Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XX. La nuova letteratura/VI.
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Il 1815}} è una data memorabile come quella del concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo politica, ma filosofica e letteraria, iniziata giá negli spiriti, come se ne veggono le orme anche ne’ Sepolcri, e consacrata nel di ciotto brumaio. La reazione fu cosí rapida e violenta come la Rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla, facendo delle concessioni e cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale, che tutti gli attori della Rivoluzione furono mescolati in una comune condanna, giacobini e girondini, Robespierre e Danton, Marat e Napoleone. Il «terrore bianco» successe al «rosso». Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico, letterario, politico. I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo, e vi sorse contro lo spiritualismo, portato sino all’idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il dritto divino, alla sovranitá popolare la legittimitá, a’ dritti individuali lo Stato, alla libertá l’autoritá o l’ordine. Il medio evo ritornò a galla, glorificato come la culla dello spirito moderno, e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt’ i suoi indirizzi. Il cristianesimo, bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali, divenne il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati «pagani», e le dottrine liberali furono qualificate, senz’altro, pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltá, e il papato potente fattore di libertá e di progresso. Mutarono i criteri dell’arte. Ci fu un’arte pagana e un’arte cristiana, di cui fu cercata la piú alta espressione nel gotico, nelle ombre, ne’ misteri, nel vago e nell’indefinito, in un di lá che fu chiamato «l’ideale», in un’aspirazione all’infinito, non capace di soddisfazione, perciò malinconica: la malinconia fu battezzata e detta qualitá «cristiana»; il sensualismo, il materialismo, il plastico divenne il carattere dell’arte «pagana»: sorse il genere cristiano «romantico» in opposizione al genere «classico». «Religione», «fede», «cristianesimo», l’«ideale», l’«infinito», lo «spirito», il «trono e l’altare», la «pace e l’ordine» furono le prime parole del nuovo secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Chateâubriand, Staël, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais. E proprio nel i8i5 uscivano in luce gl’Inni sacri del giovane Manzoni. Storia, letteratura, filosofia, critica, arte, giurisprudenza, medicina, tutto prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo, il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.
Il movimento non era giá fittizio e artificiale, sostenuto da penne salariate, promosso dalle polizie, suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un serio movimento dello spirito, secondo le eterne leggi della storia, al quale partecipavano gl’ingegni piú eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento esagerato, senza dubbio, ne’ suoi inizi, perché mirava non solo a spiegare, ma a glorificare il passato, a cancellare dalla storia i secoli, a proporre come modello il medio evo. Ma l’una esagerazione chiamava l’altra. La dea Ragione e la comunione de’ beni avea per risposta l’apoteosi del carnefice e la legittimitá dell’Inquisizione.
Ma l’esagerazione fu di corta durata, e la reazione falli ne’ suoi tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sé infiniti nuovi interessi, venuti su con la Rivoluzione: interessi materiali, morali, intellettuali. D’altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran parte la monarchia, che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era interesse de’ principi restaurare le maestranze, le libertá municipali, le classi privilegiate, tutte quelle forze collettive sparite nella valanga rivoluzionaria, nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l’assetto economico-sociale consacrato da’ nuovi codici, e la monarchia assoluta usci piú forte dalla burrasca. Perché il clero e la nobiltá, un giorno suoi rivali, divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi; e, scomparse le forze collettive naturali, potè con facilitá riordinare la societá sopra aggregazioni artificiali, necessariamente sottomesse alla volontá sovrana: burocrazia, esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava alla caccia degl’impieghi, e, centralizzando gli affari, sopprimeva ogni libertá e movimento locale e teneva nella sua dipendenza province e comuni. Una moltitudine d’impiegati invasero lo Stato come cavallette, ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto, di cui era istrumento. L’esercito, divenuto permanente, anzi una istituzione dello Stato, fu ordinato a modo di casta, contrapposto ai cittadini, evirato dall’ubbidienza passiva e avvezzo a ufficio piú di gendarme che di soldato. Il clero, stretta l’alleanza fra il trono e l’altare, si recò in mano l’educazione pubblica, vigilò scuole, libri, teatri, accademie, osteggiò tutte le idee nuove, mantenne l’ignoranza nelle moltitudini, trattò la coltura come sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia, penetrata in tutte queste aggregazioni governative, divenuto spia l’impiegato, il soldato e il prete. Ne usci una corruzione organizzata, chiamata «governo», o in forma assoluta o in maschera costituzionale.
