Serate d'inverno/Un velo bianco
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UN VELO BIANCO
La vidi la prima volta nella Galleria Subalpina dai signori Baratti e Milano. Ero entrato per pigliare una soda water, che mi aiutasse a digerire la colazione, e mi desse appetito pel pranzo. Ero già a questi termini.
Lei era con un’altra signora, ed io non osavo guardarla in viso, per non mostrarmi indiscreto. Stavo voltato verso lo specchio, e la vedevo in effigie. Che effigie, signori pittori! Che effigie! Se loro fossero mai riusciti a farne una simile!
Lunga, sottile, svelta... se fossi a Milano, direi come la guglia del Duomo. Ma vi potrebbe esser qualcuno che non l’ha veduta. Mettiamo, svelta come un palo del telegrafo; un po’ di linea e di buon garbo ce l’aggiunga lei, signora lettrice, con quella parte d’immaginazione che il suo cattivo genio le ha data.
Dico il suo cattivo genio, perchè l’immaginazione per me è stata una fonte di disgrazie. Sentirà. Ma ora tiriamo innanzi.
Aveva i capelli neri come questo inchiostro; ed il viso bianco come questa carta; e gli occhi vivaci, incisivi, come i tratti di spirito di cui vorrei infiorare la mia narrazione se ne fossi capace. E la sua bocca...
No. Qui bisogna che mi fermi un poco. La sua bocca era un poema.
Si figuri, signora lettrice, che la vidi nel momento in cui l'apriva per introdurci, con due ditini che parevano due foglie di rosa accartocciate, un marron glacé. Il marron glacé era dei più grossi, e naturalmente lei apriva la bocca a tutta forza come se gridasse:
— Aiutoooo!!!
Se avesse potuto vederla Giotto proprio in quel minuto là! Sarebbe andato a nascondersi lui ed il suo o, che doveva essere uno sgorbio, al confronto di quella rotondità di bocca. No. Sono pronto a giurarlo sul Vangelo, sul Corano, sui libri dei Veda, sul libro mastro del mio sarto, non è mai esistita nei fasti della bellezza umana, una bocca più rotonda di quella.
E che denti! E che freschezza! Se i rettorici non mi avessero sfruttata l'immagine dello scrignetto di perle, sarebbe il caso di applicarla davvero. Così dovrò accontentarmi del paragone d'un gelato di fragole, guarnito di mandorle. È un po' da credenziere; ma quella bocca color di rosa non li sdegnava punto i lavori da credenziere. Oh punto, punto!
Quando il marron glacé fu spacciato, le foglie di rosa accartocciate afferrarono una brioche; poi un petit four; poi un croque en bouche, e l'uno dopo l'altro fecero scomparir tutto nel gelato di fragola.
Il croque en bouche fu il colpo di grazia pel mio cuore. Lo zucchero cristallizzato che avvolgeva lo squisito chicco, scricchiolava sotto quei dentini bianchi... cric, cric, cric...
Ah! quel cric, cric! La soda water mi salì alla testa, mi entrò nel naso, mi andò in gola a traverso, nell'eccesso della commozione. Tossii, tossii fino a diventare violetto. Il pasticciere mi picchiava pietosamente dei pugni sulla schiena, ed intanto udivo la signora che era con lei che diceva:
— Sbrighiamoci, è l'ora del pranzo.
Che Santa Lucia le conservi la vista! L'ora del pranzo! Ah! era un tesoro quella fanciulla che andava a pranzo dopo quel preludio di pasticcieria con accompagnamento di vermouth.
Neppure negli incubi più stravaganti delle mie digestioni laboriose, avevo mai sognato una donna di stomaco forte come quella giovinetta. Per tutta la sera, per tutta la notte, l'ebbi sempre in mente.
* * *
Avevo trentanove anni ed undici mesi. Il sagrestano della mia parrocchia e gli spazzini del municipio possono far fede che non erano ancora quaranta.
