Seconda parte del Re Enrico VI/Atto quarto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUARTO
SCENA I
Kent. — La spiaggia del mare vicino a Douvres.
Si ode lo strepito di una battaglia che segue in mare; quindi approdano un Capitano, un Timoniere, Gualtiero Whitmore, ed altri; con essi Suffolk, e vari gentiluomini prigionieri.
Cap. Alla fine il giorno, confidente indiscreto, colla sua luce importuna, è rientrato nel seno profondo dei mari e con sè reca le ore della pietà. Ora gli animali dei boschi, coi loro ululi selvaggi, svegliano i neri draghi che tirano il fosco carro della notte,, mostri fatali che si piacciono nelle tombe dei morti e soffiano nell’aere le pestilenze. Ecco il momento, amici, di sbarcare i nostri prigionieri; intantochè il nostro vascello rimarrà ancorato essi ne daranno garanzie del loro riscatto o tingeranno col loro sangue queste pallide sabbie. Piloto, ti cedo di cuore questo captivo; e a te, Timoniere, quest’altro. Whitmore, (indicando Suff.) questo a te appartiene.
1° Gent. Quale è il mio riscatto, signore? Fatemelo conoscere.
Cap. Mille corone, o altrimenti china la testa.
Tim. E altrettanto voi mi darete se non volete subire egual sorte.
Cap. Che! vi par molto il pagar due mila corone, e portate il nome e l’aspetto di gentiluomini? Tagliate le gole a questi malandrini; essi denno morire; le vite di coloro che abbiam perduti nel combattimento non possono essere bilanciate con sì piccola somma.
1° Gent. Pagherò, signore; lasciatemi la vita.
2° Gent. Così farò anch’io, e scriverò tosto a questo effetto.
Whit. Io perdei un occhio andando all’arrembaggio; e per vendetta vo’ che tu muori. (a Suff.)
Cap. Non esser sì crudele; poni il riscatto e lascialo vivere.
Suff. Riconosci quest’ordine; son nobile, imponi su di me la taglia che vuoi; sarai pagato.
Whit. E così son io; il mio nome è Gualtiero Whitmore. Ebbene? Perchè impallidisci? La morte ti fa ella terrore?
Suff. Il tuo nome mi empie di sgomento, perchè in esso è morte. Un uomo dotto meditò sulla mia nascita e mi predisse che da un Gualtiero abitante delle acque sarei stato spento. Ma ciò non valga a renderti spietato.
Whit. Tali cose non curo; a me basta che il disonore non abbia mai oscurato il mio nome, che questo ferro non ne abbia tosto levate le macchie. Perciò quando mi risolverò a vendere da mercante la mia vendetta, la mia spada si franga, le mie armi vadano in brani, e sia io gridato vile su tutti i mali! (afferra Suff.)
Suff. Indugia, Whitmore; perchè il tuo prigioniero è un principe, è il duca di Suffolk, Guglielmo della Pole.
Whit. Il duca di Suffolk, avviluppato in tali cenci?
Suff. Ma essi non fan parte del duca: Giove pure talvolta li trasfigurava; perchè non io?
Cap. Ma Giove non era mai ucciso come tu sarai.
Suff. Oscuro e vile scellerato! il sangue del re Enrico, l’onorevole sangue di Lancastro non può essere versato da mani abbiette come le tue. Non mi hai tu sovente tenuta la staffa colla testa nuda inginocchiato sotto il mio palafreno, riputandoti felice allorchè ti volgevo uno sguardo? Quante volte non t’ho visto badarti una mano, e tenderla rispettoso per ricevere la mia coppa, e nudrirti cogli avanzi della mensa in cui io era assiso colla regina Margherita, intento a compiere ogni mia volontà? Rammentalo, e questo pensiero umilii il tuo folle orgoglio. Non sei tu quello che percorreva continuamente le gallerie del mio palazzo per aspettare ch’io uscissi e mostrarmiti in positura supplichevole? Questa mano fece la tua fortuna dandoti un vascello, ed essa incatenerà il tuo braccio, e ammalierà la tua lingua temeraria.
Whit. Parla, capitano, debb’io pugnalare questo villano trasfigurato?
Cap. Lascia prima che le mie parole lo trafiggano, come le sue mi hanno trafitto.
Suff. Vile, le tue parole son feroci come sei tu.
Cap. Guidatelo nella nostra barca e mozzategli il capo.
Suff. Guardati d’osarlo per amor tuo.
Cap. Lo voglio, Pole.
Suff. Pole?