Una reazione cosí fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee moderne, e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna, di Napoli, di Torino, di Parigi, delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co’ suoi dritti individuali, co’ suoi principi d’eguaglianza, con la sua «carta» dell’Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia per vivere si trasformò, si ammodernò, prese abiti borghesi, divise il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia, soddisfatti tutti. Il terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.
Su questo compromesso visse l’Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la capacitá apersero la via a’ piú alti uffici, rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra piú aspra al feudalismo, alla manomorta, a’ privilegi. La borghesia trovò largo pascolo alla sua attivitá e alla sua ambizione ne’ parlamenti, ne’ consigli comunali e provinciali, nella guardia nazionale, nel giuri, nelle accademie, nelle scuole, sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva piú «aristocrazia», si diceva «bancocrazia», alimentata dalla libera concorrenza. Chi aveva piú forza vinceva e dominava, forza di censo, d’ingegno e di lavoro. L’attivitá intellettuale, stimolata in tutti i versi, fra tanta pubblica prosperitá faceva miracoli. All’ombra della pace e della libertá fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove gli ordini costituzionali non poterono vincere, come in Italia, la reazione allentò i suoi freni, la borghesia ebbe una parte piú larga alle pubbliche facende, e vi s’introdusse un modo di vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il dritto divino e la volontá del popolo si associavano nelle leggi e negli scritti, formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e il popolo, ma fra il papato e la libertá.
Adunque, sedati i primi bollori, quel movimento, che aveva aria di reazione, era in fondo la stessa Rivoluzione, che, ammaestrata dalla esperienza, moderava e disciplinava se stessa. I disinganni, le rovine, tanti eccessi, un ideale cosí puro, cosí lusinghiero, profanato al suo primo contatto col reale, tutto questo dovea fare una grande impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle moltitudini, assalito con una violenza che tirava in suo favore anche gl’indifferenti, e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore. L’esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto, e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l’opera de’ secoli. E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia preceduta dalla persuasione, secondo quel motto di Campanella che «le lingue precedono le spade». Evidentemente la Rivoluzione aveva errato, esagerato le sue idee e le sue forze; ed ora si rimetteva in via con minor passione, ma con maggior senso del reale, confidando piú nella scienza che nell’entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono, sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimottavo, che dallo stato spontaneo e istintivo passava nello stadio della riflessione, e rettificava le posizioni, riduceva le esagerazioni, acquistava il senso della misura e della realtá, creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo, che giungeva alla coscienza di sé e prendeva il suo posto nella storia. Chateâubriand, Lamartine, Victor Hugo, Lamennais, Manzoni, Grossi, Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau, di Alfieri e Foscolo. Sono anch’essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo, il loro programma è sempre la «carta» dell’Ottantanove, il «credo» è sempre «libertá, patria, uguaglianza, dritti dell’uomo». Il sentimento religioso, troppo offeso, si vendica, offende a sua volta: pure, non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge, ma impressionato dello spirito nuovo, col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neocattolici non è di negare quel programma, come fanno i puri reazionari, co’ gesuiti in testa; ma è di conciliarlo col sentimento religioso, di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo Sarpi, ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento religioso, a discutere il cristianesimo, a riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma, d’altra parte, il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo, e prende quel linguaggio e quelle idee, e odi parlare di una «democrazia cristiana» e di un «Cristo democratico», a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali, come l’«apostolato delle idee», il «martirio patriottico», la «missione sociale», la «religione del dovere». La Rivoluzione, scettica e materialista, prende per sua bandiera «Dio e popolo»; e la religione, dommatica e ascetica, si fa valere come poesia e come morale, e lascia le altezze del soprannaturale e s’impregna di umanismo e di naturalismo, si avvicina alla scienza, prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo accoglie in sé gli elementi vecchi, ma trasformandoli, assimilandoli a sé, e in quel lavoro trasforma anche se stesso, si realizza ancora piu. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono, di una reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia «per la grazia di Dio e per la volontá del popolo».