Avevo perduto i genitori poco dopo la mia maggiorità, ed avevo menato una vita alquanto allegra, troppo forse, da cui m'ero ritirato da qualche anno col patrimonio ridotto a metà, e le facoltà digestive ridotte a zero. Non più pranzi d'amici, nè cene, nè ritrovi giovanili. Ciascuno di codesti spassi lo scontavo, ormai, con una piccola malattia; ed avevo finito per condannarmi ad una vita d'isolamento, di bistecche e di soda water.
Molte volte m'era venuta l'idea di ammogliarmi per avere chi confortasse i miei dolori di stomaco, e sorvegliasse meglio le mie bistecche. Ma mi ero sempre incontrato con signorine che mangiavano poco e bevevano acqua, ed avevo tremato di sposare uno stomaco fragile come il mio, per passare con mia moglie il resto dei nostri giorni ad intenerirci a vicenda sulle nostre indigestioni, ed a prodigarci decotti di camomilla.
Alla vista di quella fanciulla, le mie idee coniugali si ridestarono. Era lo stomaco delle mie aspirazioni. L'apparecchio digestivo d'uno struzzo nel petto gentile d'una bella signorina di vent'anni.
Non sapevo chi fosse. Aveva l'aspetto ed il vestire d'una straniera. E la signora che l'accompagnava, piccola, grossa, col viso infiammato, ed una pioggia di ricci d'un biondo scialbo misto di grigio lungo le guancie, gli abiti corti, le scarpe di grossa pelle a doppia suola, ed un lungo velo turchino sopra un cappello ridicolo, era quanto si potesse desiderare di meno bello, ma di più touriste.
Però quella specie di pallottola, del peso di qualche tonnellata, aveva cinguettato in italiano:
— Sbrighiamoci; è l'ora del pranzo.
Aveva veramente cinguettato? Il suo accento era veramente straniero? Non avrei saputo dirlo. Avevo fissata tutta la mia attenzione sulla giovine, e queste considerazioni circa la loro nazionalità le facevo dopo, fondate sopra memorie molto vaghe.
Ad un tratto mi colpì improvvisa ed atroce come un crampo allo stomaco questa idea:
— Se sono straniere in viaggio, può darsi che partano domani, che siano già partite questa sera, per Londra, per Nuova-York, per le steppe della Russia, e che io non le riveda più.
Parlavo in plurale, ma il mio rimpianto era per una sola.
Era notte inoltrata quando mi venne quel pensiero pauroso. Passai delle ore agitatissime, ed appena fu giorno, mi slanciai ai musei, alla sala d'armi, al giardino del re, al cimitero. Visitai molte chiese, poi il Teatro Regio, desolato come un disinganno, alla luce scialba che vi penetra di giorno, coi palchetti vuoti cavernosi come tante orbite cieche. Ma in nessun luogo incontrai la bella straniera.
— Sarà andata a Superga, pensai.
Erano le quattro del pomeriggio. Non avevo più il tempo di andarci anch'io. Stanco, affannato, corsi giù giù in via di Po, fino alla Gran Madre di Dio e passeggiai più d'un'ora nella speranza di vedere le viaggiatrici tornare.
Ma nemmeno per ombra! ed intanto pensavo la sua bella figura, i suoi occhi, la sua bocca rotonda, ed il suo appetito, il suo meraviglioso appetito. Mi pareva di sentire ancora il cric, cric del croque en bouche.
— Se fosse rimasta a Torino? Se fosse là, come ieri a quest'ora, ad esercitare i suoi dentini? Infatti, che cosa mi prova che sia andata ad assiderarsi fra quei morti reali? Dio degli Dei! Ed io sto qui ad aspettarla come un grullo. Oh! l'immaginazione!
E via, un'altra volta di corsa lungo i portici di Po senza fermarmi finchè mi trovai, ansimante ed acceso in volto, nel negozio del pasticciere.
