Sotto il velame/L'altro viaggio/X
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X.
Torniamo all’“altro viaggio„. Dante vede la espiazione di sette peccati nell’inferno e la purgazione dei medesimi sette nel purgatorio. Nell’inferno la ferita fu mortale; nel purgatorio si ricuce la piaga che mortale non fu.
Nelle cornici non troviamo peccatori, che fossero di malizia;1 non troviamo traditori pentiti tra i superbi, e frodolenti pentiti tra gl’invidi, e violenti tra gl’iracondi. Insomma nelle tre più basse cornici si purgano la superbia, la invidia e l’ira, senz’atto d’ingiuria, il qual atto sarebbe tradimento, frode e violenza. Come mai? Dante forse ebbe la mente a un passo d’Isaia: Non noceranno e non uccideranno in tutto il monte santo mio.2 Dante praticamente non ci ha mostrato nelle tre cornici alcuno che abbia veramente nociuto: teoricamente non ha esclusi costoro, poichè dall’antipurgatorio saliranno, quando che sia, al vero purgatorio alcuni, che nocquero sì e uccisero. Ma procediamo.
In ognuna delle sette cornici il viatore sente cantare una beatitudine. La voce delle beatitudini suona nell’uscir dalle cornici, così: Beati pauperes spiritu, dopo la superbia; Beati misericordes, dopo l’invidia; Beati pacifici che son senz’ira mala, dopo l’ira; Qui lugent... beati, dopo l’accidia; Quei ch’hanno giustizia a lor disiro... beati, cioè beati quelli che sitiunt giustizia, dopo l’avarizia; Beati... quelli che esuriunt quanto è giusto, dopo la gola; Beati mundo corde, dopo la lussuria.3
Sottinteso è sempre il premio, che è nell’Evangelista, in varie guise; e specialmente quello che si propone nella prima e nell’ultima: Beati i poveri in ispirito, chè di essi è il regno dei cieli; beati quelli dal cuore puro, chè essi Dio vedranno. Per Dante sono pronunziate tali divine parole; e Dante andrà nel regno de’ cieli e vedrà Dio, così come qualunque altra di quell’anime penitenti via via. Il peccato si cancella e suona l’annunzio. Ora noi dobbiamo aspettarci (senz’essere così indiscreti da pretendere: Dante farà quel che crede!), noi peraltro dobbiamo aspettarci di trovare nel paradiso di codesti poveri in ispirito e misericordiosi e vai dicendo. Ma, prima di tutto: codeste beatitudini non sono propriamente quelle di Matteo e tutte quelle di Matteo.4 Nel suo Vangelo, dopo i poveri sono i miti che possederanno la terra; e nella Commedia non sono. Di più, Dante fa due beatitudini d’una che è semplice: Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, che saranno sazi; di più, il Vangelo ha: Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia; e Dante questi non li ha. Di più, l’ordine è diverso. Quello di Matteo è questo: poveri, miti, piangenti, famelici e assetati, misericordi, mundicordi, pacifici, perseguitati. Quello di Dante abbiamo veduto che finisce coi mundicordi. E di ciò si vede la ragione. Quella beatitudine si conclude con le parole: chè Dio vedranno. Orbene: la mondizia del cuore è “l’effetto della vita attiva che dispone alla vita contemplativa„: questo effetto è che “la mente non sia macchiata di passioni„.5 “La mondizia dell’occhio dispone a veder chiaro; perciò ai mundicordi è promessa la divina visione„.6 Vero è che un senso analogo a questa il dottore trova in quella che è veramente ultima nello Evangelista: beati i pacifici; ma Dante ha interpretata codesta, non so se a modo suo o di altri, come equivalente a quella che ha omessa: Beati i miti o mansueti. Il fatto è che tra Beatrice e lui è il muro di fuoco, e Beatrice, raggiandogli con gli occhi, lo condurrà alla visione di Dio. Per ciò Dante ha voluta ultima questa beatitudine che promette la visione. Egli riassume con essa i premi che nelle altre sono promessi variamente: veder Dio. E ciò conduce a pensare che le beatitudini egli concepisca come atti della vita attiva, per i quali l’uomo si faccia degno della contemplazione. Per contemplare, l’uomo deve essere povero in ispirito, misericorde, pacifico, piangente, sitibondo di giustizia, esuriente quanto è giusto, e infine, e per concludere, di cuore mondo: mondo è l’occhio allora, e vedrà.
