Seconda parte del Re Enrico VI/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto
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ATTO TERZO


SCENA I.

L’Abbazia di Bury.

Entrano per comporre il parlamento il re Enrico, la regina Margherita, il cardinal Beaufort, Suffolk, York, Buckingham ed altri.

Enr. Stupisco di non vedere ancora milord di Glocester: ei non soleva un tempo mostrarsi ultimo... qual che si sia il motivo che lo tiene oggi lontano da noi.....

Mar. Non potete voi dunque vedere, signore, o non volete osservare lo strano cambiamento operatosi in tutta la sua persona; con quali raggi di maestà ei s’attornia ora; qual arroganza splende ne’ suoi sguardi; e quanto, rinunziando al titolo, e conservando il potere, egli è divenuto imperioso e dispotico? Io rammento il tempo in cui egli simulava dolcezza e affabilità: e se uno sguardo della regina scendeva allora sopra di esso, inchinandosi con rispetto egli era tosto a’ di lei piedi: e tutta la corte ammirava la sua sommissione e la sua cortesia. Ma ora s’io a lui mi mostro, e che ciò avvenga nel mattino in cui due eguali che si incontrano invocano l’uno sopra l’altro le benedizioni del giorno, ei volge altrove la sua fronte altera, o affissandomi con occhio di collera passa oltre con fierezza, sdegnoso di farmi l’ossequio che mi compete. L’impotente collera degli animali deboli non è notata; ma gli uomini più arditi tremano allorchè il leone rugge; e Glocester in questo regno non è personaggio volgare. Pensate che voi solo siete per sangue più nobile di lui, e che la stessa forza che vi facesse discendere, lo farebbe salire. Con tal considerazione parmi che, riflettendo sul cupo cruccio che egli nutre in silenzio e sopra la poca distanza che una sola vita mette fra un’anima ambiziosa e un diadema, sarebbe contrario alla politica il lasciarlo avvicinarsi di troppo alla vostra real persona l’ammetterlo più a lungo ne’ vostri consigli segreti. Valendosi di un’astuta popolarità egli si è fatto un partito potente nelle Comuni, e al primo segno della sua ribellione non sarebbe impossibile che tutto il popolo lo seguisse. Noi siamo nella primavera, signore, in cui la radice delle erbe malefiche non è [p. 103 modifica]ancora giunta alla profondità del suolo; ma se diam loro il tempo di crescere, esse copriranno la terra, smagrendo le piante utili, e ci rimprovereremo troppo tardi di non averle estirpate. La mia costante vigilanza e la mia tenera sollecitudine per uno sposo, mi fanno accumulare e vedere tutti i pericoli nella persona del duca. Se il mio timore non procede che da un eccesso di tenerezza, chiamatelo vano spauracchio di femmina: cedendo a migliori argomenti, mi rassegnerò a tal giudizio, e confesserò con ischiettezza che mi sono ingannata. Signori di Suffolk, di Buckingham e di Beaufort, abbattete se il potete le mie osservazioni, o consci della verità dei miei detti approvate i miei consigli.

Suff. Giova confessarlo, signora, voi avete con gran discernimento veduto l’uomo di cui parlate: e se fossi stato chiamato per primo a rispondere al mio re, credo che non avrei che ripetuti i detti di Vostra Altezza. Subornata da lui, Eleonora pose in opera contro di me le sue pratiche infernali; o se egli non fa l’istigatore e l’anima di quel misfatto, almeno la sua ostentazione giornaliera in vantare la sua alta origine, e ripetere che, essendo il più prossimo parente del re, ne è il successore immediato, ed altre insinuazioni siffatte, gettate all’orecchio della sua sposa, ispirarono a una donna, il di cui spirito è ardente e il cervello entusiasta, la prima idea di modellare in cera il suo sovrano, e di ucciderlo in effigie. Ei sembra tranquillo; ma l’acqua è tranquilla appunto laddove ha maggior profondità; sotto una calma esteriore ei cela un tradimento. Il lupo non urla allorchè vuol sorprendere l’agnello. No, no, mio sovrano; Glocester è un uomo di cui alcuno non ha ancora scrutata l’ipocrisia: alcuno non ha per anco svolte le pieghe tenebrose della sua anima.

Mar. Non ha egli, con prevaricazione manifesta, inventate nuove torture e morti più raffinate per uomini miseri che non erano colpevoli che di delitti leggieri?

Car. £ non ha durante il suo protettorato imposte al regno enormi taglie, per assoldare gli eserciti di Francia, senza mai mandarle; talchè le nostre città si ribellavano ogni giorno?

Buck. Oh, Beaufort, cotesto non sono che malversazioni leggiere in paragone degli attentati ignorati che il tempo svelerà.

Enr. La cura che vi prendete, miei lórdi, per togliere dal mio cammino le spine più minute, son degne di lode. Ma debbo io aprirvi il fondo del mio cuore? Il nostro cugino Glocester è tanto lungi dal tramare contro di noi, quanto lo è l’innocente colomba, o il fanciullo che sorride sul seno di sua madre. Il duca [p. 104 modifica]è nato virtuoso e benefico: egli è troppo fedele e troppo generoso per concepire pure in sogno l’idea d’un delitto e intendere alla mia rovina.

Mar. Ah, quanto questa temeraria confidenza è pericolosa! Rassomiglia egli alla colomba? La sua penna non è che simulata; perocchè ei nasconde le intenzioni e il cuore dell’avoltoio. Ha egli il candore dell’agnello? Miratelo internamente, e vedrete la nerezza, e l’anima d’una belva feroce. Qual è lo scaltrito che meditando la frode, non sappia trasfigurarsi e prendere una maschera ingannatrice? Siate cauto, signore; la vita di tutti noi dipende dal ferro che sradicherà prontamente dal regno quella pianta infesta e velenosa. (entra Sommerset)

Somm. Salute e gioia al mio amabile sovrano!