La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della veritá, rappresentata non come un assoluto immobile a priori, ma come un divenire ideale, cioè a dire secondo le leggi dell’intelligenza e dello spirito. Onde nasceva l’identitá dell’ideale e del reale, dello spirito e della natura, o, come disse Vico, la «conversione del vero col certo». Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in qua, li allogava, li legittimava, li spiritualizzava, dava a quelli un significato e uno scopo, creava la filosofia della storia; d’altra parte realizzava il divino, togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario, in opposizione recisa col medio evo e con lo scolasticismo, quantunque apparisca una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo decimottavo. Sicché quel movimento, in apparenza reazionario, dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base piú solida e razionale.
Il primo periodo del movimento fu detto «romantico», in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo, come le vere fonti della vita moderna, il suo tempo eroico, mitico e poetico. Il Rinascimento fu chiamato «paganesimo», e quell’etá, che il Rinascimento chiamava «barbarie», risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e i tempii e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico, il vaporoso, l’indefinito, il sentimentale liquefecero le immagini, riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne usci nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito, il cui storico era Carlo Troya e l’artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione contro Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l’Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie, e vi s’internava, vi s’immedesimava, ricreava quelle immagini e quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni, vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo, la legittimitá delle sue aspirazioni. Alle antichitá greche e romane successero le antichitá nazionali, penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore, dallo spirito cattolico. Si svegliava l’immaginazione, animata dall’orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva piú vivace il senso metafisico e il senso poetico. Risorge l’alta filosofia e l’alta poesia. Lirica e musica, poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.
Ma il romanticismo come il classicismo erano forme sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano moderni, e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la semplicitá dello spirito religioso: è un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna, nella quale ha lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono piú le passioni ardenti e astiose di quel secolo, ma ci sono le sue idee: la tolleranza, la liberta, la fraternitá umana, consacrata da una religione di pace e di amore, purificata e restituita nella sua verginitá, nella purezza delle sue origini e de’ suoi motivi. Una reazione cosí fatta giá non è piú reazione: è conciliazione, è la Rivoluzione stessa vinta, che non minaccia piú, e lascia il sarcasmo, l’ironia, l’ingiuria, e, trasformatasi in apostolato evangelico, prende abito umile e supplichevole dirimpetto agli oppressori, e fa suo il pergamo, fa suo Dio e Cristo, e la Bibbia diviene l’«ultima parola di un credente». Lo spirito non rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalitá del dogma. Oramai, conscio di sé, plasma il divino a sua immagine, lo colloca e lo accompagna nella storia. La «divina commedia» è capovolta: non è l’umano che s’indfa, è il divino che si umanizza. Il divino rinasce, ma senti che giá innanzi è nato Bruno, Campanella e Vico.
La stella di Monti scintillava ancora, cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie, Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel i8i5, tra il rumore de’ grandi avvenimenti, usciva in luce un libriccino intitolato Inni, al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co’ Carmi; Manzoni apriva il suo con gli Inni. Il Natale, la Passione, la Risurrezione, la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali, Marie e Gesú ce n’erano infiniti nella vecchia letteratura, materia insipida di canzoni e sonetti, tutti dimenticati. Mancata era l’ispirazione, da cui uscirono gl’inni de’ santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de’ nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato il Seicento e l’Arcadia, insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo «concordato». Ricompariva quella vecchia materia, ringiovanita da una nuova ispirazione.