Ora, secondo S. Agostino, contrari ai sette vizi o peccati sono le sette virtù o doni dello Spirito santo.7 E il medesimo attribuisce a questi doni di Isaia le beatitudini dell’Evangelo.8 Al che acconsente il dottore d’Aquino, dicendo che “le beatitudini si distinguono dalle virtù e dai doni, non come abiti distinti da quelle e quelli, ma come atti si distinguono da abiti„. Sicchè di quei beati di Dante, si avrebbe a supporre che avessero in abito un dono dello Spirito santo corrispondente alle singole beatitudini. E pongo il quesito, perchè Dante, riducendo le beatitudini da otto a sette (come aveva esempi), e specialmente facendo ultima la penultima, e fondendo l’ultima dei pacifici nella seconda dei miti; e ponendo in opposizione le sette beatitudini ai sette peccati, ai quali secondo S. Agostino sono opposti i doni dello Spirito; dà a divedere che ha certo pensato a qualche cosa di simile. Poi nella visione della foresta sono sette candelabri, che sembrano questi doni.9 Infine in ogni cornice vi è, di carità opposta al vizio, un esempio tratto dalla dolce storia di Maria.
Donde ciò? Da questo che Maria è come il simbolo del purgatorio, perchè ella ebbe duplice “purgazione„ dallo Spirito, avanti e mediante la concezione dell’uomo Dio; ch’ella fu “mondata„ dall’infezione del fomite, sì che a lei si riferiscono le parole del Cantico: Tutta bella sei, amica mia, e “macchia„ non è in te.10 Or poichè questa sua purgazione e mondizia è opera dello Spirito, dacchè ella è “quell’unica sposa dello Spirito santo„;11 si ha da credere che in essa valessero questi doni o spiriti o virtù; e che Dante, come vide il primo fatto, così asserisce il secondo. Tanto più che i doni sono tra loro connessi nella carità, come quelli che sono alcuni abiti che perfezionano l’uomo a ciò che prontamente segga l’istinto dello S. S.: e “lo S. S. abita in noi mediante la carità„.12 Ora chi dice Maria, dice carità:13
Qui sei a noi meridiana face
di caritate:
come esclama Bernardo nel paradiso.
Ma più certo indizio del pensiero di Dante è nel Convivio. “Sono alcuni di tali opinioni, che dicono, se tutte le precedenti virtù (le undici di Aristotele, che Dante nella Comedia lascia da parte per le quattro cardinali) s’accordassero sopra la produzione d’una anima nella loro ottima disposizione, che tanto discenderebbe in quella della Deità, che quasi sarebbe un altro Iddio incarnato: questo è quasi tutto ciò che per via naturale dicere si può. Per via teologica si può dire, che poichè la somma Deità, cioè Iddio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette, quanto apparecchiata è a riceverne. E perocchè da ineffabile carità vengono questi doni, e la divina carità sia appropriata allo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono Doni di Spirito Santo, li quali, secondo che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè, Sapienzia, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà, Timor di Dio. Oh! buone biade! e buona e mirabile sementa!... Ov’è da sapere che il primo e più nobile rampollo che germogli di questo seme per essere fruttifero, si è l’appetito dell’animo, il quale in greco è chiamato hormen... E però vuole Santo Agostino, e ancora Aristotele nel secondo dell’Etica, che l’uomo s’ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciocchè questo tallo, che detto è, per buona consuetudine induri, e rifermisi nella sua rettitudine, sicchè possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza dell’umana felicità„.14
Ora si ricordi che nel purgatorio si purgano le macchie che le passioni lasciarono nell’appetito dell’animo; sicchè quelli che a mano a mano le mondano e riottengono “duro e rifermato„ quel tallo, hanno poi la dolcezza, non più della caduca ma dell’eterna felicità. E quanto è probabile che quei candelabri che di lungi sembrano “arbori d’oro„, siano di queste biade che germogliano!