Era là. L'avevo trovata! Per tutte le cose dolci della terra! Mi sentii sollevare un peso dal cuore, come se avessi digerita la colazione.
Tornai a piantarmi, come il giorno prima, in faccia allo specchio, per contemplarla senza soggezione. Ma la vecchia rotonda dai ricci biondi le stava sempre dinanzi, e mi toglieva la vista della personcina elegante.
Quel giorno mi proposi di non lasciarmela sfuggire senza scoprire almeno dove fosse alloggiata, e quando uscì le tenni dietro.
Lei e la sua compagna camminavano con una celerità inglese, e mi fecero correre sino in via Cernaia. Là, entrarono in una casina piccola, che aveva un giardinetto a fianco.
Andavano a fare una visita? O a casa loro!
Rimasi al mio posto come una sentinella tedesca, per aspettare la risposta a queste domande. Sonarono le sei, le sei e un quarto, le sei e mezzo. Le signore non uscivano. Erano appunto le sei e mezzo il giorno innanzi quando la mamma aveva detto alla figliola:
— Sbrighiamoci, è l'ora del pranzo.
Dunque pranzavano là, e dovevano essere a casa loro, perchè la vecchia con quelle scarpe e quegli abiti corti, non era certo in arnese per un pranzo d'invito.
Sapevo dove abitavano; era già qualche cosa. Ma è nella natura dell'amore di non fermarsi mai nella scala ascendente dei desiderii. Ora avrei voluto sapere chi erano.
Mi avventurai ad entrare. Il portinaio aveva una faccia incoraggiante.
— È da affittare questa palazzina? domandai.
— Nossignore. È già affittata a due signore inglesi.
— Ah! le signore...
— Sì. Le signore... Hanno un nome spropositato che non si può dire.
— Aspetta... e finsi di cercare nella mia memoria. Che! l'ho dimenticato anch'io. Non importa; una giovine...
— Una vedova ed una miss.
Diedi un biglietto da cinque lire al bimbo del portinaio ed uscii trionfante.
A conti fatti non ero molto bene informato. Che la giovine era una miss lo sapevo anche prima. Che la vecchia fosse vedova, non m'importava affatto. Tuttavia quella vedovanza mi dispensava dalle lunghe aspettative, per domandare traverso la Manica il consenso del suo signore e padrone, per sposare la figliola.
Ed intanto era certo che abitavano là; che non mi guizzerebbe via la sposa come un'anguilla, fischiando dietro alle mie speranze, pel tubo della locomotiva.
Mentre stavo fermo dinanzi alla porta a fare l'inventario delle notizie raccolte, vidi venire un servitore con due bottiglie di selz: mi passò accanto, entrò nella palazzina e salì, senza parlare al portinaio che era uscito a guardarmi dietro, per imprimersi bene in mente come sono fatti gli uomini che pagano cinque lire tre risposte inconcludenti.
— Il servitore delle signore inglesi? gli dissi accennando l'uomo dalle bottiglie.
Egli chinò più volte il capo in segno affermativo ammiccandomi degli occhi... Anche quella conoscenza era buona. Un servitore può essere un alleato; ed io ne avevo bisogno, perchè avevo la velleità romanzesca di voler conoscere la signorina, ed assicurarmi d'essere amato prima di presentarmi ufficialmente come pretendente. Per una inglese questo era nelle regole.
L’indomani replica dell’incontro dal pasticciere, e dell’inseguimento fino in via Cernaia. Quel giorno pranzai in una trattoria da quelle parti per non iscostarmi troppo, e verso le sette andai a passeggiare dinanzi alla palazzina aspettando di vedere il servitore. Avevo preparato un biglietto rispettoso, serio, pratico, degno d’una giovine inglese.