Enr. Siete il benvenuto, Sommerset. Quali novelle ci recate di Francia?

Somm. Voi non possedete più nulla colà.

Enr. Fatal destino! Ma sia fatta la volontà del Cielo; egli dà gli Stati, ed ei li toglie.

York. (a parte) Sciagura a me, che assidendomi in mio pensiero sopra quel trono, stendevo una mano sovrana sulla Francia, e l’altra sull’Inghilterra! Così le mie speranze muoiono in germe, e preda divengono di dissidii odiosi. Ma voglio frappoco ovviare a tanti mali, o vendere i miei titoli per una nobile tomba.

(entra Glocester)

Gloc. Tutte le felicità si spandano sul vostro regno, signore! Perdonatemi il mio lungo indugio.

Suff. No, Glocester; sappi che sei venuto anche troppo presto, a meno che non fossi più leale che non sei: io qui ti arresto per delitto di alto tradimento.

Gloc. Bene sta, Suffolk; ma tu non mi vedrai impallidire, nè cangiare aspetto per questa prigionia: un cuore immacolato non sente terrore. La più pura fontana non è tanto scevra di limo, quant’io son mondo d’ogni colpa verso il mio signore. Chi può accusarmi? di che son io colpevole?

York. V'è chi crede, milord, che abbiate accettati doni dalla Francia, e trattenute, sendo Protettore, le paghe dei soldati; per le quali cose Sua Altezza ha perduto il reame al di là dei mari.

Gloc. Così si crede? Chi sono coloro che lo credono? Io non mai tenni ai militi il loro soldo, nè uno scellino m’ebbi mai dalla Francia; così Iddio mi aiuti, come io vegliai molte e molte notti pensando sempre al bene dell’Inghilterra! Possa il più piccolo [p. 105 modifica]dono ch’io avessi accettato esser prodotto contro di me nel dì del mio eterno giudizio! No! molto oro mio ho invece speso per soldo di quei presidii onde non tassare le impoverite Comuni; e di esso non ho mai chiesto restituzione.

Car. Ben vi sta, milord, di dir così.

Gloc. Non dico che la verità, così mi aiuti il Signore!

York. Nel vostro protettorato inventaste strane e inaudite torture pei rei; da cui l’Inghilterra ebbe nota di tirannia.

Gloc. Oh! è chiaro a tutti, che mentre fui Protettore la pietà fu il solo fallo di cui mi rendessi colpevole; perocchè io mi intenerivo alle lagrime del delinquente e poche parole di penitenza riscattavano ogni colpa. Tranne quando fossero feroci masnadieri o inumani aggressori, io non mai infliggevo con degno castigo. L’omicidio solo che sparge il sangue dell’uomo, non ha trovato grazia nel mio cuore e l’ho punito più rigorosamente d’ogni altro misfatto.

Suff. Milord, cotesto accuse son vaghe ed è ovvio il rispondervi: ma fatti più gravi son posti a vostro carico: fatti dei quali non sarà facile lo scolparvi. Vi arresto per delitto di lesa maestà e vi affido alla custodia di milord Cardinale che vi terrà fino al tempo del vostro giudizio.

Enr. Milord di Glocester, mia speranza sincera è che vi purgherete di ogni sospetto: il mio cuore mi dice che siete innocente.

Gloc. Ah! grazioso signore, questi giorni sono pericolosi. La virtù è soffocata dall’avida ambizione, e l’umanità cacciata da questa corte per mano dell’odio. L’orribile frode è assisa sopra gli altari, e l’equità espulsa dalla terra in cui regnate. So ch’essi tramano contro la mia vita; e se la morte mia potesse ricondurre la felicità in quest’isola e segnare il termine della loro tirannide, l’incontrerei con gioia. Ma la mia morte non è che il preludio dei loro furori; perocchè mille altri, che son ben lungi dal sospettare il pericolo, non vedranno il fine della sanguinosa tragedia che costoro maturano. Gli occhi rossi e scintillanti di Beaufort mostrano il fiele del suo cuor perverso; e le nubi di cui la fronte di Suffolk è coperta presagiscono le tempeste del suo odio. L’acre Buckingham si ricrea coi vilipendii della lingua del peso dell’invidia di cui trabocca il suo petto; e il cupo York che cerca nella luna le corone, York di cui ho trattenuto e incatenato lungo tempo il braccio baldanzoso, si vendica oggi con bugiarde accuse e intende a rapirmi la vita. Voi stessa infine, signora, voi, mia sovrana, in lega cogli altri, voi avete, senza che ve ne abbi a dato alcun motivo, imprecato mina sulla mia [p. 106 modifica]testa, e adoprati tutti i mezzi di una donna per inasprirò e fare sdegnar meco il mio sovrano. Sì, tutti riuniti vi siete nel medesimo nodo di congiura, ed io ho avuto più volte novella delle vostre trame. Lo so, non mancheranno i falsi testimoni in danno mio, nè le infami accuse per farmi apparir reo: l’antico adagio in me si avvererà: un bastone tosto si trova allorchè si vuole abbattere un mastino.

Car. Signore, gli scherni suoi sono incomportabili: se quelli che vegliano sulla vostra persona, per garantirvi dal pugnale del tradimento o dalla rabbia degli insani, son così scopo alle ingiurie dei malvagi, il loro zelo in breve si raffredderà.

Suff. Non ha egli profanato anche ora con parole artificiose il nome augusto della nostra regina, come se ella fosse tale da porre in opera lo spergiuro per abbatterlo?

Mar. Lascio che chi perde sfoghi il suo livore.

Gloc. Dite vero, signora, e dite forse più che non volete. È un giuoco crudele in cui perdo infatti. Sciagura a colui che guadagna! Perocchè è colla perfidia e col delitto che giuocata hanno la mia vita, ed è ben lecito al martire di querelarsi.