Si dirà: Le beatitudini equivalgono alle virtù opposte al vizio per il quale sono pronunziate. Sta bene. Un noto passo di S. Bonaventura c’insegna quali sono queste virtù.15 Benissimo. Eppure, se intendiamo che la povertà in ispirito sia umiltà e la misericordia sia carità e la placidezza sia lenità e la mundizia di cuore sia verginità o castità; intendiamo meno come la sete di giustizia sia povertà e la fame di giustizia sia sobrietà, e meno ancora, come il pianto, beatificato nella cornice dell’accidia, sia sollecitudine. Contro la tristizia a cui si riduce l’accidia, raccomandato il pianto? Dovete essere giocondi, nell’aer dolce e nel sole: si dice nell’inferno; e si dice nel purgatorio il medesimo con l’esempio della femmina balba: e poi qui si proclamerebbe: Beati qui lugent? Non si intende. S’intende invece perfettamente, quando nei fatti di Maria si vedano adombrati i sette doni dello Spirito: di Maria, la quale dal suo fedel Bernardo è detta aver penetrato “il più profondo abisso della sapienza divina„ e aver conculcato “l’insipienza„, “lo stolto, il principe d’ogni stoltizia„.16 Or la sapienza è il supremo degli spiriti; e gli spiriti sono figurati dal Poeta in candelabri raggianti.
Ma in qual rapporto sono essi con le beatitudini? S. Agostino dice che c’è congruenza tra la settiforme operazione dello Spirito Santo con le beatitudini; ma c’è ordine inverso: Isaia comincia dai più alti, Matteo dai più bassi.17 In Isaia tali sono i doni:18 “E poserà su lui lo spirito del Signore: spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà. E lo riempirà spirito di timor del Signore„. San Bernardo accoglie la rispondenza Agostiniana e dice19 che lo Spirito Santo fa, mediante il timore, beati i poveri in ispirito, con la pietà i miti, con la scienza i piangenti, con la fortezza i famelici e assetati di giustizia, col consiglio i misericordi, con l’intelletto i mondi di cuore, con la sapienza i pacifici. Ora Dante ha delle beatitudini altro ordine, come s’è detto. Secondo questo, il timore farebbe beati i poveri in ispirito, la pietà i misericordi, la scienza i pacifici, la fortezza i piangenti, il consiglio i sitibondi di giustizia, l’intelletto i famelici di quanto è giusto, la sapienza i mondi di cuore. Raccolgo in vero che questi doni perfezionano le potenze dell’anima razionali e appetitive: le une ad apprendere la verità, e a giudicar la verità, le altre ad ubbidire alla ragione. E così il timore dirige l’affetto dal male a Dio; e la pietà lo dirige in ciò che riguarda il prossimo e la fortezza in ciò che riguarda noi, ed è contro il timor dei pericoli; e la scienza perfeziona la ragione pratica a giudicar rettamente, la sapienza la ragione speculativa; e così l’intelletto dirige la ragione speculativa ad apprendere la verità, e a questo medesimo fine il consiglio dirige la ragione pratica.20 In questa dichiarazione il nostro pensiero si ferma in ciò che due doni sono per il giudicar rettamente, che in ciò si travede la ragione dello sdoppiamento fatto dal Poeta, di famelici e assetati di giustizia. Sono, in Dante, questi assetati e famelici, quelli che abbiano mondata la macchia della avarizia e della gola. Or contro l’avarizia e la gola, possono i doni degli spiriti di scienza e di sapienza? Secondo l’ordine sopra designato, sarebbero invece il consiglio e l’intelletto. Può Dante avere mutata la teorica dell’Aquinate?