- «Signorina,
«Dal primo giorno che la vidi dal pasticciere mi ha divorato il cuore col suo croque en bouche. Sono gentiluomo; patrimonio discreto, abitudini tranquille, carattere uguale, trentanove anni e undici mesi; un po’ avariato nelle funzioni digestive. Questa confessione le provi la mia lealtà. Quanto all’aspetto può giudicarlo da sè, e se potessi sperare di ottenere le sue simpatie, sarei felice di offrirle la mia mano, e di domandarle in ginocchio la sua».
Seguiva il nome e l’indirizzo, contrada, numero e tutto perchè potesse rispondermi.
Circa le otto vidi il servitore che usciva dalla palazzina e s’avviava ad un’edicola in piazza Solferino, dove comperò alcuni giornali.
Quando stava per rientrare in casa, me gli accostai, e gli dissi:
— Vorreste portare questa lettera alla signorina?
— I don' dan't understand mi rispose. (Non capisco).
— To miss. Gli dissi mostrandogli la lettera.
— Yes, sir. E, presa la lettera, se ne andò, senza farmi difficoltà e senza mostrare la menoma meraviglia.
— Miss è molto accessibile, a quanto pare, pensai. Troppo accessibile. Si vede che la sua mamma le accorda tutta la libertà inglese.
Aspettavo di ricevere il giorno dopo un invito, o un biglietto che mi offrisse il mezzo di farmi presentare alla mamma, per poter conoscere la signorina, e farmi conoscere da lei.
Dio! che agitazione fu quella. Avrei giurato di avere vent'anni. Dimenticai la magnesia, la soda, le pastiglie di bismuto. Passai la notte a leggere un romanzo d'amore.
La mattina mi alzai ad un'ora inverosimile, e mi provai allo specchio tutti i miei abiti neri e le mie cravatte bianche. Alle nove ero in gran toletta da visita. Non c'era senso comune a quell'ora. Ma non potevo persuadermene.
— Non si sa mai quel che può accadere, suggeriva la mia impazienza. Potrebbe scrivermi di mettermi in relazione con Tizio, che mi facesse conoscere a Sempronio, che mi presentasse a Caio, che mi conducesse da Martino, il quale fosse incaricato di offrirsi d’introdurmi presso la signora vedova e la miss. Supposto che tutti quei personaggi avessero qualche altro affare oltre la mia presentazione, ci vorrebbe del tempo a trovarli ed a farli agire; infine è meglio tenersi pronto ad ogni evento.
Più presto che non osassi sperarlo, ricevetti un biglietto di grossa carta inglese, scritto a lunghi caratteri inglesi. Lascio stare i miei palpiti, le mie agitazioni, le mani tremanti nell’aprire la busta, che si possono trovare descritti un paio di volte in tutti i romanzi che addormentano l’umanità. La lettera veniva dalla posta, e diceva così:
- «Mio Signore,
«Io non conosco voi. Io sono non abbastanza libera per pregar voi di venire, e conoscere me. Cosa fare?
«Miss Gemmy Faat.»
Mandai dal cuore tutt’altro che benedizioni a quella madre crudele che teneva schiava la bella fanciulla. A cosa serve esser inglesi, a cosa serve aver un servitore compiacente, se sul più bello si debbono troncare a questo modo le speranze d’un galantuomo?
Dovevo essere commovente col mio abito nero, la cravatta bianca, il gibus sotto il braccio, i guanti a tre bottoni, gli occhi imbambolati, e quel pochino di languido appetito che mi aveva dato la speranza, completamente svanito.
Povera bimba. Era vittima della tirannia della vedova; ma quanto a lei non mi respingeva; tutt'altro. Si affidava a me, mi domandava nella semplicità del suo cuore:
— Cosa fare!
Infatti, cosa fare? Non era il caso di darsi vinti così. Bisognava pensarci, cercare. Intanto avevo il conforto di vederla dal pasticciere.
Quel giorno la vedova rotonda, mi parve più vecchia di vent'anni, ed orribile. Aveva una avidità di croque en bouche, che mi irritava. Ne divorò una dozzina, e ad ogni uno mi guardava come se volesse divorare anche me.