Cap. Pole, sir Pole, lord, sia come più ti piace. Sorgente il di cui limo intorbida le pure fonti d’Inghilterra, Suffolk, il ferro troncherà la tua testa intenta sempre a conturbare lo Stato. Le tue labbra, che toccarono quelle della regina, morderanno fra breve la polvere: la tua bocca, che sorrise alla morte del buon duca Umfredo, mormorerà fremente invano contro le brezze insensibili, che risponderanno a’ tuoi lamenti coi loro sibili. Voglio ammogliarti alle Furie d’inferno per aver tu avuto l’audacia di accoppiare un potente principe colla figlia di una larva di re, che non ha nè sudditi, nè tesori, nè diadema. Tu ti sei ingrandito con una politica turpe, suddito ambizioso: ti sei satollato col sangue della tua patria: per te le ricche provincie dell’Aijou e del Maino sono state vendute ai francesi: a tua suggestione i ribelli e perfidi Normanni sdegnano dì porgerne omaggio; e le città di Piccardia hanno sgozzati i loro governatori, rase le nostre fortezze, rimandati gli avanzi dei nostri soldati sanguinosi nel loro paese: e per odio di te il generoso Warwick e tutti i Kevil, la di cui spada tremenda non fu mai sguainata invano, corrono alle armi; e la casa di York, precipitata dal trono per l’infame assassinio di un re innocente ed eccitata dalla tua cruda tirannide, arde dei fuochi della vendetta. Già i suoi vessilli s’avanzano dal nord, splendidi come soli, e portano per divisa: Invitis nubibus. I comuni di Kent disertano le campagne, e sostengono quella fiera contesa. Per conchiudere, l’onta e la miseria sono entrate nel palazzo del nostro re, e tutti questi mali sono opera tua. Via, compagni; conducetelo.
Suff. Oh fossi un Dio per vibrare la folgore su quest’orda di vili schiavi! Ben poco occorre ad enfiare d’orgoglio i miserabili! Questo sciagurato, che possiede appena un vascello, minaccia più che s’ei fosse il maggior pirata dei mari. Insetti vili succhiar non debbono il sangue dell’aquila: impossibile è ch’io muoia per mano abbietta come la tua. Le tue parole svegliano in me rabbia e non timore: sappi che la regina mi ha affidato un messaggio per la Francia: io quindi ti impongo di trasportarmi colla tua nave alla riva opposta.
Cap. Gualtiero...
Whit. Vieni, Suffolk, bisogna ch’io ti guidi a morte.
Suff. Gelidus timor occupat artus: sei tu ch’io temo.
Whit. Ne avrai cagione prima ch’io ti lasci. Che! Gemi ora?
1° Gent. Mio grazioso signore, supplicatelo, parlategli con dolcezza.
Suff. La lingua sovrana di Suffolk è inflessibile ed aspra; usa a comandare, inetta a interceder grazie. Lungi da me la debolezza d’onorar costoro con un’umile preghiera. No; la mia testa s’abbassi sul palco fatale prima che si veggano le mie ginocchia piegare innanzi ad alcun essere, eccetto il Dio de’ mortali, o il mio re; e la mannaia la separi dal mio corpo sanguinoso prima che mirar si possa scoperta dinanzi a sì vili schiavi. La vera nobiltà è scevra di paure. Io posso sopportare dolori assai più grandi di quelli che sia dato loro d’infliggermi.
Cap. Legatelo al timone e fate che più non parli.
Suff. Venite, soldati, mostratemi fin dove può giungere la vostra efferatezza! Possa questa mia morte non mai essere dimenticata! Grandi uomini morirono spesso per mano di vili malandrini. Un centurione romano e un empio facinoroso trucidarono il dolce Tullio; la mano del bastardo Bruto pugnalò Cesare; selvaggi isolani scannarono il gran Pompeo; e Suffolk muore ucciso da infami pirati. (esce trascinato da Whitmore e da altri)
Cap. Quanto a questi due, a cui abbiamo assegnato un riscatto, nostro piacere è che l’uno d’essi si diparta: venite perciò voi nosco, e lasciatelo andare. (escono tutti tranne ii primo gentiluomo; rientra Whitmore col corpo di Suffolk).
Whit. Questa testa e questo inanime tronco si rimangano qui finchè la regina che n’era amante abbia dato loro sepolcro.
(esce)
1° Gen. Oh barbaro e inumano spettacolo! io vo’ portare il suo corpo al re, e s’ei noi vendica, i suoi amici lo vendicheranno, o la regina almeno, a cui questo misero fu sì caro.
(esce col cadavere)
SCENA II.
Blackbeath.
Entrano Giorgio Bevis, e Giovanni Holland.
Gior. Vieni, e procacciati una spada, fosse anco di legno: essi sono stati veduti i due giorni scorsi.
Holl. Tanto più avranno bisogno ora di dormire.
Gior. Ti dico che Cade, il mercante, si propone di vestire lo Stato, e di fargli un abito nuovo.
Holl. N’han ben donde, perchè è assai spelato. Sì, lo ripeto, non v’è più allegria in Inghilterra, dacchè i nobili vi comandano.
Gior. Oh sciagurata età! La virtù non si ha in cale quand’è nel popolo.
Holl. La nobiltà si crederebbe disonorata vestendo la divisa dell’artigiano.
Gior. E perciò il consiglio del re non è composto che di pessimi artefici.
Holl. É vero: e nondimeno è detto: lavora nella tua vocazione: locchè vai quanto dire: che i magistrati siano industriosi: e perciò noi dovremmo essere magistrati.
Gior. Hai còlto nel segno: non v’è migliore indizio d’una mente ferma che una mano incallita dal lavoro.
Holl. Oh lo reggo, lo veggo! V’è il figlio di Best, pellicciaio di Wingham.
Gior. Egli avrà la pelle dei nostri nemici per farne cuoio da cane.
Holl. E v’è anche Dick, il beccaio.
Gior. Allora il vizio sarà atterrato come un bue, e la gola dell’iniquità tagliata come quella d’un vitello.
Holl. E Smith, il tessitore.