Può. Invero della sapienza egli pensa diversamente.21 “Nella faccia di costei appaiono cose che mostrano de’ piaceri di Paradiso„: negli occhi e nel riso. “E qui si conviene sapere che gli occhi della sapienzia sono le sue dimostrazioni, colle quali si vede la verità certissimamente; e il suo riso sono le sue persuasioni, nelle quali si dimostra la luce interiore della sapienzia sotto alcuno velamento: e in queste due si sente quel piacere altissimo di beatitudine, il quale è massimo bene in Paradiso. Questo piacere in altra cosa di quaggiù esser non può, se non nel guardare in questi occhi e in questo riso„. Qui è la sapienza che consiste nel veder la verità, e la sapienza che è suprema beatitudine. Per limitarci, ricordiamo che l’ultima beatitudine è per Dante la mondizia del cuore, perchè promette e permette la divina visione; ricordiamo che “lo dolce Padre„ mentre Dante attraversava il fuoco, per confortarlo 22
pur di Beatrice ragionando andava
dicendo: Gli occhi suoi già veder parmi.
Affermiamo, senz’altro, che il dono della sapienza corrisponde all’ultima beatitudine, e che fa che si veda la verità certissimamente. Il che si conferma da ciò che S. Gregorio dice, che la sapienza “rifà la mente intorno alla speranza e certezza dell’eterne cose„:23 ebbene Dante, appunto ai lussuriosi, a quelli che sono per mondare il cuore e l’occhio attraverso le fiamme, dice:24
O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato:
nel che è da notare (sottilmente!) il sottile accorgimento del Poeta, che, pur avendo tolta di posto la beatitudine dei pacifici, ne fa pur menzione nel luogo dove gli altri la pongono.25 Con questo filo a condurci, supponiamo che Dante abbia posta, per vedere la verità, oltre la sapienza, quella che a lei trovava congiunta nel Dottore: la scienza. La sapienza si rivolge alla ragione speculativa, la scienza alla ragione pratica. Inoltre abbiamo, nello sdoppiamento della beatitudine dei sizienti ed esurienti, un indizio chiarissimo, che Dante riconosce in due doni l’aiuto a rettamente giudicare. Quali sono essi? Direi: quelli che il dottore pone insieme, come aiuti a intendere la verità: dunque, consiglio e intelletto; il consiglio, volgendosi alla ragion pratica, e l’intelletto, alla ragione speculativa.
Il supposto, ecco, si colorisce alla luce. La scienza è il dono o lo spirito che conduce la ragion pratica a veder la verità. Corrisponde alla beatitudine dei pacifici; quindi è il dono contro la passione dell’ira. Questo deve riscontrarsi in Dante, se il rapporto è vero. Sì: tra il fumo che acceca, e che, come è in relazione col fuoco infernale della violenza o bestialità o ira, così è in relazione col fuoco purgatoriale della lussuria, fuoco che affina il lussurioso e monda il cuore e aguzza l’occhio alla visione; tra quel fumo, tra cui Dante è tratto in visioni estatiche;26 a lui parla Marco Lombardo.27 Ebbene. Costui “del mondo seppe„. E invero insegna a Dante che due sono le strade, quella del mondo e quella di Deo; e dimostra perchè il mondo è cieco e perchè il mondo disvia. È “scienza„ codesta di Marco, perchè riguarda la ragion pratica e la vita attiva. Ed è mirabile osservare come qui si ripeta dalla bocca di costui l’imagine dell’anima che come un fanciullo va da picciol bene a più grande. Chè l’imagine è del Convivio:28 “Onde vedemo li parvoli desiderare massimamente un pomo... e poi... uno uccellino, e poi... bello vestimento, e poi il cavallo, e poi una donna, e poi ricchezza non grande e poi più grande e poi più„. Or bene questo paragone è quivi indotto, parlandosi del desiderio di “scienza„. Ma ben altra è la parte della “scienza„ in questa cornice che purga l’ira! Non si parla che di “vedere„ e d’“occhi„,29 in questo girone, in cui Dante entra “con le luci vaghe„!