Mi venne il sospetto che avesse scoperta la mia lettera alla figliola, e cercasse d'impaurirmi per impedire il nostro matrimonio. Mi proposi d'esser cauto, e quando uscirono non le seguii.
Invece di avviarsi a casa come gli altri giorni, entrarono dalla modista di contro, e fecero spiegare una quantità di tulle bianco, che riempì la bottega, velò la bacheca, avvolse le signore come in una nuvola trasparente.
— Un abito da ballo! pensai; deve andare ad una festa; è l'occasione di conoscerla. È andata apposta in quel negozio ed a quest'ora, per farmelo capire. Dovunque sia quel ballo giuro che non mancherò.
E mi diedi d'attorno per sapere dove e quando si ballasse.
Andai da tutti i miei amici eleganti, da tutte le signore brillanti di Torino; nessuno sapeva d'una prossima festa. Nessuno pensava a ballare.
Cominciavo ad inquietarmi. Andavo cercando nei clubs, nei caffè; fermavo la gente per la strada; volevo una festa da ballo ad ogni costo. Finalmente la trovai in Doragrossa. Vidi un giovine di studio del mio notaio che mi salutò, e lo aggredii gettandogli contro come un colpo di rivoltella la solita domanda:
— Scusi, sa dove si balla in questi giorni?
— Sissignore, in casa Pepesale.
Gli avevo presa una mano; afferrai anche l'altra, le strinsi amorosamente. Avrei voluto stringermelo al cuore in un amplesso di gratitudine.
— E lei ci andrà, esclamai. Ed io pure ci andrò. Mi procuri un invito...
— Ma signore...
— La prego, non mi dica di no. Non può credere come desidero di conoscere la famiglia Pepesale. È il più ardente dei miei voti; ne perdo l'appetito ed il sonno. I signori Pepesale sono necessari alla mia vita, alla mia felicità...
Dovetti pregare, insistere. Quel povero giovine, rimandato come una palla avanti e indietro mi portò le risposte più negative, più scortesi.
«Era una festicciola affatto privata; non ricevevano altri che gli amici intimi; avevano già troppi ballerini; le signore erano poche; ero soverchio; non mi volevano a nessun patto.
Ma insistetti sempre; ed a forza d'indiscrezione, mi riuscì di estorcere quell'invito.
C'erano tre giorni da aspettare; ed ogni giorno la bella miss e la grossa mamma, dopo il vermouth entrarono dalla modista, ed ogni giorno misero fuori stoffe e veli bianchi.
Finalmente venne l'ora di rivestire il mio povero abito nero, la mia disgraziata cravatta bianca, il mio gibus, che respinto con impeto quella mattina, s'era guastata una molla, e ad ogni movimento scricchiolava in suono di pianto. Mi vestii palpitando e partii.
Quando la carrozza si fermò alla porta indicata, guardai dallo sportello e dissi al cocchiere:
— Tira via. Non è qui.
— Sissignore. Ha detto numero trentuno.
Guardai meglio; era proprio quel numero e quella contrada... Ma la porta era buia, e la scala poco illuminata. Non si vedeva un servitore, non s'udiva alcun suono, non c'era una carrozza. Ed erano le dieci e mezzo.
Salii al primo piano. Tutti gli usci chiusi, e profondo silenzio. Salii al secondo: usci chiusi ed un fievole suono in lontananza. Al terzo piano il suono si faceva un po' più distinto. Doveva esser là. Ma gli usci erano sempre chiusi.
Per quanto la cosa mi paresse strana sonai il campanello.
— Forse non avranno abbastanza servitù per lasciare una persona fissa alla porta, pensai.
Venne ad aprirmi lo stesso scrivano del mio notaio, da cui avevo estorto l'invito. Servitori punto. L'unica lampada dell'anticamera mandava un profumo di petrolio fatale al mio stomaco. Fui sul punto di tornare indietro. Ma pensai a miss Gemmy, così elegante, così bella, e con un eroismo da innamorato, mi tolsi il soprabito.