Ciò che move il poeta non è la santitá e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento, con semplicitá di credente. Mira a trasportarlo nell’immaginazione, e, se posso dir cosí, a naturalizzarlo. Non è piú un «credo», è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo, e che non si attenti di presentare a’ contemporanei le disusate immagini se non pomposamente decorate. Non gli basta che siano sante: vuole che siano belle. L’idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte, anzi come sostanza dell’arte moderna, chiamata «romantica». La critica entrava giá per questa via, e fin d’allora sentivi parlare di «classico» e di «romantico», di «plastico» e di «sentimentale», di «finito» e d’«infinito». L’inno era poesia essenzialmente religiosa, la poesia dell’infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a’ classici per la materia e per la forma. Pure, il poeta, volendo esser romantico, rimane classico. Invano si arrampica tra le nubi del Sinai: non ci regge, ha bisogno di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro, plastico, determinato, armonioso; le sue forme sono descrittive, rettoriche e letterarie, pur vigorose e piene di effetto, perché animate da immaginazione fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo, che in quel ritorno delle idee religiose non abdica, e penetra in quelle idee e se le assimila, e vi cerca e vi trova se stesso. Perché la base ideale di quegl’Inni è sostanzialmente democratica: è l’idea del secolo battezzata e consacrata sotto il nome d’«idea cristiana», l’eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo, la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade, «libertá, uguaglianza, fratellanza», vangelizzata; è il cristianesimo ricondotto alla sua idealitá e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta, pittoresca nelle sue visioni, semplice e commovente ne’ suoi sentimenti, come di un mondo ideale riconciliato e concorde, ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore, che nel suo dolore pensò a tutt’i figli d’Eva; ivi è Maria, nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito, che scende, aura consolatrice, ne’ languidi pensieri dell’infelice; ivi è il regno della pace, che il mondo irride, ma che non può rapire: il povero, sollevando le ciglia al cielo, «che è suo», volge 1 lamenti in giubilo, pensando a cui somiglia.
In questa ricostruzione di un mondo celeste accanto a una lirica di pace e di perdono, alta sulle collere e sulle cupidigie mondane, si sviluppa l’epica, quel veder le cose umane dal di sopra, con l’occhio dell’altro mondo. Questa novitá di contenuto, di forma e di sentimento rende altamente originale il Cinque maggio, composizione epica in forme liriche. L’individuo, grande ch’ei sia, non è che un’«orma del Creatore», un istrumento «fatale». La gloria terrena, posto pure che sia vera gloria, non è in cielo che «silenzio e tenebre». Sul mondano rumore sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita, che affanna e consola. La sua mano toglie l’uomo alla disperazione e lo avvia pe’ floridi sentieri della speranza. Risorge il «Deus ex machina», il concetto biblico dell’uomo e dell’umanitá. La storia è la volontá imperscrutabile di Dio. Cosí vuole. A noi non resta che adorare il mistero o il miracolo, «chinar la fronte». Meno comprendiamo gli avvenimenti, e piú siamo percossi di maraviglia, piú sentiamo Dio, l’incomprensibile. La storia anche di ieri si muta in leggenda, diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo, un’orma piú vasta di Dio. A che fine? per quale missione? L’ignoriamo. È il secreto di Dio. Cosí volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria, quella che piú colpisce le immaginazioni: le battaglie, le vicende assidue, gli avvenimenti straordinari, le grandi catastrofi, le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall’altezza e moralitá de’ fini, ma dalla grandezza e potenza del genio, dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe, di cui ciascuna per la vastitá della prospettiva è quasi un piccolo mondo e te ne viene una impressione, come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di prospetto, ed è sempre colossale. L’occhio profondo e rapido dell’ispirazione divora gli spazi, aggruppa gli anni, fonde gli avvenimenti, ti dá l’illusione dell’infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva, nella maggior chiarezza e semplicitá dell’espressione. Le immagini, le impressioni, i sentimenti, le forme, tra quella vastitá di orizzonti, ingrandiscono anche loro, acquistano audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste, nelle sue intimitá, nella sua azione storica, ne’ suoi effetti su’ contemporanei, nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi, dove precipitano gli avvenimenti e i secoli, come incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi, appena frenati dalle rime.