Buck. Nulla raffrenerà la garrula sua lingua, ed ei ne terrà qui tutto il giorno. Lord Cardinale, egli è vostro prigioniero.

Car. Uomini della mia guardia, disarmate il duca, e custoditelo in sicurezza.

Gloc. Ah! E dunque così che Enrico si lascia togliere l’appoggio della sua giovinezza, prima che i suoi passi siano abbastanza affrancati per sostentarlo? È così, o re, che si trascina lungi da te il vecchio servo, custode fedele che vegliava sopra i tuoi giorni? Già fremono sordamente i lupi feroci che ti divoreranno. Oh! fosse mendace il mio timore, così lo fosse! perocchè, mio buon Enrico, io temo la tua rovina.

(esce fra le guardie)

Enr. Signori, fate quello che meglio vi aggrada come se io non ci fossi.

Mar. Che! vuole Vostra Altezza lasciare il parlamento?

Enr. Sì, Margherita; il mio cuore è inondato di dolore e gli occhi miei son pieni di lagrime. La mia esistenza è circondata di miseria; perocchè qual cosa rende più miserabile del cruccio altrui? Ah! zio Umfredo, nel tuo volto io veggo virtù, onore e lealtà, e nondimeno l’ora è venuta in cui è forza il trovarti perfido, il temere della tua innocenza. Qual geloso destino invidia dunque la tua fortuna, perchè questi nobili lórdi, e Margherita mia sposa s’armino così contro di te? Tu non facesti mai loro [p. 107 modifica]alcun danno, nè ad alcun altro ne facesti; e simili allo spietato beccaio che rapisce il tenero agnello alla madre sua, e lo batte ogni volta che diverge dal cammino che lo guida a morte colla stessa freddezza e impassibilità essi han condotto lungi da questi luoghi la loro vittima: ed io, come la madre derelitta che corre e geme mirando la via per cui il suo figlio le è stato tolto, nè può far nulla per lui fuorchè piangere la perdita sua, stommi qui addolorato per la sorte di Glocester, nè so accordarti che sterili lagrime. I miei tristi occhi seguono la sua traccia, e non possono soccorrerlo, tanto sono potenti i suoi nemici congiurati! Oimè! piangerò almeno le sue sventure, e in mezzo alle lagrime mie ripeterò spesso: Chi è di loro il traditore? Glocester certo non lo è. (esce)

Mar. Voi, la di cui anima non è serva dei pregiudizi, voi lo vedete, la neve si fonde ai caldi raggi del sole. Enrico è di ghiaccio nelle grandi occasioni; troppo pieno di una puerile pietà, l’apparente virtù di Glocester affascina i suoi occhi, e il linguaggio dell’astuto all’orecchio suo è il pianto ingannatore del coccodrillo, che intenerisce, e dà morte al credulo passeggiero: è un serpente celato sotto i fiori, splendido di colori mirabili, che ferisce col dardo mortale il fanciullo imprudente il quale sedotto da occhi giudica del suo cuore dalla sua beltà. Voi, uomini di senno e di animo, udite una donna che vi dice che conviene affrettare la perdita di colui, per sottrarci alla pena di temerlo.

Car. Ch’ei muoia: la politica lo richiede: ma di colorire ci è d’uopo la sua morte: conveniente è ch’ei sia giudicato colle formole della legge.

Suff. Improvvido ciò sarebbe: il re s’adoprerà sempre per salvarlo; i Comuni ancora; e noi non abbiamo che poveri argomenti per dannarlo a morte.

York. Onde voi non volete ch’ei muoia.

Suff. Ah! York, niuno lo brama più di me.

York. York ha più ragione per desiderarlo. — Ma, signori, aprite il pensier vostro, e pariate schiettamente: non vi sarebbe eguale prudenza nell’appostare durante la notte un cospiratore furioso solo di guardia al capezzale del letto di un monarca, come il mettere Glocester accanto ad Enrico per Protettore?

Mar. Sarebbe porvi un pugnale che certo lo trafiggerebbe.

Suff. Signora, è vero: e non riputerebbesi dunque demenza il porre il lupo a custode del gregge? Un uomo accusato di frodi e sangue sarà stupidamente posto in libertà perchè non ha ancora compiuto il delitto statuito in cuor suo? No; ch’ei muoia; lupo [p. 108 modifica]egli è, nemico per natura dell’armento, avido di sangue e di carnificina. Non gettiamo il tempo in sottigliezze e vani dibattiti sul genere della sua morte. Lacci, trame o violenze, poco vale, purch’ei muoia. L’inganno è innocente allorchè previene l’ingannatore.

Mar. Nobilissimo Suffolk, savi furono i tuoi detti.

Suff. Non savi saranno se adempiti non vengano; perocchè spesso si dice ciò che non si ha intenzione di compiere: ma in questo il mio cuore si accorda colla mia lingua. Veggendo che l’atto è meritorio; e che si uccide il mio re risparmiando il sua nemico, tutto il mio zelo s’infiamma. Pronunciate soltanto la parola ed io sarò il suo sagrificatore.

Car. Ma io vi preverrò, milord di Suffolk, uccidendolo: dite che acconsentite, approvate il fatto, ed io troverò il carnefice; tanto tenero sono della salute del signor mio!

Suff. Ecco la mia mano; l’opera è degna.

Mar. Così dico io pure.

York. Ed io anche; ed ora che tutti tre l’abbiamo affermato, poco rileva che qualcuno impugni la nostra condanna.

(entra un Messaggiere)

Mess. Gran lórdi, io giungo dall’Irlanda per significarvi che quegli abitanti si sono sollevati, e passano gl’Inglesi a filo di spada: mandate un pronto soccorso prima che il male divenga incurabile. Celeremente adoprando si può sperare di estinguere l’incendio.

Car. Una breccia è questa che richiede un pronto riparo! Qual consiglio date voi in tanta strettezza?

York. Sommerset sia ivi mandato in qualità di reggente: savio è impiegare un generale fortunato quale fu egli nelle cose di Francia.