— Oh mio Dio! esclamò lo scrivano stupefatto, come se dal mio soprabito avesse veduta uscire la statua del Conte Verde a cavallo.
Lo guardai con disprezzo. Come voleva che vestissi, quel selvaggio, dove le signore erano in bianco? Osservai la sua giacchetta, il suo gibus, la sua cravatta scura.... E là dentro c'era miss Gemmy colla nuvola di tulle.... Mascalzone!
Entrai in una sala col gibus sotto il braccio, chiudendomi il terzo bottone d'un guanto, e pregando lo scrivano di presentarmi alla padrona di casa.
— Scusi non c'è. Dev'essere di là.
— Andiamo di là, dissi avviandomi sempre cogli occhi al bottone del mio guanto, per cercare la signora in un'altra sala.
— Ma che le pare! rispose quel giovine arrestandomi, vorrebbe venir lei in cucina?
— In cucina? Alzai gli occhi sbalordito, e mi guardai intorno.
Per quanto v'ha di ridicolo sopra la terra, avrei voluto esser di sotto!
Un salotto di pochi metri quadrati, coi mattoni nudi, alcune vecchie in cuffia che mi fissavano come un oggetto di curiosità, un gruppo di fanciulle vestite di scuro, che mi sbirciavano sogghignando come monelli, e cinque o sei giovani di studio o commessi di negozio senza guanti, che le incoraggiavano a burlarsi di me.
In quella lo scrivano, partito in esplorazione in cerca della padrona di casa che stava in cucina, mi venne incontro con una donnetta in abito di seta nera, che mi porse la sua manuccia nuda e disse:
— Mi fa piacere di conoscerla signor.... E lasciò il nome sospeso come fanno le signore dei negozi salutando gli avventori.
Seppi più tardi che erano una famiglia di droghieri ritirati allora allora dal commercio.
Le dissi che ero passato un momento solo per iscusarmi di non poter profittare del suo invito. Ero aspettato ad un contratto di nozze.... Accennai alla mia toeletta ridicola, per giustificarla con quel pretesto, e presi la porta, accompagnato dall'ilarità rumorosa delle signorine e dei commessi di negozio.
* * *
Quella scena mi pose in uno stato deplorabile. Ero irritato, svergognato, deluso. Non si poteva andare innanzi così. La mia pace ne soffriva troppo. E la mia digestione poi!
— Cosa fare? Miss Gemmy lo domandava a me. Avrebbe anche dovuto aiutarmi un poco. Nell'eccitazione dell'animo, le scrissi:
Signorina,
«Mi sono reso ridicolo per cercare di trovarmi con lei.
«Sono andato in abbigliatura di gala ad inchinarmi alla moglie d'un droghiere. Perchè non dirmi dove è stata, o dove andrà in abito da ballo? Me lo dica per carità.»
Mandai il biglietto per la posta, ed ebbi la risposta il giorno seguente.
Miss Gemmy non era stata, nè andava a nessun ballo. Viveva ritiratissima. Una vedova ed una signorina sole, non potevano frequentare la società. Trovava la moglie del droghiere molto shocking; ma non ci aveva colpa. E, daccapo, non era abbastanza indipendente per poter invitarmi a casa sua.
La mia parte di pazienza era esaurita. Bisognava finirla. Uscii, deciso a seguirla dovunque, ad osare qualunque cosa, pur d'entrare in relazione con lei.
Ma la lettura della lettera, che era giunta colla distribuzione delle cinque, mi aveva ritardato un poco. Quando giunsi in galleria le nuvole di tulle biancheggiavano già ammonticchiate nella bottega della modista. Miss Gemmy era là.
Nulla poteva arrestarmi. Il mio amore, irritato dai contrasti, prendeva un carattere feroce. Spinsi eroicamente la porta, ed entrai dalla modista, gridandole:
— Mi favorisca una cravatta! coll'accento con cui avrei detto: O la borsa o la vita. Ed impugnai il portamonete come un'arma micidiale.