Gior. Argo. Il filo della loro vita è consumato.
Holl. Vieni, vieni, uniamoci a loro.
(suono di tamburo; entrano Cade, Dick beccaio, Smith tessitore e molti popolani insorti)
Cade. Noi, Giovanni Cade, così chiamato da quello che ha riputato nostro padre...
Dick. (a parte) piuttosto per aver rubato un barile di arringhe 1.
Cade. (continuando)... Atterriremo i nostri nemici, avendo concepito il disegno di abolire re e principi... Comanda il silenzio. (a Dick)
Dick. Silenzio!
Cade. Mio padre fu un Mortimero...
Dick. (a parte) Uomo onesto, e buon muratore.
Cade. Mia madre una Plantageneta...
Dick. (a parte) La conobbi; era un’eccellente lavandaia.
Cade. Mia moglie discendeva dai Lacis...
Dick. (a parte) Era figlia veramente di un facitore di lacci e molti ne vendo.
Smith. (a parte) Ma ora essendo inabile a viaggiare colle sue merci è divenuta stiratrice alla parrocchia del circondario.
Cade. Perciò, popolo, voi vedete ch’io sono di un’onorevole discendenza.
Dick. (a parte) Sì, in fedel il campo è onorevole; e quivi egli nacque sotto una siepe.
Cade. Prode io sono.
Smith. (a parte) La miseria lo è sempre.
Cade. Posso indurar molte pene.
Dick. (a parte) Di ciò non è quistione; l’ho veduto tre giorni di seguito frustato in un mercato.
Cade. Non temo nè spada nè fuoco.
Smith. (a parte) Nè temere li debbo; la sua corazza è a prova di ciò.
Dick. (a parte) Ma mi sembra che del fuoco dovesse aver paura, essendo stato tante volte bruciato nelle mani per rapimento di montoni.
Cade. Siate prodi adunque, perchè il rostro capitano lo è, e vuole riformare lo Stato. Si vedranno in Inghilterra sette pani da un soldo venduti per un soldo. La misura di tre pinte ne conterrà dieci; e dichiarerò delitto di Stato il bere la piccola birra. Tutto regno si ridurrà in Comuni, e il mio palafreno andrà a pascolare in Cheapside. Allorchè sarò re, perchè re voglio essere...
Tutto il popolo. Dio salvi Vostra Maestà!
Cade. Vi ringrazio, buon popolo; non vi sarà più moneta; tutti berranno e mangieranno a mie spese; e io vestirò tutti con una medesima uniforme onde possano essere uniti come fratelli, a riverirmi quale sovrano.
Dick. Per prima cosa andiamo ad uccidere tutti i curiali.
Cade. Sì, questo si ha a compiere. Non è cosa deplorabile che della pelle d’un innocente agnello se ne debbano fare pergamene? E che la pergamena, su di cui la penna d’un uccello verrà segnato qualche carattere, uccider debba un uomo? Alcuni dicono che le api pungono: ma io dico ch’è la cera dell’ape che uccide: perocchè non mi sono mai valso del suggello fuorchè una volta, e non mai fui libero da poi. Ebbene? che v’è?
(entrano alcuni altri del popolo conducenti lo scrivano di Chatham)
Smith. Lo scrivano di Chatham: egli sa scrivere, leggere e fare i conti.
Cade. Oh mostruoso!
Smith. Fu preso mentre faceva libri pei fanciulli.
Cade. Vile scellerato!
Smith. Ha un volume in saccoccia con lettere rosse.
Cade. Dunque è un mago.
Dick. Sa far obbligazioni e scrivere abbreviato.
Cade. Me ne dolgo per lui. È un uomo di bella persona, sull’onor mio; e se noi trovo colpevole non morirà. — Avvicinati, uomo; bisogna ch’io ti esamini. Qual è il tuo nome?
Scriv. Emmanuele.
Dick. Il nome che i nobili sogliono scrivere in testa alle loro lettera. — Andrà male per te.
Cade. Lasciate ch’io solo gli parli. — Hai tu l’uso di scrivere il tuo nome? O hai un suggello per farti conoscere come gli uomini onesti?
Scriv. Signore, ringrazio Dio d’essere stato tanto bene educato da saper scrivere il mio nome.
Il popolo. Ha confessato; via di qui; è un traditore; è uno scellerato.
Cade. Conducetelo altrove e sia appeso colla sua penna e il suo calamaio al collo. (escono alcuni collo scrivano; entra Michele)
Mich. Dov'è il nostro duce?
Cade. Son qui; che vuoi?
Mich. Fuggi! fuggi! fuggi! Sir Umfredo Stafford e suo fratello son vicini e ci vengono sopra coll’esercito del re.
Cade. Fermati, vile, fermati, o ti stendo sulla sabbia. Ei sarà ricevuto da un uomo nobile al par di lui: ei non è che cavaliere, non è così?
Mich. Appunto.
Cade. Per eguagliarlo mi farò anch’io cavaliere. — (s’inginocchia) Sorgi, sir Giovanni Mortimero. Adesso siamo simili.
(entrano sir Umfredo Stafford e Guglielmo suo fratello, al suono dei tamburi, coll’esercito)
Umf. Villani ribelli, feccia dei campi della contea di Kent; gente da patibolo, gettate a’ miei piedi le vostre armi e ritornate alle vostre capanne. Il re è buono e vi farà grazia se abiurate la vostra rivolta.