Questo è il primo movimento, epico-lirico, del secolo decimonono. Al macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo, semplice colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo nell’immaginazione, che ricostruisce a sua immagine la storia dell’umanitá e il cuore dell’uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza nel mondo, ricomparisce il miracolo nella storia, rifioriscono la speranza e la preghiera, il cuore si raddolcisce, si apre a sentimenti miti: su’ disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo, disegnò Manzoni con un entusiasmo giovanile, riflesso di quell’entusiasmo religioso, che accompagnava a Roma il papa reduce, ispirava ad Alessandro la federazione cristiana, prometteva agli uomini stanchi un’èra novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni; e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie, allegorizzando con colori antichi cose moderne, Manzoni ricostruiva l’ideale del paradiso cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va, e resta il classicismo: il secolo decimottavo è rinnegato, e restano le sue idee. Mutata è la cornice: il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La cornice è una illuminazione artistica, una bell’opera d’immaginazione, da cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di un genio, rifatta dal genio. L’interesse non è nella cornice, è nel quadro.
Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l’assoluto, l’idea; Cristo è l’idea in quanto è realizzata, l’idea naturalizzata; lo Spirito è l’idea riflessa e consapevole, il Verbo; la Trinitá teologica diviene la base di una trinitá filosofica. Il Dio teologico è l’essere nel suo immediato, il nulla, un Dio astratto e formale, vuoto di contenuto. Dio nella sua veritá è lo spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica, natura, spirito, sono i tre momenti della sua esistenza, la sua storia: una storia dove niente è incomprensibile e arbitrario, tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato dovea essere. La schiavitú, la guerra, la conquista, le rivoluzioni, i colpi di Stato non sono fatti arbitrari: sono fenomeni necessari dello spirito nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi, come la natura; la storia del mondo è la sua storia, è logica viva, e si può determinare a priori. Religione, arte, filosofia, dritto, sono manifestazioni dello spirito, momenti della sua esplicazione. Niente si ripete, niente muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo, che è lo spiritualizzarsi dell’idea, una coscienza sempre piú chiara di sé, una maggiore realtá.
In queste idee, codificate da Hegel, ricordi Machiavelli, Bruno, Campanella, soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi, che egli traeva da’ fatti sociali, ora si cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce un’appendice della Scienza nuova, la sua metafisica sotto nome di «logica»: compariscono vere teogonie o epopee filosofiche, con le loro ramificazioni. Hai la filosofía delle religioni, la storia della filosofia, la filosofia dell’arte, la filosofia del dritto, la filosofia della storia, illuminata dall’astro maggiore, la logica, o, come dice Vico, la «metafisica». Tutto il contenuto scientifico è rinnovato. E non solo nell’ordine morale, ma nell’ordine fisico. Hai una filosofia della natura come una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia, momenti dell’idea nella sua manifestazione.
