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Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto: — Se io vado, chi resta? — Restò il povero Dino. Certo, l’opera di Dante sarebbe stata piú utile a Firenze, dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla. Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:


Levatevi, o malvagi cittadini pieni di scandoli, e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani ed istendete le vostre malizie... Non penate piú: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra cittá. Spandete il sangue de’ vostri fratelli, spogliatevi della fede e dell’amore, nieghi l’uno all’altro aiuto e servigio... Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una... Non v’indugiate, miseri: ché piú si consuma in uno di nella guerra, che molt’anni non si guadagna in pace; e picciola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.


Qui non ci è l’uomo politico. Ci è la realtá vista da un aspetto puramente morale e religioso, come negli ascetici: il concetto è lo stesso, la materia è diversa. Considerata cosí, la realtá riesce al buon Dino altra che non pensava; e in luogo di riconoscere il suo errore, se la prende con la realtá e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose, si che divenne il trastullo degli uni e degli altri: perdette lo Stato e fu calunniato, come avviene a’ vinti. Allora prende la penna e li maledice tutti, Neri e Bianchi, raccontando i fatti con tale ingenuitá che, se le male passioni degli altri son manifeste, non è men chiara la sua soverchia bontá.

Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio, largo promettitore purché «sia ubbidita la sua volontá», furono in Firenze eletti i nuovi signori, e Dino fu di quelli. Piacque la scelta, perché «uomini non sospetti e buoni,... sanza baldanza, e aveano voluntá d’accomunare gli ufici, dicendo: — Questo è l’ultimo rimedio». — Questo è il giudizio che porta Dino di sé e de’ colleglli. Ma «i loro avversari n’ebbono speranza, perché li conosceano