La modista era intenta a ripiegare un magnifico velo di blonda bianca, che aveva mostrato a miss Gemmy.
— È quanto posso mostrarle di più bello, di più elegante, diceva.
— Lo vedo; mi piace tanto, tanto, rispose la bella miss con una voce da far impazzire i sette savi della Grecia, e tutti gli altri; ma costa troppo. Non voglio fare quella spesa. M'accontento del tulle.
Ella uscì volgendo a quella meraviglia di velo uno sguardo di tanto rincrescimento, che tutta la mia ira svanì, e mi sentii intenerito fino al pianto, all'idea della privazione a cui la mamma crudele condannava quella fanciulla.
Non c'era a' miei occhi peggior malfattore di lei.
Domandai alla modista il prezzo del velo di blonda.
— Seicento lire! mi rispose. (Dico 600!)
Ebbi un momento di vertigine. Mi parve di precipitare da un campanile, e mi aggrappai al banco come un uomo che cade. Ma mi riebbi tosto e sorrisi all'idea di fare una pazzia malgrado il mio stomaco rovinato!
Del resto quella pazzia sarebbe debitamente registrata e messa in conto nel contratto di nozze; perchè quella fanciulla doveva essere mia moglie; doveva esserla ad ogni costo.
Comperai il velo e vi aggiunsi un biglietto di visita, in cui scrissi, sotto il mio nome: — «... domanda in ginocchio di poter offrire a miss Gemmy questo velo bianco, che, s'ella vuole, potrebbe anche essere un velo da sposa.»
La sera aspettai il servitore sotto la palazzina, e gli porsi la scatola col velo, ed il biglietto:
— To Miss.
— Yes, sir.
La cosa più facile del mondo. Eppure quella fanciulla, tanto libera quanto alla corrispondenza, non poteva ricevere una visita.
* * *
La mattina quando mi svegliai la risposta era già in casa ad aspettarmi.
Miss Gemmy era sensibile, very, very sensibile al mio amore, ed al mio dono nuziale. Mi era tanto grata, e desiderava tanto di farsi una famiglia proprio sua, di avere la sua casa, e qualcuno che l'amasse, che consentiva ad essere mia sposa, se i nostri cuori si fossero compresi conoscendosi. Mi trovassi la sera alle nove presso la porticina del giardino. Il servitore m'introdurrebbe. Miss Gemmy era desolata di ricevermi così misteriosamente; ma non era libera. Mi dispiaceva d'essere accolto a quel modo?
Pensi signora lettrice, se poteva dispiacermi! M'incresceva per lei povera bimba, che era costretta a ricorrere a tali mezzi con un galantuomo, il quale domandava soltanto di essere presentato onestamente in casa, per conoscerla, e fare poi la compagna delle sue gioie, de' suoi dolori e delle sue digestioni.
— Ecco a cosa riducono le figliole, i genitori troppo severi! esclamai. E maledissi ancora una volta quella vedova snaturata.
Rinuncio a descrivere l'eccitamento in cui passai quella giornata, e la sua lunghezza sterminata. Eravamo nella stagione delle giornate lunghe; ma quella fu più lunga di tutte. Feci colazione; pranzai; tornai a far colazione; tornai a pranzare. Presi una dozzina di caffè, seltz, soda water. Mi vestii; mi tornai a vestire; fumai una scatola di sigari; mi ridussi lo stomaco in uno stato compassionevole. E dopo tutto questo, non erano che le sette! Due ore ancora!
Presi una carrozza, ed ordinai al cocchiere di farmi girare due ore. Ma alle otto e mezzo non seppi più reggere a quell'inerzia, e mi feci condurre in via Cernaia.
Il servitore tornava dall'edicola coi giornali. Appena mi vide, s'avviò alla porticina del giardino, l'aperse, poi, da uomo prudente, andò pei fatti suoi.
