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106 | IL RE ENRICO VI |
testa, e adoprati tutti i mezzi di una donna per inasprirò e fare sdegnar meco il mio sovrano. Sì, tutti riuniti vi siete nel medesimo nodo di congiura, ed io ho avuto più volte novella delle vostre trame. Lo so, non mancheranno i falsi testimoni in danno mio, nè le infami accuse per farmi apparir reo: l’antico adagio in me si avvererà: un bastone tosto si trova allorchè si vuole abbattere un mastino.
Car. Signore, gli scherni suoi sono incomportabili: se quelli che vegliano sulla vostra persona, per garantirvi dal pugnale del tradimento o dalla rabbia degli insani, son così scopo alle ingiurie dei malvagi, il loro zelo in breve si raffredderà.
Suff. Non ha egli profanato anche ora con parole artificiose il nome augusto della nostra regina, come se ella fosse tale da porre in opera lo spergiuro per abbatterlo?
Mar. Lascio che chi perde sfoghi il suo livore.
Gloc. Dite vero, signora, e dite forse più che non volete. È un giuoco crudele in cui perdo infatti. Sciagura a colui che guadagna! Perocchè è colla perfidia e col delitto che giuocata hanno la mia vita, ed è ben lecito al martire di querelarsi.
Buck. Nulla raffrenerà la garrula sua lingua, ed ei ne terrà qui tutto il giorno. Lord Cardinale, egli è vostro prigioniero.
Car. Uomini della mia guardia, disarmate il duca, e custoditelo in sicurezza.
Gloc. Ah! E dunque così che Enrico si lascia togliere l’appoggio della sua giovinezza, prima che i suoi passi siano abbastanza affrancati per sostentarlo? È così, o re, che si trascina lungi da te il vecchio servo, custode fedele che vegliava sopra i tuoi giorni? Già fremono sordamente i lupi feroci che ti divoreranno. Oh! fosse mendace il mio timore, così lo fosse! perocchè, mio buon Enrico, io temo la tua rovina.
(esce fra le guardie)
Enr. Signori, fate quello che meglio vi aggrada come se io non ci fossi.
Mar. Che! vuole Vostra Altezza lasciare il parlamento?
Enr. Sì, Margherita; il mio cuore è inondato di dolore e gli occhi miei son pieni di lagrime. La mia esistenza è circondata di miseria; perocchè qual cosa rende più miserabile del cruccio altrui? Ah! zio Umfredo, nel tuo volto io veggo virtù, onore e lealtà, e nondimeno l’ora è venuta in cui è forza il trovarti perfido, il temere della tua innocenza. Qual geloso destino invidia dunque la tua fortuna, perchè questi nobili lórdi, e Margherita mia sposa s’armino così contro di te? Tu non facesti mai loro