Il consiglio è il dono o lo spirito che conduce la ragione pratica a “giudicare„ rettamente della verità. Corrisponde alla beatudine dei sizienti: quindi è il dono contro l’avarizia. Ora, come nei canti dell’ira è sempre parola di occhi e di vedere, così nei canti dell’avarizia è discorso come di sete, per la beatitudine, così di giustizia, per il dono. Giustizia fa, con la speranza, men duri i soffriri; giustizia merge a terra l’occhio degli avari; giustizia li tiene stretti: e Dio che tutto “giuggia„ deve far vendetta; e c’è chi fa ben malvage ammende; e c’è la “verace corte„ di Dio.30 Quanto a sete, Dante ne è preso nel sentire il tremar del monte; ed è sete naturale che mai non sazia (in ciò simile a quel che Dante afferma della scienza oltre che delle ricchezze, nel Convivio);31 ed è sete che si fa men digiuna con la speranza; e quanto ella è grande, tanto si gode del bene; finchè la sete si trova insieme con la giustizia, nelle parole dell’angelo.32 Ebbene? E dov’è il consiglio? Prima di tutto, la sete di cui si parla, e che è in relazione col sitiunt della beatitudine, non è sete di giustizia. Di che? Di sapere! di sapere alcunchè, onde confermare o riformare un qualche giudizio che s’è avviati a fare. Invero si attenda. Il papa avaro dà il consiglio della via; e questa via deve essere a destra: consiglio di rettitudine.33 E Dante chiede al medesimo il perchè della pena, e il papa spiega il perchè e dice quanto sia giusto perchè.34 E Dante parla d’un “dritto rimorso„;35 e l’avaro di ciò lo corregge. E ad altro si volge, a chiedere altro perchè; e pur questi lo corregge, questi che è re come quello fu papa.36 E nel suo discorso Dante apprende a giudicar rettamente di Bonifazio, che pur nell’inferno assevera simoniaco: ma simoniaco, quanto si vuole, il papa, traditore e crudele fu verso lui il nuovo Pilato.37 E poi si sente il tremuoto, e qui tutti e due i viatori restano immobili e sospesi. Dubita Dante, ed ha intensa voglia di sapere, e sì incerto è esso avanti l’ombra di Stazio, e sì l’ombra di Stazio riguardo lui; e così per le parole di Virgilio e per le parole di Stazio l’uno e l’altro sono messi in grado di giudicare veracemente.38 Sì che Virgilio conchiude:39
Omai veggio la rete
che qui vi piglia, e come si scalappia,
per che ci trema e di che congaudete.
Si rende ragione di tutto... Cioè, no: vuol sapere chi è Stazio e come sia lì da tanto tempo.40 E già nel parlare di Stazio, sorge una nuova occasione di dubbio. E Stazio non interpreta a dovere il lampeggiar di riso che dimostra Dante, e questi non ha dichiarata la vera cagione del suo ammiccare, e non ha palesato che la sua scorta è Virgilio, che già Stazio si inganna ancora e per un momento dismenta la sua vanità e giudica cosa salda ciò che è ombra. E risuona la voce: Sitiunt. Se tutto questo trattato dichiara che nell’avarizia è il principio dell’ingiustizia, e che l’ingiuria del papi e dei re, o meglio la loro cupidità, è il malanno del mondo; se dimostra limpidamente che anche nel purgatorio la lupa è meglio ingiustizia che avarizia; dice, ancora, questo trattato che il consiglio è il dono contro l’avarizia; perchè ci fa giudicar rettamente nella via pratica.
E si passa senza transizione al dono che ci fa giudicar rettamente nella via speculativa: all’intelletto. Subito dopo la voce dell’angelo, Virgilio è preso da un dubbio, da una tentazione, diremmo, di giudicar malamente di Stazio. Come mai Stazio fu avaro? E Stazio comincia col principio generale:41
Veramente più volte appaion cose,
che dànno a dubitar falsa matera,
per le vere ragion che sono ascose.