Entrai colle braccia spalancate per accogliere Gemmy che senza dubbio correrebbe ad incontrarmi. Ma abbracciai soltanto una pianta; Gemmy non c'era.
— Infatti ho anticipato, considerai. E mi posi a passeggiare aspettandola. Eravamo ai primi di settembre. Le finestre della palazzina erano aperte. Si vedeva il lume in una sala terrena, traverso la persiana abbassata.
Non seppi frenare la mia curiosità. Mi avanzai fino alla persiana e guardai.
Miss Gemmy era là in piedi davanti ad uno specchio, e si provava in capo un velo bianco di semplice tulle, ed intanto parlava con la sua mamma, che non potevo vedere perchè era seduta proprio sotto la finestra.
— Questo velo bianco non è adatto, diceva. Dovrei portarlo nero anche per andare a nozze; ma sono tanto giovine....
— E tanto bella! disse la persona che stava seduta sotto la finestra.
Per tutti gli inganni che hanno desolato il mondo! Era la voce d'un uomo! Un uomo che poteva andare in casa, che si permetteva di trovare tanto bella miss Gemmy, la mia miss Gemmy! E lei si lasciava trovare tanto bella da un altro, mentre lusingava me, mentre si disponeva a venire ad un convegno segreto in giardino... Tanta doppiezza a quell'età!
Mi cacciai un pugno in bocca per non urlare.
Quell'uomo, quel ladro di spose, si alzò. Era bello; via, la verità avanti tutto. Poteva avere trent'anni, era alto, bruno e prosperoso.... o prosperoso!... Come doveva digerire!
Lo vidi accostarsi a lei....
Ahi! dura terra, perchè non t'apristi?
Le cinse con un braccio la vita, le pose una mano dietro la bella testina bruna, e le ripetè guardandola negli occhi:
— Sì, tanto bella, Magdalen; mia cara sposa.
Magdalen! sua sposa! Cominciai a tremare per tutte le membra. Le mie idee si confondevano. Magdalen! E mi sentivo scricchiolare nella tasca del soprabito le sue lettere firmate miss Gemmy. Sua sposa; ed aveva scritto a me che accettava il dono nuziale, ed era disposta a sposarmi! Ebbi paura d'impazzire.
— Bella o no, disse ancora lei, non ho più diritto di portare il velo bianco; perchè sebbene non abbia ancora ventidue anni, sono vedova.
— Ira di Dio! La vedova era lei, quella giovinetta; e si chiamava Magdalen! Ma chi era dunque miss Gemmy?
— Miss Gemmy, continuò Magdalen, come se rispondesse al mio pensiero, dice che le vedove debbono andare a nozze col velo nero.
Dunque esisteva davvero in casa sua una miss Gemmy. E non erano che due signore.... Miss Gemmy doveva essere la vecchia, una governante, una zia, una zitellona!
Ed io, grazie alla mia fatale immaginazione avevo scritto a lei; le avevo offerto di sposarla; le avevo regalato un velo da seicento lire. Ed a momenti verrebbe là in giardino, ad impormi i suoi sfoghi sentimentali, al chiaro di luna...
Mi diedi a correre come un ladro per uscire da quel tranello infernale. Ma nell'attraversare il giardino, vidi una forma rotonda, che si avanzava misteriosamente verso di me, col capo e le spalle ravvolte nel mio magnifico velo bianco di blonda. Accelerai la corsa, mi slanciai verso la porticina; era chiusa.
Ed intanto la forma rotonda si avanzava sempre e stendeva le braccia....
A quella minaccia, il delirio della paura mi invase; non pensai più che a salvarmi da quell'amplesso a qualunque costo. M'arrampicai al piedestallo d'una Pandora di sasso, salii sul suo cornucopio, e da quell'altezza spiccai un salto disperato al disopra del muro di cinta, che separava il giardino dalla strada.
E caddi come corpo morto cade.
Fine.