Som. Se York, con tutto il suo ingegno, fosse stato reggente in vece mia, non tanto quanto io sarebbe rimasto colà.

York. No, non per ceder tutto come tu hai fatto: prima avrei voluto perder la vita, che recare la soma del disonore a casa, rimanendomi inoperoso fino alla rovina dell’ultimo possesso. Mostrami una cicatrice se il puoi: un corpo preservato con tanta cura è di rado coronato dall’alloro della vittoria.

Mar. Che dite voi? Questo fuoco sopito sotto la cenere sta per raccendersi, se l’alimento da un lato e la brezza dall’altro mantengono il suo furore. Non più, buon York... dolce Sommerset, sii paziente. Se a te fosse stata commessa la reggenza in quei luoghi, la tua fortuna, York, o quella delle nostre armi avrebbero potuto essere anche peggiori. [p. 109 modifica]

York. Che di peggio del nulla? Ma l’obbrobrio li colga tutti.

Somm. E te cogli altri che lo desideri!

Car. Milord di York, esperimentate qual’è la vostra sorte. I selvaggi Irlandesi sono in armi, e annaffiano le loro terre di sangue inglese. Volete voi condurre colà una banda di uomini eletti per farvi prova del vostro valore?

York. Lo farò, signore, se ciò piace a Sua Maestà.

Suff. La nostra autorità inchiude il suo assentimento; e quello che noi decretiamo ei lo conferma: addossatevi dunque questa cura.

York. Lo voglio. Pensate a’ miei soldati, signori, intantochè io do sesto alle mie cose particolari.

Suff. Questo si addice a me; ma torniamo al traditore Umfredo.

Car. Non più di lui. Io adoprerò seco in guisa, che per l’avvenire non ci infesterà più. Sciogliamo la seduta; il giorno è quasi finito, e debbo parlare con voi, Suffolk, di questo avvenimento.

York. Suffolk, fra quindici giorni io aspetterò a Bristol i miei soldati; di là salperemo per l’Irlanda.

Suff. Si eseguirà il voler vostro, nobile York.

(escono tutti tranne York)

York. Ora, York, indurisci come il ferro i tuoi nobili pensieri, e cangia i tuoi dubbii in risoluzioni. Sii quello che speri essere, o quello che sei abbandona alla morte, che non è degno di essere serbato. Lascia il timore dalla pallida faccia agli uomini nati in basso stato; ricetto non debbo avere in un cuor regio. Spessi, come le gocciole di pioggia in primavera, i pensieri ai pensieri succedonsi in me, e uno non ve n’ha che non si aggiri intorno al trono. Il mio cervello, più alacre del laborioso ragno, intesse noiose trame a’ miei nemici. — Bene, miei duchi, bene, è opera della vostr’alta prudenza l’inviarmi lontano alla testa di un esercito. Ma temo che in me non riscaldiate il serpe che, carezzato nei vostri petti, finirà per trafiggervi il cuore. D’uomini appunto difettavo, e voi me ne date: volentieri gli accetto; e siate certi che ponete armi aguzze nelle mani di un forsennato. Intanto che io mi rendo amiche in Irlanda schiere valorose, suscito in Inghilterra qualche nera tempesta, il di cui soffio manderà dieci mila anime in cielo o in inferno: e tale empia tempesta non cesserà di infuriare finchè non sia sopra il mio capo l’aureo diadema che come sole glorioso dissiperà le nubi. Per ministro del mio intento ho già sedotto quell’indomito Cade di Ashford che ha precetto di portare la ribellione al suo ultimo stadio, sotto il nome di Giovanni Mortimero. In Irlanda lo vidi quel feroce disfidare con [p. 110 modifica]audacia un popolo di nemici e resister solo, finchè le sue reni coperte di freccie lo facevano simile all’istrice, e soccorso alfine ti rialzava scuotendo i dardi sanguinosi, come un danzator moro scuote le sue campanelle, e persisteva a combattere. Spesso dopo essersi travestito come l’agile isolano dalla bionda capellatura ei s’introdusse nel campo dei nemici per conversar con loro; e senza essere discoperto riedeva a darmi notizia dei loro disegni. Codesto demonio sarà qui il mio sostituto: perocchè egli ha tutte le sembianze di Giovanni Mortimero che ora non è più, e col ministero suo potrò scrutare le menti dei Comuni, e conoscere come essi amino la casa di York. Quand’anche ei fosse preso, e soggettato alle più crudeli torture, non vi sono tormenti inventati dagli uomini che gli possano strappare la confessione ch’è ad istigazion mia che ha prese le armi. Che se poi prospera, come è da credere, altra non avrò che a correre dall’Irlanda col mio esercito, per cogliere la messe che quella mano ignobile avrà seminata. Umfredo morto, come sarà, ed Enrico quasi dimentico, il resto spetta a me.

(esce)


SCENA II.

Bury. — Una stanza nel palazzo.

Entrano parecchi masnadieri in fretta.

Mas. Corriamo da milord Suffolk; facciamogli noto che abbiam spacciato il duca come egli ci impose.

Mas. Oh! così non fosse!... Che abbiam noi fatto? Udisti mai, di’, uomo più penitente? (entra Suffolk)

Mas. Viene milord.

Suff. Ebbene, compieste?

Mas. Sì, mio buon lord, egli è morto.

Suff. Bene sta. Andate in mia casa dove avrete la mercede di quest’opera. Il re e tutti i Pari sopraggiungono. — Avete disposto il letto e le altre cose come io ordinai?

Mas. Sì, milord.

Suff. Andate.