Gug. Ma la sua collera sarà inesorabile, e vostro sangue si spargerà a torrenti, se in essa persistete. Obbedienza adunque, o morte.
Cade. Quanto a questi schiavi di corte, vestiti di seta, non ho nulla a dir loro. £ a voi, buon popolo, che m’indirizzo, è a voi mercè cui spero di regnare un giorno. Io sono, per nascita,, lo sapete, erede legittimo della Corona.
Umf. Miserabile, tuo padre era muratore; e tu stesso non sei che un racconciatore di panni. Non è vero forse?
Cade. E Adamo che era egli altro fuorchè un giardiniere?
Gug. Che perciò?
Cade. Vengo. Edmondo Mortimero, conte della Marca, sposò la figlia del duca di Clarenza. È vero?
Gug. Sì.
Cade. Da lei ebbe due figli in un sol parto.
Gug. Menzogna.
Cade. Qui cade la questione: ma io affermo la veracità del fatto. Il primogenito, nudrito segretamente in una foresta, fu tolto dalla sua culla, dalla moglie d’un pastore; e non avendo alcuno conoscimento de’ suoi natali nè del suo parentado, seguì in età più provetta la condizione di coloro con cui stava, guadagnando come essi la vita col lavoro delle sue mani. Io sono il di lui figlio unico: negalo, se puoi.
Dick. Sì, è così; e quindi diverrà re.
Smith. Signore, ei costruì un camino nella casa di mio padre, e i mattoni vi sono ancora per renderne testimonianza: perciò nol negate.
Umf. E vorrete dar credito alle fole di questo giullare, popolo imbelle?
Il popolo. Sì; noi gli crediamo; andatevene.
Gug. Cade, il duca di York ti ha detto tutto ciò.
Cade. Ei mente..... (a parte) perchè io stesso ne fui l’inventore. — Va, di’ al tuo re per conto mio che per amore del suo padre Enrico V, che sapeva far scorrere i suoi amici per le campagne a spese della Francia, acconsento a lasciarlo regnare, a patto però ch’io divenga protettore del regno e suo.
Dick. Di’ ancora che vogliamo avere la testa di lord Say, che ha venduto il ducato del Maino.
Cade. E ciò è giusto; perchè mercè sua l’Inghilterra è stata smembrata e sarebbe pericolante, se il mio braccio non la sostenesse. Amici re, io vi dico, che lord Say ha mutilato lo Stato e l’ha fatto eunuco; che di più sa parlar francese e quindi è un traditore.
Umf. Oh stupida e deplorabile ignoranza!
Cade. Rispondi, se puoi, a questo argomento. I Francesi son nostri nemici: dopo di che non ti fo che una interrogazione. Quegli che parla colla lingua d’un nemico può essere buon consigliere no?
Il popolo. No, no: e quindi vogliamo la sua testa.
Gug. Poichè le parole di pace non possono persuaderli, assaliamoli, fratello, con l’esercito del re.
Umf. Araldo, suona, e per tutte le piazze di ogni città del circondario proclama traditore alla patria Giovanni Cade e tutti i suoi addetti: annunzia che tutti coloro del suo partito che saran fatti prigionieri nella battaglia, o arrestati nella fuga, verranno inesorabilmente morti al cospetto delle loro donne e dei loro figliuoli, e i loro cadaveri saranno sospesi, per esempio, alle loro porte. — Voi che amate il re, seguitemi.
(escono i due Stafford coll'esercito)
Cade. £ voi che amate il popolo venite meco. Ecco il momento di mostrare che siete uomini; è per la libertà che combattiamo; non lasciam vivo un solo di coloro. Inibisco la clemenza; e vo’ che non si salvi la vita altro che a quelli che portano cinti di pelli di bestie e scarpe di vacchetta; perchè son poveri e onesti cittadini che si accordano con noi e si porrebbero dalla nostra parte se ne avessero il coraggio.
Dick. Essi sono schierati e ci vengono contro.
Cade. Il nostro ordine è il disordine. Avanti, avanti.
(escono)
SCENA III.
Altra parte di Blackheath.
Allarme. — Le due parti entrano e combattono; i due Stafford rimangono uccisi.
Cade. Dov’è Dick, il beccaio di Ashford?
Dick. Presente.
Cade. Costoro cadevano innanzi a te come bovi e montoni, e tu adoperasti come se fossi stato nella tua beccheria: per questi fatti io vo’ ricompensarti: la quaresima durerà il doppio di quello che ora dura, e ti sarà concesso di uccider cento bovi, meno uno.
Dick. Di più non desidero.
Cade. E a dir vero non meriti meno. Questo monumento di vittoria vo’ io portare (togliendo il pennacchio a Stafford): e i loro corpi saranno trascinati alle calcagna del mio giumento, finchè io non sia giunto a Londra dove intendo si rechi dinanzi a me la spada del prefetto.
Dick. Se vogliamo avvantaggiarci e prosperare, rompiamo nel nostro passaggio le porte di tutte le prigioni, e liberiamo quelli che vi sono racchiusi.
Cade. Non temere ch’io l’obblii. Vieni, andiamo a Londra.
(escono)
SCENA IV.
