli, insegnandola ancora liberalmente a chi avesse voluto approfittarsene: motivo per cui divennero quelli in breve tempo noti e comuni ad altre nazioni. [ Avanti di Salvino d’Armato degli Armati parlò delle lenti, e degli occhiali, Rogerio Bacone de’ Frati Minori inglese di nazione nella sua opera, che viene intitolata Opus majus, distinct. penult. cap. ult. p. 352.; anzi, come bene osserva anche il P. Becchetti Contin. dell’istor. ecclesiast. ec. Tom. XV. lib. LXXV. §. XLVI., si suppone già inventati da altri. Ecco le di lui parole: Si homo aspiciat literas, & alias res minutas per medium crystalli, vel vitri, vel alterius perspicui suppositi literis, & sit ponto minor sphæræ, cujus convexitas sit versus oculum, & oculus sit in aere, longe melius videbit literas, & apparebunt ei majores. Nam secundum veritatem canonis quinti de sphærico (o come in altro codice perspicuo) medio, infra quod est res vel citra ejus centrum, & cujus convexitas est versus oculum, omnia concordane ad magnitudinem, quia angulus major est, sub quo videtur, & imago est major, & locus imaginis est propinquior, quia res est inter oculum, & centrum, & ideo hoc instrumentum est utile senibus, & habentibus oculos debiles: E distinct. ult. cap. uh. parla dei telelescopj. Gli antichi, per avviso di M. Varrone De sing. lat. lib. 6. princ., per veder meglio oggetti di color bianco, come lavori minuti d’avorio, si servivano di setole nere; egli però non dice come. Ma per ciò, che riguarda l’uso delle lenti predo gli antichi artisti, è decisa la questione, asserendoci il signor Dutens Origine des découv. attrib. aux mod. Tom. iI. par. iiI. chap. 10. §. 278. p. 224. di averne vedute parecchie antiche nel real museo di Portici di maggior forza di quelle uscite ordinariamente dai moderni artisti. Alcune non hanno che quattro linee di fuoco; ed una meno forte trovata nelle rovine d’Ercolano dice di possederla egli stesso. Per ricrearsi poi la vista quando erano fianchi gli artisti guardavano uno smeraldo, che col suo color verde era di sollievo. Plinio lib. 37. cap. 5. sect. 17.
  74. Epist. ad Huntingtonem, Trans. Philosoph. anno 1684. num. 158. pag 367., e num. 163., Dutens loc. cit. chap. 6. §. 240. pag. 137.
  75. lib. 37. cap. 5. sect. 42. [ Dice che vi si metteva una foglia d’oricalco.
  76. Sext. Emp. Pirrh. hypot. lib. 2. cap. 7. princ.
  77. Vedi Tomo I. pag. 324., Stosch Pierr. antiq. grav. pl. 65., ne dà la figura in rame.
  78. Libro V. capo V. §. 7. pag. 360.
  79. Stosch loc. cit. pl. 33.
  80. Monum. ant. ined. num. 196.
  81. Questa gemma è moderna, e lavoro del signor Pichler giuniore uno de’ più valenti artisti in questo genere. Essendogli stata rubata, fu innocentemente venduta per antica al signor Byres, dalle cui mani passò in Parigi: e non si sarebbe riconosciuta forse mai per moderna, se non forse per caso ritornata in mano dello stesso Pichler, il quale tosto la riconobbe, e la confessò per opera sua. E se fra tanti valentuomini non vi fu pur uno, che sappesse riconoscerla per lavoro moderno, non era da riprenderne sì aspramente Winkelmann, sino a dire, che mostrò di essere sfornito di tutto ciò, che spetta alla perizia antiquaria; come scrisse il sig. abate Bracci Dissert. sopra un clipeo vot. ec. prefaz. pag. 7.
  82. Osserv. sopra alc. med. pag. 45.
  83. Dopo la di lui morte comprata dall’Imperatrice di tutte le Russie per 5000. scudi romani.
  84. O piuttosto su d’uno scoglio.
  85. Questa seconda non agguaglia, il merito dell'altra.
  86. È una corniola venata di calcedonia.