L’intelletto le deve scoprire, queste vere ragioni. E così Stazio corregge il giudizio di Virgilio; e ricorda in questo suo nuovo discorso, un verso di Virgilio, per il quale si ricredè del suo errore di prodigo, e in questo verso... a caso, lettore?... in questo verso è la “fame„. Prima tanta sete, ora la fame; prima Sitiunt, ora “esuriendo„.42 Ed è appena dileguato il dubbio di Virgilio, che già in lui ne sorge un altro: come fosti cristiano, se la Tebaide ti mostra pagano?43
qual sole o quai candele
ti stenebraron sì?
E l’altro gli dice che fu, dopo il lume di Dio, una lucerna che Virgilio stesso teneva, ma dietro sè! A Virgilio quel dono era mancato. La conversazione continua tra i due; e Dante44
ascoltava i lor sermoni
ch’a poetar gli davano intelletto.
E vedono l’albero della vita e poi l’albero della conoscenza del bene e del male. E di qui innanzi di fame e di cibo e di vivande e anche bevande si parla a ogni tratto; come è naturale, trattandosi della colpa della gola punita con l’odore di quei primi dolci pomi. E mentre continua questo dubbiare e questo ingannarsi e questo ricredersi, sì che Dante non crederebbe che “l’odor d’un pomo sì governasse„, e ammira “per la ragione ancor non manifesta„, e non avrebbe riconosciuto al viso e sì lo riconosce alla voce, il suo Forese, e Forese chiede a lui delle due ombre, ed esso all’altro, “che sì lo spoglia„, e Dante avrebbe pensato “trovar laggiù di sotto„ l’amico; e l’amico non sa rendersi conto dell’andar di Dante, “che gli si cela„, e Bonagiunta, che riconosce in Dante colui che cantò “donne che avete intelletto d’amore„, solo ora, issa, vede il nodo che lo ritenne fuori del dolce stil nuovo; si giunge all’altro albero, del bene e del male, e la gente prega verso lui, come bramosi fantolini, e poi si parte “come ricreduta„. Un inganno, dunque, ancor quivi; e tale che bene fa vedere il nesso tra la colpa della gola e il dono dell’intelletto. Chè gli alberi sono due: quel della vita e quel della scienza del bene e del male. Ad Eva il diavolo promise: Non morrete! E promise: Sarete come Iddio sapendo il bene e il male! Ed i primi parenti gustarono del pomo, il che fu in sè una colpa della gola; e la morte entrò nel mondo, e una grave ignoranza oscurò il prima limpido intelletto. Or il Poeta, avanti il vizio della gola, ricorda sì il misero guadagno che fece la natura umana da quel pomo, ossia la morte per la vita, e l’ignoranza per la conoscenza del bene e del male, e la sfrenata concupiscenza per la deità promessa; e sì ricorda lo spirito che ci fu dato, contro quel difetto: lo spirito per il quale la ragione speculativa può rettamente giudicare. E così il Poeta tratterà della risurrezione dei corpi, la quale sarà un nuovo tormento per quelli di cui morì l’anima e una nuova gioia per quelli di cui l’anima, mercè quel dono, visse del cibo degli angeli. E parlerà anche dello stato intermedio dell’anima nel regno della pena e del premio, quando non ha più il corpo della prima natività nè ancora quello della seconda.45 E così Stazio, in questa cornice, risponderà al dubbio tutto speculativo di Dante:46
Come si può far magro
là dove l’uopo di nutrir non tocca?
La quale quistione è il nesso che congiunge Ciacco al Dottore angelico. E in questa cornice risplende la luna della prudenza.
Nella cornice della superbia è sottinteso il dono del timore, in quella della invidia quello della pietà, in quella dell’accidia quello della fortezza. Appena in questa è Dante, ecco:47
«O virtù mia, perchè si ti dilegue?»
tra sè stesso dicea, che si sentiva
la possa delle gambe posta in tregue.
Questa spossatezza lo conduce a chiedere un ragionamento al maestro:48
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone.
