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396 | sotto il velame |
in quella dell’accidia quello della fortezza. Appena in questa è Dante, ecco:1
«O virtù mia, perchè si ti dilegue?»
tra sè stesso dicea, che si sentiva
la possa delle gambe posta in tregue.
Questa spossatezza lo conduce a chiedere un ragionamento al maestro:2
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone.
Così l’anima si avvantaggerà della debolezza del corpo. Dante crede che Virgilio patisca anch’esso d’un po’ d’accidia e che “lo troppo domandar„ gli gravi, e perciò non apre il suo “timido„ volere.3 Nè è da omettere che il ragionamento si riduce poi a discorrere della libertà dell’arbitrio, il cui difetto produce la totale accidia, la difficultas originale, contro la quale è appunto il dono della fortezza. E la luna anche qui risplende “come un secchione che tutto arda„, e così riporta il nostro pensiero alla selva e al sonno; al sonno della selva e al sonno del limbo; e Dante sta “come uom che sonnolento vana„.4 E gli esempi che sono ferza e gli esempi che sono freno, e gli atti degli accidiosi, si appuntano manifestamente nell’idea di fortezza.
Nè meno chiara è la presenza del dono di pietà nella cornice dell’invidia: tanto più quando pensiamo che la pietà ci perfeziona nei doveri verso gli altri, come la fortezza in quelli verso noi, contro il timor