Il misticismo, fondato sull’imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato dal sentimento, dá luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta borghesia, perché da una parte rigettando il misticismo, prende un aspetto laicale e scientifico, e dall’altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari come esplosioni plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile, fondato sullo sviluppo pacifico della coltura: alla parola «rivoluzione» succede la parola «evoluzione». Non si dice piú «libertá», si dice «civiltá». «progresso», «coltura». Sembra trovato oramai il punto, ove s’accordano autoritá e libertá. Stato e individuo, religione e filosofia, passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace, come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di «ecletismo». La Rivoluzione gitta via il suo abito rosso, e si fa cristiana e moderata, sotto il vessillo tricolore, vagheggiando, come ultimo punto di fermata, le forme costituzionali, e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e divennero il «credo» delle classi colte. La parte liberale si costituí come un centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria, che essa chiamava i «partiti estremi». Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia, e l’ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto, il bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso pacifico e legale, governava la borghesia sotto nome di «partito liberale-moderato». Teneva in iscacco la dritta, perché, se combatteva i gesuiti e gli oltramontani, onorava il cristianesimo, divenuto nel nuovo sistema l’idea riflessa e consapevole, lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale, ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino, ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione, e con riverenza de’ ministri di Dio. Cosi tirava dalla sua i cristiani liberali e patrioti e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco la sinistra rivoluzionaria, perché, se respingeva i suoi metodi, se condannava le sue impazienze e le sue violenze, accettava in astratto le sue idee, confidando piú nell’opera lenta, ma sicura, dell’istruzione e dell’educazione che nella forza brutale. Per queste vie la Rivoluzione, sotto aspetto di conciliazione, si rendeva accettabile a’ piú e si rimetteva in cammino.
Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica e tradizionale, anch’ella gridò «libertá» nel secolo scorso, e, perduto il rispetto alle regole e all’autoritá, acquistò una certa indipendenza di giudizio. illuminata ne’ migliori dal buon senso e dal buon gusto. L’attenzione dall’esterno meccanismo si volse alla forza produttiva, cercando i motivi e il significato della composizione nelle qualitá dello scrittore: l’arte ebbe il suo «cogito» e trovò la sua formola nel motto: «Lo stile è l’uomo». Ma era una critica d’impressioni piú che di giudizi, di osservazioni piú che di principi. Con la nuova filosofia, il belio prese posto accanto al vero e al buono, acquistò una base scientifica nella logica, divenne una manifestazione dell’idea, come la religione, il dritto, la storia: avemmo una filosofia dell’arte, l’estetica. Stabilito un corso ideale della umanitá, l’arte entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni dello spirito, e prese dalla qualitá dell’idea la sua essenza e il suo carattere. Materia principale della critica fu l’idea col suo contenuto: le qualitá formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l’idea «orientale», l’idea «pagana» o «classica», l’idea «cristiana» o «romantica» nella religione, nella filosofia, nello Stato, nell’arte, in tutte le forme dell’attivitá sociale uno sviluppo storico a priori, secondo la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell’idea divenne un antecedente obbligato di ogni trattato di estetica, come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale dell’arte fu cercare l’idea in ogni lavoro dell’immaginazione e misurarlo secondo quella. Rivenne sú il concetto cristiano-platonico dell’arte, espresso da Dante, ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero «sotto il velo della favola ascoso», o il vero «condito in molli versi». Divenuta la favola un velo dell’idea, ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche, e le concezioni artistiche si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina commedia, materia d’infiniti conienti filosofici, aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in moda un certo filosofismo nell’arte anche presso i migliori, anche presso Schiller. E non solo la filosofia, ma anche la storia divenne il frontispizio obbligato della critica, trattandosi di coglier l’idea non nella sua astrattezza, ma nel suo contenuto, nelle sue apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle idee, sulle istituzioni, su’ costumi, sulle tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere d’arte, sulla formazione successiva della materia artistica: al motto antico: «Lo stile è l’uomo» successe quest’altro: «La letteratura è l’espressione della societá». Ne usci un doppio impulso: sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria di fatti, ma la manifestazione progressiva e razionale dell’idea, una dialettica vivente, gli spiriti si affrettarono alla sintesi e costruirono vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo fu rifatta, la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio metafisico, e in tutte le direzioni: religioni, arti, filosofie, istituzioni politiche, leggi: la vita intellettuale, morale e materiale de’ popoli. Questo fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore dell’idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale. Ma queste sintesi frettolose, queste soluzioni spesso arrischiate de’ problemi piú delicati urtavano alcuna volta co’ dati positivi della storia e delle singole scienze, ed erano troppo visibili le lacune, i raccozzamenti disparati, le interpretazioni forzate, gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste costruzioni ideali sorse la paziente analisi: il metodo di Vico parve piú lungo e piú arduo, ma piú sicuro; e si ricominciò il lavoro a posteriori, ingolfandosi lo spirito nelle piú minute ricerche in tutt’ i rami dello scibile. Il movimento di erudizione e d’investigazione, interrotto in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da’ sistemi assoluti del secolo decimottavo, tutti di un pezzo, tutti ragionamento, con superbo disdegno di citazioni, di esempli, di ogni autoritá dottrinale, quasi avanzo della scolastica, ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa, massime in Germania: ritornavano i Galilei, i Muratori e i Vico, si sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico, si aggrandiva il campo delle scienze, e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami, soprattutto nelle scienze naturali, nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della coltura, stata prima poco piú che greco-romana, guadagnò di estensione e di profonditá. Abbracciò l’Oriente, il medio evo, il Rinascimento. È con tale attivitá di ricerca e di scoperta, che lo scibile ne fu rinnovato.