Così l’anima si avvantaggerà della debolezza del corpo. Dante crede che Virgilio patisca anch’esso d’un po’ d’accidia e che “lo troppo domandar„ gli gravi, e perciò non apre il suo “timido„ volere.49 Nè è da omettere che il ragionamento si riduce poi a discorrere della libertà dell’arbitrio, il cui difetto produce la totale accidia, la difficultas originale, contro la quale è appunto il dono della fortezza. E la luna anche qui risplende “come un secchione che tutto arda„, e così riporta il nostro pensiero alla selva e al sonno; al sonno della selva e al sonno del limbo; e Dante sta “come uom che sonnolento vana„.50 E gli esempi che sono ferza e gli esempi che sono freno, e gli atti degli accidiosi, si appuntano manifestamente nell’idea di fortezza.
Nè meno chiara è la presenza del dono di pietà nella cornice dell’invidia: tanto più quando pensiamo che la pietà ci perfeziona nei doveri verso gli altri, come la fortezza in quelli verso noi, contro il timor dei pericoli, quali erano quelli che fecero sostare nella lor via gli Ebrei di Moisè e le donne di Enea.51 E la pietà si può dir tutt’uno con la misericordia e con la carità; ed è inutile insistere che alla beatitudine dei misericordi corrisponde il dono della pietà. E tuttavia giova ricordare che gl’invidi sono figurati come orbi mendicanti; in atto di sollecitare “pietà„, e che Dante fu punto per compassione di loro, e munto di grave dolore.52
E come in questa cornice domina la pietà, così nell’altra più bassa, il timore. “Il timore preme la mente„ dice S. Gregorio;53 e Dante si volge ai superbi dicendo:
di che l’animo vostro in alto galla?
E ammonisce di chinare il viso. E parlando di quella pena, dice:54
Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia, del tormento di sotto,
che già l’incarco di laggiù mi pesa.
E in essa si volge al lettore:55
Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che il debito si paghi.
Non attender la forma del martìre:
pensa la succession; pensa che, al peggio,
oltre la gran sentenza non può ire.
È un consiglio a misurare il timor di Dio, questo. Chè dei doni si può fare anche mal uso,56 come afferma S. Gregorio, il quale, per esempio, dice che bisogna pregare “affinchè il timore, mentre più del giusto trepida, non c’immerga nella fossa della disperazione„. Chi vorrà dubitare, dopo questo raffronto, della presenza qui degli spiriti? Ma sopratutto è da notare che qui le anime orano col Padre Nostro.57 Ora questa preghiera vale per un fine generale e per un fine particolare. Per quest’ultimo, fa vedere che quei pentiti hanno il dono del timore: chè si conclude con le parole: libera nos a malo. Or Dio è temuto non come male, ma perchè infligge il male della pena. E si noti che le ultime parole:58
quest’ultima preghiera, signor caro,
già non si fa per noi, chè non bisogna,
ma per color che retro a noi restaro;
rispondono a questo pensiero: “Il timore induce l’amore, a volte; in quanto l’uomo che teme di essere punito da Dio, osserva i comandamenti di lui; e così comincia a sperare; e la speranza induce l’amore„.59 Non bisogna quella preghiera per loro, perchè essi, sotto il greve carico, hanno la certa speranza del perdono e del premio, non temono più di essere puniti da Dio, e perchè l’amore (che essi significano con quel “signor caro„) già ha altre cause che il timor di quella pena, la quale, invece, lodano e amano. Ma il timor della pena domina in tutta la cornice sì che resta a Dante anche dopo che n’è uscito; come abbiamo veduto, che l’incarco di laggiù gli pesava anche nella cornice superiore. E Virgilio, mentre tutti e due andavano leggieri, dice al suo discepolo:60
Volgi gli occhi in giue:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto delle piante tue.
E il duro pavimento, nel quale Dante deve fissarsi, e che è storiato di superbia punita, somiglia a pietra di sepolcro, che infonde salutare timore.
Ma il paternoster qui recitato, nella prima delle sette cornici, attesta più generalmente il possesso dei sette doni. Invero il mistico Ugo dice che quella orazione contiene sette petizioni contro i sette vizi, alle quali petizioni rispondono i sette spiriti.61
Note
- ↑ Vedi più su a pag. 324 segg.