(i masnad. escono; entrano il re Enrico, la regina Margherita, il cardinal Beaufort, Sommerset, lordi ed altri)

Enr. Ite, fate venir qui tosto nostro zio: annunciategli che io intendo di fargli grazia, quand’anche sia colpevole come vien detto. [p. 111 modifica]

Suff. Vado a chiamarlo, mio nobile lord. (esce)

Enr. Signori, assidetevi ai vostri scanni. — Io vi prego tutti di esser miti verso il nostro buon zio e di non apporgli delitti di cui non vi siano prove manifeste.

Mar. Dio non voglia che malizia alcuna possa venire adoperata e che condannato sia un nobile innocente! Prego Dio ch’egli possa mondarsi d’ogni sospetto.

Enr. Ti ringrazio, Margherita, queste parole mi alleggeriscono il cuore... (rientra Suffolk) Ebbene? Perchè siete sì pallido? perchè tremate? Dov’è nostro zio? Che v’è di nuovo, Suffolk?

Suff. Morto! egli è nel suo letto, milord; Glocester è morto!

Mar. Ah! Dio nol voglia!

Car. Segreti giudicii di Dio!... Sognai stanotte che il duca era muto e non poteva proferire parola! (il re sviene)

Mar. Ah, milord...! soccorso, signori, il re pure è spirato!

Suff. Rialzatelo; dategli a fiutar qualche odore.

Mar. Correte, correte, soccorso! Oh, Enrico, apri gli occhi!

Suff. Egli rivive... signora, calmatevi.

Enr. Oh celeste Iddio!

Mar. Come state, mio grazioso signore?

Suff. Confortatevi, mio sovrano! confortatevi, pietoso Enrico!

Enr. Chi mi parla di conforti? Milord di Suffolk? Ei venne dianzi coll’accento funesto del corvo ad agghiacciare il mio sangue, ed ora crede che la sua voce, uscendo da un cuor mendace, che mi dice confortatevi, possa dissipare il suono di terrore di cui il mio orecchio è pieno? Non nascondere il tuo veleno con tali melate parole, non porre la tua mano sopra di me: astientene, dico: il tuo contatto mi fa rabbrividire come la puntura di un serpe. Sinistro messaggiere, va lungi di qui! Nelle tue pupille siede tremendo l’omicidio che spaventa il mondo. Non guardarmi, perchè i tuoi occhi uccidono..... Però non dipartirti..... vieni anzi, basilisco, e abbrucia col tuo sguardo l’innocente che ti mira: nell’ombre di morte troverò gioie: in vita noi potrei, ora che Glocester non è più.

Mar. Potete voi oltraggiare milord di Suffolk così? Sebbene il duca gli fosse nemico, egli da cristiano ne compiange la morte; e in quanto a me, ancor che avverso mi fosse, se le lagrime o i gemiti potessero giovargli, vorrei acciecarmi a forza di piangere, infirmare a forza di gemere, divenir pallida come un giglio a forza di sospiri, per ritornarlo in vita. Chi sa, ciò che il mondo dirà di me? La voce della nostra inimicizia era sparsa, e si potrà sospettare ch’io lo abbia fatto uccidere: così il mio nome sarà [p. 112 modifica]macchiato di calunnie e le corti dei principi empite dell’obbrobrio mio. Codesto io ottengo colla sua morte. Oh me infelice! essere regina e coronata d’infamia!

Enr. Ah in me ricade tutta la sventura! Sfortunato Glocester!

Mar. Più di lui io dovrei essere compianta! Che! Enrico si volge altrove e nasconde il volto? Io non sono una lebbra odiosa; guardami. Sei tu divenuto sordo come il serpente? Abbine anche il veleno allora, e uccidi questa disperata. Son tutte le tue consolazioni chiuse nella tomba di Glocester? Margherita non ti è di alcuna gioia? Ergigli allora una statua e adoralo, e cuopri me di disprezzo. Per questo affrontai io i naufragi del mare, e mi opposi due volte ai venti che mi respingevano dall’Inghilterra? Che predicevano quei venti, se non che mi astenessi dall’approdare in quest’isola inospitale? Ed io che facevo allora fuorchè maledirli, e in un con essi colui che gli aveva scatenati dal suo antro di macigno? Che facevo io, fuorchè comandar loro di soffiare verso il porto, a cui anelava la mia anima, o di rompere il mio vascello sugli scogli più tremendi? E nondimeno i venti ricusavano di essere i miei carnefici e lasciavano a te solo questo odioso carico: gli scogli scomparivano, affinchè il tuo cuore più duro di loro potesse in seno al tuo palagio far morire Margherita! Quando la tempesta ne trasportava lungi dalle tue sponde, quando più non vedeva che la cima dei tuoi monti, io mi tolsi dal collo un monile prezioso, e lo gettai verso le tue rive sospirando. Il mare lo accolse ed io formai il voto che il tuo seno potesse nel medesimo modo accogliere fra breve il mio cuore. Ma allorchè poi per la lontananza il tuo paese fu interamente dileguato dietro le acque, le mie braccia si stesero ancora verso di lui, il cuore mi balzò in petto, e io maledissi i miei occhi per non aver saputo serbare più a lungo la vista della bella Inghilterra. Quante volte ho io stancata la voce di Suffolk, ministro della tua crudele incostanza, invitandolo ad assidersi al mio fianco per narrarmi le glorie di Albione, come Ascanio faceva accanto a Dido, infiammandola di amore per le geste di suo padre? Or non son io ammaliata come essa? Non sei tu bugiardo come Enea? Oimè, io soccombo! Muori, Margherita, poichè Enrico si duole che tu

ia vissuta sì a lungo, (romore al di dentro. Vengono Warwick e Salisbury. I Comuni stanno alle porte) 

War. Potente sovrano, è corsa voce che il buon duca Umfredo sia stato barbaramente trucidato da Suffolk e dal cardinal Beaufort. I Comuni, simili ad uno sciame irritato che ha perduto la sua guida, si affollano da tutte le parti, e nel dolore che li invade [p. 113 modifica]non curano le vittime che faranno. Ho calmata per un po’ la loro rabbia, finchè essi abbiano potuto udire dalla vostra bocca le cagioni della sua morte.