Londra. — Una stanta nel palazzo.
Entra il re Enrico leggendo una supplica; il duca di Buckingham e lord Say con lui: in distanza la regina Margherita piangente sopra la testa di Suffolk.
Mar. Ho spesso udito dire che il dolore ammollisce l’anima, e la rende timida. Pensa dunque alla vendetta, e cessa di vergare pianti. — Ma chi può cessare di spargerne vedendo questo tristo oggetto? Posseggo qui la sua testa, e la stringo contro il mio seno palpitante: ma dove è il corpo perchè io l’abbracci?
Buck. Che risposta fa Vostra Maestà alla supplica dei ribelli?
Enr. Manderò qualche santo vescovo a trattare con essi; perocchè a Dio non piaccia che io faccia perire di spada tante anime semplici e traviate! Piuttosto che permettere che esse divengano vittime della cruda guerra, vo’ avere io stesso un colloquio col loro generale. Ma aspettate, vo’ rileggere la loro dimanda.
Mar. Mostri feroci! Questo volto celeste, che come un errante pianeta governava la mia anima, non potò contenere la barbarie di quegli uomini che indegni erano pur anche di contemplarne la bellezza?
Enr. Lord Say, Cade ha giurato di aver la vostra testa.
Say. Sì, ma io spero che Vostra Altezza avrà la sua.
Enr. (avvicinandosi a Mar.) Ebbene, signora? Sempre piangente la morte di Suffolk? Temo, mio amore, che se fossi morto lo tu non mi avresti tanto compianto.
Mar. No, amore, compianto non ti avrei, ma sarei morta fa te. (entra un Messaggiere)
Enr. Ebbene! Quali novelle? Perchò vieni con tal fretta?
Mess. I ribelli sono a Southwark; fuggi, signore. Giovanni Cade dichiara se stesso lord Mortimero, disceso dai duchi di Clarenza, chiama Vostra Grazia un usurpatore, e intende coronarsi a Westminster. Il suo esercito è composto da una cenciosa moltitudine rozza e senza pietà. La morte di sir Umfredo Stafford e suo fratello l’ha empita di coraggio: nobili, gentiluomini, dotti e arcivescovi essi chiamano tutti spolpatori del regno, e li cogliono estinti.
Enr. Oh sciagurati! Essi non sanno quel che si facciano.
Buck. Mio grazioso signore, ritiratevi a Kenilworth finchè un esercito sia raccolto che valga ad atterrarli.
Mar. Ah fosse vivo ora il duca di Suffolk, e questi ribelli sarebbero in breve sbaragliati!
Enr. Lord Say, i traditori ti odiano; vieni con noi a Kenilworth.
Say. Così Vostra Grazia potrebbe essere in pericolo: la vista mia è odiosa ai loro occhi: quindi in questa città voglio rimanermi, e vivervi solitario con tutta quella segretezza che si potrà. (entra un altro Messaggiere)
2° Mess. Giovanni Cade si è impossessato del ponte di Londra; i cittadini fuggono, e dimenticano le loro case. Il vilpopolo anelante di preda corre ad unirsi al traditore; e tutti giurano di depredare la città, e la vostra Real Corte.
Buck. Non indugiate, signore; partite tosto.
Enr. Vieni, Margherita; Dio è la nostra speranza e ci soccorrerà.
Mar. Ogni mia speranza è morta con Suffolk.
Enr. Addio, signore (a Say); non vi affidate nei ribelli di Kent.
Buck. Non vi affidate in alcuno, per tema di essere tradito.
Say. La fiducia che ho è riposta nella mia innocenza, perciò sono audace e risoluto. (escono)
SCENA V.
La Torre.
Entrano lord Scales ed altri sopra le mura.
Poscia molti cittadini al disotto.
Scal. Ebbene? È ucciso Giovanni Cade?
1° Cit. No, milord, nè è probabile che lo sia; essi han guadagnato il ponte uccidendo tutti quelli che lo difendevano, e il lord prefetto vi chiede un po’ di soldati della Torre per difender la città contro i ribelli.
Scal. Tutto quello che potrò dare senza compromettere la sicurezza della Torre sarà ai vostri ordini. Ma io pure sono pieno di sgomenti. I ribelli han già tentato di prender questo posto di assalto. Correte, amici, alla pianura di Smithfield, formate un corpo colà ed io vi manderò Matteo Gough. Combattete pel vostro re, pel vostro paese, e per voi stessi: addio, convien ch’io lasci questi baloardi. (escono)
SCENA VI.
Strada Cannon.
Entra Giovanni Cade, coì suoi seguaci, battendo col suo bastone le case circostanti.
Cade. Ora Mortimero è signore di questa città. E qui assidendomi sulle pietre di Londra, comando e voglio che a spese di questo paese ne’ suoi canali non scorra più che il vin di Bordò per questo primo anno del nostro regno. D’ora innanzi sarà traditore chiunque mi chiamerà con nome diverso da quello di lord Mortimero. (entra un soldato correndo)
Sal. Giovanni Cade! Giovanni Cade!
Cade. Uccidetelo: ha trasgredito alla mia legge.
(il soldato è ucciso)
Smith. Se quest’uomo è savio, ei non vi chiamerà più Giovanni Cade, dopo sì bell’avvertimento.