- ↑ Is. in Summa 1a 2ae 68, 6.
- ↑ Purg. XII 110, XV 38, XVII 68 seg., XIX 50, XXII 4 segg., XXIV 151 segg., XXVII 8.
- ↑ Ev. sec. Matth. V.
- ↑ Summa 1a 2ae 69 3.
- ↑ ib. 4.
- ↑ In Summa 1a 2ae 68, 1.
- ↑ In Summa 1a 2ae 69, 1.
- ↑ Purg. XXIX 50.
- ↑ Summa 3a 27, 3.
- ↑ Purg. XX 97 seg.
- ↑ Summa 1a 2ae 69, 1, 3, 4, e 5.
- ↑ Par. XXXIII 10 seg.
- ↑ Conv. IV 21.
- ↑ Speculum Beatae Virginis, IV. Prendo la citazione dal «Dizionario Dantesco» del Poletto.
- ↑ D. Bern. De Maria, V. Sermo.
- ↑ In Summa la 2ae 68, 7.
- ↑ Is. XI.
- ↑ D. Bern. De pugna spir. I in fine. Vedi anche Hugo de S. V. I de quinque sept. V.
- ↑ Summa 1a 2ae 68, 4.
- ↑ Conv. III 15.
- ↑ Purg. XXVII 52 segg.
- ↑ Summa 1a 2ae 68, 6.
- ↑ Purg. XXVI 53 seg.
- ↑ Hugo de S. V. De quinque septenis IV: Spiritus... sopita concupiscentia intus pacem creet etc.
- ↑ Purg. XV 85 segg.
- ↑ Purg. XVI 46.
- ↑ Conv. IV 12.
- ↑ Purg. XV 84, 85, 87, 94, 106, 109, 118, 122, 125, 128, 130, 136, 139, 140, 145; XVI 6, 8, 10, 35, 41, 62, 66, 75, 95, 100, 107, etc.
- ↑ Purg. XIX 77, 120, 123, XX 47 seg. 95 seg., 65, 67, 69; «giusta vendetta» in XX 16. E accenna mestamente alla giustizia (corte) di Dio che lo «rilega nell’eterno esilio» Virgilio ib. 17 e seg. E poi ib. 65, 83 seg. Infine XXII 4 segg.
- ↑ Conv. IV 12., «in luogo di saziamento e di refrigerio, danno e recano sete di casso febricitante...».
- ↑ XX 145 segg. XXI 1 segg. XXI 73 seg. XXII 4. E cfr. XX 3: «trassi dell’acqua non sazia la spugna».
- ↑ Purg. XIX 79 segg.
- ↑ ib. 118 segg.
- ↑ ib. 132 segg.
- ↑ Purg. XX 34 segg.
- ↑ ib. 85 segg.
- ↑ Purg. XXI 19 segg.
- ↑ ib. 76 segg.
- ↑ ib. 79 segg.
- ↑ Purg. XXII 28 segg.
- ↑ ib. 40.
- ↑ ib. 55 segg. 61 seg.
- ↑ Purg. XXII 128 seg.
- ↑ Purg. XXIII 34 seg. 37 seg. 43 seg. 52 seg. 58, 83, 112, XXIV 49 segg. 55 segg. 103 segg.
- ↑ Purg. XXV 20 seg.
- ↑ Purg. XVII 73 segg.
- ↑ ib. 84.
- ↑ XVIII 5 segg.
- ↑ ib. 76 segg.
- ↑ Summa 1a 2ae 68, 4.
- ↑ Purg. XIII 64, 54, 57.
- ↑ In Summa 1a 2ae 68, 6.
- ↑ Purg. XIII 136 segg.
- ↑ Purg. X 106 segg.
- ↑ In Summa 1a 2ae 68, 8.
- ↑ Purg. XI 1 segg.
- ↑ ib. 22 segg.
- ↑ Summa 1a 2ae 42, 1.
- ↑ Purg. XII 13 segg.
- ↑ Hugo de S. V. De quinque sept. III e IV.