Enr. Ch’egli sia morto, buon Warwick, è troppo vero; ma com’ei morisse, Dio e non Enrico lo sa. Entrate nella sua camera, miratene il cadavere, e divinate il suo subito fine.

War. Questo farò, milord. — Fermati, Salisbury, colla moltitudine, finch’io ritorni.

(entra in una stanza interna, Salisbury esce)

Enr. O tu, che giudichi tutte le cose, illumina i miei pensieri, che tendono a far conscia la mia anima che violente mani han tolto di vita Umfredo! Se il mio sospetto è fallace, perdonamelo, gran Dio, perchè la verità a te solo appartiene! Volentieri io andrei a riscaldare le sue pallide labbra con mille baci, e a bagnare il suo volto con un oceano di lagrime. Volentieri volerei ad esprimere l’amor mio al suo cadavere e a stringere fra le mie mani la sua mano insensibile: ma tutto sarebbe vano; e il rivedere il mio morto corpo non farebbe che accrescere il mio atroce dolore!

(il fondo della scena si apre, e si vede Glocester morto nel suo letto. Warwick ed altri gli stanno accanto)


War. Avvicinati, buon sovrano; mira questo corpo.

Enr. Così saprò fino a qual profondità si è scavata la mia tomba: poichè colla sua anima son fuggite tutte le mie consolazioni; e veggendolo, veggo la mia morte nella sua.

War. Quanto è vero ch’io spero di vivere con quel re formidabile che, per riscattarci dallo sdegno di suo padre, volle caricarsi delle nostre iniquità, io credo che mani feroci abbiano tolto di vita quest’infelice duca.

Suff. Terribile sentenza proferita con voce solenne! Quali congetture ha Warwick per appoggiarla?

War. Mirate come il sangue si è fermato sul suo volto! Spesso ho veduto uomini estinti, ma i loro volti erano pallidi e senza sangue. Il sangue in quell’ultima lotta di natura, scendendo verso il cuore, s’arresta ad un tratto, e ne lascia priva la faccia: ma il volto di questo sfortunato n’è pieno; le sue pupille fuori della loro orbita annunziano che la respirazione è stata soffocata: le sue narici dilatate per la pressione e la mancanza dell’aere, i suoi capelli in disordine come campo di biada fra cui è passata la tempesta: le sue braccia e le sue mani raggrinzite quasi per violenti sforzi: il suo letto infine con tale arte acconciato; tutto fa manifesto che Glocester è stato ucciso e posto qui per deludere ogni nostra supposizione. [p. 114 modifica]

Suff. Warwick, chi avrebbe dunque ucciso il duca? Io stesso e Beaufort l’avevamo sotto la nostra protezione, e spero, signore, che non ci reputerete carnefici.

War. Ma entrambi eravate contrarii al duca, e a voi affidata era la di lui guardia: è quindi probabile che trattato non lo abbiate da amico, e che agito abbiate in questa sanguinosa tragedia.

Mar. Voi sospettate quindi questi nobili d’essere autori della fatal morte di Umfredo?

War. Chi trova la giovenca senza vita e sanguinosa, e accanto ad essa vede il beccaio colla scure in mano, può egli non sospettare ch’ei l’abbia atterrata? Chi vede un uccello sgozzato nel nido dell’avoltoio, stenta egli forse ad immaginare chi gli abbia rapita la vita, sebbene l’avoltoio si presenti con artigli mondi di sangue? In questo fatto v’è una chiara evidenza.

Mar. Foste voi il carnefice, Suffolk? Dov’è il vostro coltello? Dove sono gli artigli di Beaufort?

Suff. Io non porto pugnali per uccidere i dormienti, ma ho una spada vendicatrice che, irrugginita nel riposo, si forbirà nel sangue d’un temerario che osa credermi reo d’un assassinio. Parla se l’osi, superbo Warwick credi tu ch’io sia complice della morte di Glocester? (escono il Cardinale, Sommerset ed altri)

War. Che non oserà Warwick, se il perfido Suffolk lo sfida?

Mar. Warwick non frenerà il suo carattere protervo, nè cesserà di accusare con insolente arroganza, quand’anche Suffolk lo sfidasse ventimila volte.

War. Signora, calmatevi; io vi dico rispettosamente che ogni parola che profferite in suo favore è di macchia alla vostra real dignità.

Suff. Lord vile e insensato, ignobile e villano! Se mai donna oltraggiò il suo sposo, certo è tua madre che lo fece, accogliendo ne’ suoi talami violati qualche paltoniere che innestò sul nobile tronco dei Plantageneti un turpe aborto. Tu sei il frutto della sua vergogna; tu non appartieni all’illustre razza dei Nevil.

War. Se il tuo omicidio esecrando non ti servisse di egida, e non temessi di togliere al carnefice la sua preda, redimendoti colla mia spada dall’obbrobrio che ti attende; se la presenza del mio sovrano non mi raffrenasse, io vorrei, falso e perfido codardo, sforzarti a chiedere perdono inginocchiato delle tue passate parole, e a confessare che parlasti della madre tua, e che tu stesso eri l’infame frutto al quale accennavi. Dopo tal confessione ti darei la tua mercede, e manderei la tua anima all’inferno, fatal vampiro degli uomini addormentati. [p. 115 modifica]

Suff. Tu sarai desto allorchè verserò il tuo sangue, se non ti manchi il cuore per seguirmi quando uscirò di qui.

War. Esci, esci ora; o ti trascinerò lungi per forza: indegno tu sei ch’io combatta contro di te, ma pure lo farò per esorare l’ombra d’Umfredo. (esce con Suff.)

Enr. Qual corazza più impenetrabile d’un puro cuore? Triplice armatura ha colui che combatte pel giusto; e nudo è quegli, quantunque cinto d’acciaio, la cui coscienza è piena di rimorsi.