Dick. Milord, vi è un esercito che si raccoglie a Smithfield.
Cade. Andiamolo a combattere: ma prima correte ad incendiare il ponte di Londra; e se potete, abbruciate anche la Torre. Andiamo. (escono)
SCENA VII.
Smithfield.
Allarme. Entra da un lato Cade col suo esercito; dall'altro i cittadini e le truppe del re capitanate da Matteo Gough. Segue il combattimento; i cittadini son posti in fuga e Matteo è ucciso.
Cade. Bene sta, miei amici — Ora andate ai magazzini e ai collegi, e atterrate tutti sì fatti edifizi.
Dick. Ho una dimanda da fare a vossignoria.
Cade. Mia Signoria! Sei sicuro di ottenerla solo per questa parola.
Dick. La grazia che vi chieggo è che tutte le leggi d’Inghilterra escano dalla vostra bocca.
Holl. (a parte) In tal caso saran leggi sanguinarie; poichè ei ha ricevuto in una mascella un colpo di landa, e la piaga non è ancora guarita.
Smith. (a parte) Saranno cattive leggi, Holland; perchè il suo alito sente troppo il cacio e l’aglio.
Cade. Ho pensato a ciò, e si farà. Via, abbruciate tutti i registri del regno; la mia bocca sarà il parlamento d’Inghilterra.
Holl. (a parte) È probabile che avremo statuti mordenti, a meno che i denti non gli siano spezzati.
Cade. E di qui innanzi tutte le cose saranno in comune.
(entra un Messaggiere)
Mess. Milord, una gran cattura! una gran cattura! Abbiam qui lord Say che vendè le città di Francia; e che fu cagione che pagassimo quindici scellini per l’ultimo. sussidio.
(entra Giorgio Bevis con lord Say)
Cade. Ebbene, sarà decapitato per ciò dieci volte. — Ah! Say tu qui? Eccoti alfine sottomesso alla nostra giurisdizione legittima. Che puoi tu rispondere a mia Maestà per aver ceduta la Normandia a monsieur Basmiecu Delfino di Francia? Ti sia noto, a tua perpetua confusione, ch’io sono lord Mortimero e che mia missione è di purgare il regno da immondizie quali sei tu. Tu hai da traditore corrotta la gioventù d’Inghilterra, erigendovi scuole di grammatica: e dove i nostri padri non ebbero altri libri che le loro dita e i loro cuori, tu hai poste stamperie e, contro gl’interessi del re e della corona, hai protetto un mulino da carta. Ti sarà provato irrefragabilmente che tu avesti sempre intorno a te uomini che ti parlavano di nomi e di verbi, ed altre parole abbominevoli che orecchio cristiano non può intendere. Tu hai istituiti giudici di pace per chiamarvi dinanzi poveri cittadini in discussione di materie che essi non comprendono. Di più gli hai fatti mettere prigione; e perchè non sapevano leggere, li condannavi ad essere appiccati; quando invece per questa sola cagione sarebbero stati degni di vivere. Tu cavalchi poi sopra una gualdrappa ricamata; è vero?
Say. Che perciò?
Cade. Tu non devi permettere che il tuo cavallo porti una gualdrappa ricamata, quando uomini più onesti di te se ne vanno in farsetto.
Dick. E spesso lavorano in camicia, come io per esempio che son beccaio.
Say. Popolo di Kent....
Dick. Che dici tu di Kent?
Say. Null’altro che questo: bona terra, mala gens.
Cade. Sia appeso! Ei parla latino.
Say. Lasciatemi parlare, e fate poscia di me quel che volete. Cesare ne’ saoi Commentarii nota Kent come il paese più civile di tutta questa isola; il suolo ne è fertile e fiorente; il popolo liberale, valido, alacre, dovizioso: locchè mi fa sperare che non sarete privi di pietà. Io non vendei il Maino nè perdei la Normandia, e per ricuperarle darei la mia vita. Io ho amministrato sempre con mansuetudine la giustizia, e se le preghiere e le lagrime mi han talvolta commosso, i doni non mai lo poterono. Ho io esatta una sola taglia da voi, fuorchè nelle necessità pressanti della patria, per mantenere il re, lo Stato e voi? Io ho distribuito molte ricchezze al clero e ai dotti perchè a’ miei studii andavo debitore del mio avanzamento presso il sovrano. E vedendo che l’ignoranza è la maledizione di Dio e la scienza l’ala che ci porta in cielo, a meno che non siate invasati dallo spirito diabolico, non potrete uccidermi. Questa lingua ha parlato ai re delle nazioni straniere per bene vostro.....
Cade. Taci! Quali sono le opere tue in campo?
Say. Gli uomini di Stato, assisi nel loro gabinetto, giungono colle mani alle estremità del mondo. Ho spesso atterrato coloro che mai non vidi, e più non si sono rialzati.
Gio. Oh ignominioso codardo! Uccidere stando in salvo!
Say. Queste guancie divennero pallide, vegliando pel vostro riposo.
Cade. Dategli un colpo sulle orecchie, e torneranno rosse.
Say. Le lunghe e penose vigilie per determinare le cause dei poveri mi hanno reso debole e infermo.
Cade. Noi ti risaneremo; la tua cura è posta nella lama di una scimitarra.
Dick. Che! Tremi tu?