Stavano dunque di fronte due tendenze: l’una ideale, l’altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d’induzioni. E spesso s’incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto de’ fatti, e proclamava che il vero ideale è storia, è l’idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia, nel regno de’ principi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo divenire, la storia. Parimente la scuola storica era tutt’altro che empirica, ed usciva dalla cerchia de’ fatti, ed aveva anch’essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La piú audace speculazione si maritava con la piú paziente investigazione. Le due forze unite, ora parallele, ora in urto, ora di conserva, posero in moto tutte le facoltá dello spirito, e produssero miracoli nelle teorie e nelle applicazioni. Al secolo de’ lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverí ne’ tre grandi italiani i suoi padri, il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua Bibbia, la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate tutte le forze del secolo: la speculazione, l’immaginazione, l’erudizione. Di lá partiva quell’alta imparzialitá di filosofo e di storico, quella giustizia distributiva ne’ giudizi, che fu la virtú del secolo. Passato e presente si riconciliarono, pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non vai collera, non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua infallibilitá e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla critica, quella vista superiore dello spirito consapevole, che riconosce se stesso nel mondo e non si adira contro se stesso.
La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia diventano l’antecedente della critica letteraria. L’opera d’arte non è considerata piú come il prodotto arbitrario e subiettivo dell’ingegno nell’immutabilitá delle regole e degli esempli, ma come un prodotto piú o meno inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua esistenza. L’ingegno è l’espressione condensata e sublimata delle forze collettive, il cui complesso costituisce l’individualitá di una societá o di un secolo. L’idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno a sé, nella societá dove è nato, dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea, salvo che di quella è in lui piú sviluppata l’intelligenza e il sentimento. La sua forza è di unirvisi in ispirito, e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista, mutati i criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale, e l’uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl’ideali tutti di un pezzo, ch’erano decorati col nome di «classici», furono giudicati una contraffazione dell’ideale, l’idea nella sua vuota astrazione, non nelle sue condizioni storiche, non nella varietá della sua esistenza. Cadde la. rettorica con le sue vuote forme, cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie, rivenne sú il vecchio motto di Goldoni: «Ritrarre dal vero, non guastar la natura». Il piú vivo sentimento dell’ideale si accompagnò con la piú paziente sollecitudine della veritá storica. L’epopea cesse il luogo al romanzo, la tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate, le romanze, le fantasie e gl’inni. La naturalezza, la semplicitá, la forza, la profonditá, l’affetto furono qualitá stimate assai piú che ogni dignitá ed eleganza, come quelle che sono intimamente connesse col contenuto. Dante, Shakespeare, Calderon, Ariosto, reputati i piú lontani dal classicismo, divennero gli astri maggiori. Omero e la Bibbia, i poemi primitivi e spontanei, teologici o nazionali, furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all’elegante storico, e il canto popolare alla poesia solenne. Il contenuto nella sua nativa integritá valse piú che ogni artificiosa trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi fantastici e poetici, tutte quelle pompe fattizie, che l’imitazione classica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa, imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.