(rumore di dentro)

Mar. Che strepito è questo?

(rientrano Suffolk e Warwick colle spade sguainate)

Enr. Che veggo, signori? Colle armi nude in mano alla nostra presenza? Siete voi sì audaci?... Qual romor tremendo si ode?

Suff. Il traditore Warwick, cogli uomini di Bury, mi assalirono improvvisi, potente sovrano.

(folla che grida al di dentro. Giunge Salisbury)

Sal. Fermatevi, amici: al re verrà aperta la vostra mente (parlando a quelli che son dentro). Buon sovrano, i Comuni vi dichiarano col mio mezzo che se lord Suffolk non è punito senza indugi, col supplizio dei traditori, o non è, per indulgenza, bandito dal regno d’Inghilterra, essi verranno a strapparlo per forza dal vostro palagio, e gli faran soffrire i tormenti d’una morte lunga e crudele. Essi dicono che fu egli che uccise il buon duca Umfredo: dicono che temono in lui. Il carnefice di Vostra Maestà, ed è un puro istinto d’affezione e di zelo, esente da ogni specie di resistenza e di rivolta, quale sarebbe il pensiero di contraddire la vostra real volontà, che li rende saldi nel giuramento col quale hanno decretato il suo esilio. Soggiungono che pel tenero interesse che sentono pei vostri giorni, se Vostra Maestà volesse abbandonarsi al sonno, e vi piacesse di vietare ad ognuno di stornarvene sotto pena della vostra disgrazia, o anche di morte; in onta ancora di tal ordine rigoroso, se avvenisse che un serpe si mostrasse armato del suo dardo omicida, e strisciasse in silenzio verso di voi, necessario diverrebbe il destarvi, per tema che il vostro sonno non divenisse eterno. Tal è il motivo, signore, che spinge il vostro popolo ad alzare la voce, e a gridarvi che, vi consentiate o no, esso vuole difendervi dai rettili che trafiggono fra le ombre, come Suffolk, il di cui dardo fatale e avvelenato ha già vilmente tolta la vita al vostro diletto zio, di cui tutta la sua persona non riscatterebbe un capello.

I Comuni. (dal di dentro) La risposta del re, milord di Salisbury. [p. 116 modifica]

Suff. Degno era dei Comuni, vulgo inetto e villano, indirizzare un tal messaggio al loro monarca; ma voi, milord, lo assumeste con gioia, e ben lieto vi dimostrate nel dispiegare per esso la vostra eloquenza. Sappia però Salisbury, che tutto l’onore che gli verrà da ciò, sarà di far dire ch’ei fu l’ambasciatore di una vile plebaglia.

Comuni (dal di dentro) La risposta del re, o romperemo le porte.

Enr. Andate, Salisbury, e dite loro che son riconoscente di così tenera sollecitudine, e che quand’anche non vi fossi stato eccitato da essi, mio proposito era il fare quanto dimandano. Una voce segreta mi grida che gravi disavventure accadrebbero a questo Stato per opera di Suffolk. È per ciò ch’io giuro per la Maestà Suprema, di cui non sono qui in terra che l’indegno rappresentante, che dopo tre giorni Suffolk non verserà più la corruzione nell’aria ch’io respiro, sotto pena di morte. (Sal. esce)

Mar. Oh Enrico, lasciatemi difendere il nobile duca!

Enr. Insensata regina, ardite voi chiamarlo nobile? Non più, dico; osando difenderlo non farete che accrescere la mia rabbia. Quand’anche non l’avessi che detto, attenuto avrei la parola; il mio giuramento poi è cosa irrevocabile. — Se passati tre giorni sarai trovato in qualche parte della terra ove io regno, il mondo intero non ricomprerà la tua vita. — Vieni, Warwick, vieni con me; ho gravi cose da confidarti. (esce con War., i lordi, ecc.)

Mar. Possano le sventure e i dolori accompagnarvi! La desolazione del cuore e l’inconsolabile tristezza siano le amiche assidue dei vostri giorni! In due siete; l’inferno vi dia un terzo compagno, e una triplice vendetta segua sempre i vostri passi!

Suff. Cessa, gentil regina, da queste imprecazioni, e lascia che il tuo Suffolk prenda un doloroso commiato.

Mar. Oh, più codardo d’una donna e assai più debole! Non ardisci tu neppure maledire i tuoi nemici?

Suff. Morte li investa! Ma perchè li maledirei? Ah! se le imprecazioni potessero dar morte, come il succo della mandragora, io inventerei le più amare parole, velenose e orribili com’essa, e la mia bocca fremente le proferirebbe con maggiori segni d’odio implacabile che l’invidia dalla tinta livida non possa imaginarne o mostrarne dal suo antro detestabile. La mia lingua si turberebbe nella rapidità delle mie parole, i miei occhi scintillerebbero come le selci sotto l’acciaio, i miei capelli si rizzerebbero quasi fossero quelli di un demente; ogni mio muscolo travolto sembrerebbe maledirli; ed anche ora il mio cuore già troppo gonfio ti [p. 117 modifica]frangerebbe senza tale sfogo. Veleno sia dunque la loro bevanda! Fiele peggiore d’ogni fiele il cibo loro! Le loro viste più care quelle dei mortali aspidi! Il loro contatto più dolce somigli alla trafittura di una vipera! La musica che udiranno sia spaventosa come i sibili del serpe misti all’ululo dei gufi precursori di morte! Possano tutti i terrori che fanno orrendo l’inferno.....

Mar. Basta, amabile Suffolk, te stesso cruci così; e queste tremende maledizioni, come i raggi del sole riflettuti in uno specchio, si ripercuotono solo con forza sopra di te.

Suff. Foste voi che lo voleste, ed ora dite che io desista? Oh, ne attesto questo paese da cui sono bandito per sempre! Se le mie imprecazioni potessero aver effetto, vorrei passare una notte intera d’inverno a proferirne, ignudo, sulla cima di una montagna, dove i ghiacci non avessero mai permesso a uno stelo di germogliare, e mi parrebbe un minuto deliziosamente trascorso.