Say. La paralisi e non la paura mi fa tremare.
Cade. Mirate! ei ne fa cenno col capo, quasi dicesse: mi vendicherò di voi. Vo’ vedere se più fermo starà sopra un palo di ferro. Guidatelo altrove, e troncategli la testa.
Say. Se uno solo v’ha a cui io abbia fatto ingiuria, ch’ei si avanzi e mi accusi. Ho io ostentato opulenza e fasto? Rispondete. I miei scrigni son pieni forse d’un oro rapito colle vessazioni? Lo splendore della mia casa attira gli sguardi? Chi di voi ho oltraggiato, perchè chiediate la mia morte? Queste mani son pure di sangue innocente: questo seno è mondo di fraudi. Oh, lasciatemi vivere!
Cade. A queste parole mi sento penetrar da un sentimento che somiglia alla pietà: ma vo’ soffocarlo: ei morrà, non fosse per altro che per essersi così ben difeso. Animo, toglietelo di qui. V’è un demone familiare alla sua lingua; ei non parla in nome di Dio. Trascinatelo, dico, fategli saltar la testa sull’istante. Poscia andate ad atterrarle porte nella casa di suo genero Giacomo Cromer; mozzate a lui pure il capo, e recatemeli qui entrambi sopra due pali.
Il popolo. Sarà fatto.
Say. Ah! compatrioti, se quando innalzate le vostre preghiere, Dio fosse così duro come voi siete, che avverrebbe delle vostre anime nell’ora della morte? Lasciatevi piegare, salvatemi la vita.
Cade. Conducetelo via, e sia fatto quel ch’io comando (escono alcuni con Say). Il più fiero pari del regno non porterà più la testa sopra le spalle, a meno che non mi paghi un tributo: nessuna fanciulla si mariterà se prima non faccia parte a me de’ suoi favori: gli uomini dipenderanno dal mio cenno in capite; e noi vogliamo che le donne ancora siano libere, come il cuore può desiderarlo o la lingua esprimerlo.
Dick. Milord, quando andremo a Cheapside per farvi bottino colle nostre labarde?
Cade. Quando? Immantinente.
Il popolo. Oh a meraviglia! (rientrano alcuni dei ribelli colle teste di Say e di suo genero)
Cade. Che dite di ciò? Non fu questa una bell’opera? Fate che si bacino l’una coll’altra, poichè tanto si amarono in vita. Ora dividetele per tema che non facciano insieme consulta onde cedere qualche altra provincia alla Francia. Soldati, differiamo fino a notte il sacco della città: queste due teste saran le nostre bandiere e il nostro segnale di raccozzamento. Andiamo. (escono)
SCENA VIII.
Southwark.
Allarme. Entra Cade seguìto dalla folla.
Cade. Percorrete il fiume dal lato di San Magno: trafiggete e annegate quanti visi fanno incontro (squilla a parlamento: quindi si ode una ritirata). Che ascolto? Chi è tanto ardito per far suonare a raccolta o proporre una tregua, allorchè io comando la carnificina?
(entrano Buckingham, e il vecchio Clifford coll’esercito)
Buck. Noi stessi che ti disprezziamo e ti vogliamo combattere. Sappi, Cade, che veniamo come ambasciatori del re alle comuni che hai fatto traviare, onde annunziare un perdono assoluto a tutti quelli che acconsentiranno a separarsi tosto da te, a ritornare in pace alle loro case.
Cliff. Che ne dite, compatrioti? Volete sottomettervi e accettare la grazia finchè vi è offerta, o lasciare che un furibondo vi guidi a morte? Chiunque ama il re e apprezza il suo perdono, getti in aria il berretto e dica: Dio salvi Sua Maestà. Chiunque lo odia e non onora il di lui padre Enrico V, che fece tremare la Francia, scuota le sue armi, e ci venga contro.
Il popolo. Dio salvi il re! Dio salvi il re!
Cade. Oh! Buckingham e Clifford, siete voi così prodi? E voi, vili paesani, potete loro credere? Desiderate di essere appesi col brevetto del vostro perdono al collo? La mia spada fe’ dunque cadere le porte di Londra perchè voi mi abbandonaste in Southwark? Credevo che non avreste mai deposte quest’armi, finchè ricuperato non aveste la vostra antica libertà: ma voi siete codardi che vi piacete di vivere schiavi dei nobili. Lasciate dunque che vi opprimano con mille pesi, che saccheggino le vostre abitazioni, che rubino le vostre mogli e le vostre figlie innanzi ai vostri occhi: per me saprò provvedere alla mia sorte; e la maledizione del Cielo cada sopra di voi!
Il popolo. Seguiremo Cade, seguiremo Cade!
Cliff. È egli il figlio di Enrico V perchè lo seguiate? Vuol egli condurvi nel cuore della Francia per fare del più infimo di voi un conte o un duca? Oimè! ei non ha nè casa nè asilo in cui riparare; nè ha altri mezzi di sussistenza che la rapina. Non sarebbe dunque un’onta, se intanto che voi vi agitate qui nella discordia, il timido Francese, che avete tante volte vinto, arrischiasse un’incursione sui mari, e vi vincesse a volta sua? Sembrami già di vederlo svegliato dalle nostre discordie incedere da sovrano per le vie di Londra, gridando: villani, deponete le armi. Ah! prima che un Inglese s’abbassi a chieder grazia ad un Francese perisca mille volte un vil Cade, e diecimila simili a lui! In Francia, in Francia! e riconquistate quello che avete perduto: salvate l’Inghilterra che vi è madre. Enrico ha un bel tesoro, voi possedete coraggio; Dio è dal nostro lato; non dubitate della vittoria.