Mar. Ah, permettimi di pregarti di por fine a questo lamento. Dammi la tua mano ch’io la bagni colle mie lagrime: nè fare che la pioggia del cielo cada su di essa per cancellarvi i segni del mio dolore. Vorrei che questo bacio s’imprimesse eterno sulla tua mano, per ricordarti sempre queste labbra da cui si esalano mille sospiri per te! Oimè! volgi il capo, ond’io conosca interamente la mia disgrazia: essa non è finora che un sogno, e tale sarà sempre finchè mi starai accanto. Io otterrò la tua grazia, o, siine certo, sarò bandita io pure. Bandita! Già lo sono, poichè debbo diridermi da te. Va, non parlarmi; fuggi... oh, no, rimani! Così due amici condannati si abbracciano, e si dicono mille addii, più avversi assai a lasciarsi che a morire. Nondimeno, addio; e addio con te alla vita!

Suff. Così il misero Suffolk soffre mille esigli: un solo dal re, e da te tutti gli altri. Non è la mia patria ch’io lamento; tu sola lei. Un deserto sarebbe abbastanza popolato, se Suffolk godesse della sua celeste presenza: dove tu sei ivi è per me il mondo con tutti i suoi tripudii; dove non sei, è la morte. Più non mi reggo; vivi lieta e felice; io non avrò altra gioia che nel sapere che tu esisti. (entra Vaux)

Mar. Dove, Vaux, con tal fretta? Quali novelle?

Vaux. Corro ad annunziare a Sua Maestà che il cardinal Beaufort è in termine di morte. Una malattia subitana lo ha preso, e lo sforza ad aneliti disperati, e a bestemmiare i celesti e gli abitanti della terra. Qualche volta ei parla come se l’ombra dei duca Umfredo gli fosse al fianco: qualche volta chiama il re, e mormora al suo guanciale, credendo parlare a lui, i [p. 118 modifica]segreti della sua anima colpevole: corro da Sua Maestà per istruirle di ciò.

Mar. Vanne. (esce Vaux) Oimè! Che cosa è questo mondo? Quali novelle son coteste? Ma perchè mi lagno io della perdita di un vecchio, e dimentico l’esilio di Suffolk, tesoro della mia anima? Ho io dunque una lagrima che per te non sia? Va, parti; il re passerà di qui; se ti trovassero meco ti ucciderebbero certamente.

Suff. Se mi divido da te non posso vivere: e morire al tuo cospetto sarebbe cosa celeste! Qui esalerei la mia anima, come il fanciullo fra le braccia della madre, e lontano da te morrò fra accessi di rabbia, invocandoti ad alte grida per chiudermi gli occhi, per sentire i baci della tua bocca sulle mie labbra spiranti. Se tu fossi vicino a me in quell’ultimo istante, o tu richiameresti la mia anima fuggitiva, o l’accoglieresti nel tuo cuore, dov’ella vivrebbe in un divino Eliso. Morire accanto a te non sarebbe che un dolce sogno; morire lungi da te sarà tortura peggiore di morte. Oh! lascia ch’io rimanga, avvenga ciò che vuole.

Mar. Ah, parti! Sebbene la separazione sia crudele, è il solo rimedio per curare una piaga mortale. Va in Francia, amato Suffolk. Di là inviami tue novelle, e sii certo che in qualunque luogo di questo vasto globo tu ti fermi, saprò procacciarmi una iride fedele che ti troverà.

Suff. Vado.

Mar. E reca con te il mio cuore.

Suff. Il più ricco gioiello deposto nell’urna più dolorosa che mai contenesse un tesoro di gran prezzo. Per questa via volerò a morte.

Mar. Ed io per questa; addio. (escono da varie parti)

SCENA III

La stanza da letto del cardinal Beaufort.

Entrano il re Enrico, Salisbury, Warwick ed altri. Il cardinale è in letto circondato da varie persone del suo seguito.

Enr. Qual è il vostro stato, milord? Parlate al vostro sovrano.

Car. Se tu sei la morte, io ti darò tesori dell’Inghilterra bastanti a comprare un’altra isola come questa. Ma lasciami vivere e salvami da tanto male. [p. 119 modifica]

Enr. Ahi qoal segno evidente di vita malvagia è l’appressarsi d’una morte sì terribile!

War. Beaufort, è il tuo sovrano che ti parla.

Car. Conducetemi al mio giudizio quando verrete..... Non morì egli nel suo letto? Dove doveva morire? Posso io far vivere gli uomini loro malgrado?... Oh! non mi cruciate di più, confesserò..... Che! egli è tornato in vita? Mostratemi dunque dov’è; darei mille corone per rivederlo. — Ei non ha gli occhi; la polvere lo ha acciecato. — Pettinategli i capelli: guardate! guardate! si rialza e pare aspetti il volo della mia anima!.... Datemi qualche bevanda, recatemi il violento veleno che ho comprato.

Enr. Oh tu, eterno motore dei cieli, getta uno sguardo di misericordia sopra questo infelice! Scaccia il demone furioso che assale la sua anima tormentata; e libera il suo seno da sì feroce disperazione!

War. Mirate come le angoscie della morte lo fanno rabbrividire.

Sal. Nol frastornate; lasciatelo morire placidamente.

Enr. Pace alla sua anima! Iddio gliela conceda! Lord cardinale, se pensate alla felicità del Cielo, sollevate le vostre mani, date qualche segno di speranza. — Egli muore, e resta immobile..... Oh, Dio, perdonagli!

War. Sì tremenda morte dà indizio di empia vita.

Enr. Non giudicate, chè tutti siamo peccatori. — Chiudetegli gli occhi, copritelo col lenzuolo, e abbandoniamoci alle nostre meditazioni. (escono)