Il popolo. Clifford! Clifford! Noi seguiremo il re e Clifford.
Cade. Fu mai penna più leggiera e più mobile della moltitudine? Il nome di Enrico V le ispira mille misfatti, e l’induce ad abbandonarmi. Li veggo piegare i capi l’uno contro l’altro combinando i mezzi per sorprendermi: ma la mia spada m’aprirà la via, poichè non vi è più sicurezza a restar qui. — In onta dei diavoli e dell’inferno, apritemi il passo. Il Cielo e l’onore mi sono testimonii che non è in me mancanza di coraggio, ma soltanto il vile tradimento de’ miei seguaci che mi fa fuggire. (fugge)
Buck. È egli fuggito? Ite, inseguitelo; e quegli che ne porta il capo al re, avrà mille corone di ricompensa. (escono alcuni) Venite meco, soldati: troveremo modo di riconciliarvi col vostro sovrano. (escono)
SCENA IX.
Castello di Kenilworth.
Entrano il re Enrico, la regina Margherita, e Sommerset sul terrazzo del castello.
Enr. Fu mai alcun re che, possedendo un trono in terra, fosse più infelice di me? Appena escito di culla io venni incoronato, e non mai suddito desiderò tanto di esser re, com’io desidero di rinunciare alla corona. (entrano Buckingham e Clifford)
Buck. Salute e gioia a Vostra Maestà!
Enr. Oh Buckingham! il traditor Cade è forse preso? s’è egli solo ritirato per divenir più forte? (entrano al disotto un gran numero di seguaci di Cade con corde al collo)
Cliff. Egli è fuggito, signore, e tutti i suoi l’hanno abbandonato: vedeteli, che colle corde al collo aspettano la sentenza di Vostra Altezza, sia di vita o di morte.
Enr. Apri dunque, o Cielo, le tue porte eterne per dar luogo alle mie azioni di grazie e di lode! — Soldati, in questo giorno voi avete redente le vostre vite, e mostrato quanto amiate il vostro principe e il vostro paese. Perseverate sempre in si lodevoli sentimenti, e Enrico, sebbene sfortunato, vi assicura che non sarà mai un signor duro per voi. Così ringraziandovi; e perdonando a tutti, vi concedo di ritornare ognuno ai vostri paesi.
Il popolo. Dio salvi il re! Dio salvi il re!
(entra un Messaggiere)
Mess. Piaccia a Vostra Grazia di sapere che il duca di York è ritornato ora d’Irlanda con un esercito potente di Kerni e che procede verso di voi in superba ordinanza. Egli dichiara nondimeno che il solo oggetto del suo armamento è di allontanare da voi il duca di Sommerset che chiama traditore.
Enr. Così il mio Stato è diviso fra York e Cade, come un vascello che, sottratto ad una tempesta, è sorpreso dalla calma e investito da un pirata. Ora che Cade è fuggito e i suoi sono dispersi, ora s’avanza York per secondarlo. — Pregoti, Buckingham, vagli incontro e chiedigli il motivo di tale armamento. Digli che manderò il duca Edmondo alla Torre: ed ivi tu resterai, Sommerset, finchè il suo esercito sia licenziato.
Somm. Milord, andrò volentieri prigione o anche a morte, se questo può giovare al mio paese.
Enr. Quali che si siano le sue intenzioni, parlategli con dolcezza, perchè egli è superbo, nè può patire un linguaggio schietto.
Buck. Così farò, signore; non dubitate della mia cautela, credete che tutti questi eventi torneranno infine in vostro pro.
Enr. Vieni, regina, e la sventura ci sia maestra al buon governo; perchè fino ad ora l’Inghilterra potrebbe maledire il mio miserabile regno. (escono)
SCENA X.
Kent. — Il giardino di Iden.
Entra Cade.
Cade. Dannata ambizione! Sventura a me che posseggo una spada, e nondimeno sto per morire di fame! Cinque giorni interi son rimasto nascosto in questi boschi senza osare di uscirne, perchè tutto il paese è insorto contro la mia persona: ma ora son famelico, e quand’anche dovessi viver mille anni, non potrei restar qui più a lungo. Ho ardito valicare questo muro, sperando trovar quivi qualche radice che potesse saziarmi, ma vana fu la speranza. (entra Iden co’ suoi domestici)
Iden. Oh Signore! Chi vorrebbe vivere nel tumulto delle corti, allorchè può godere dì scene campestri e di passeggiate così amene come è questa! La poca eredità lasciatami da mio padre basta ai miei desiderii, e vale per me una monarchia. Io non cerco d’aggrandirmi colla mina altrui; nè aspiro ad accumulare ricchezze; a me basta di aver mantenuto il mio patrimonio, e di aver rimandato sempre contenti i poveri dall’uscio della mia casa.
Cade. S’avanza il signore del luogo con intenzione di arrestarmi, perchè venni qui senza il suo permesso. — Ah, scellerato, tu vorrai tradirmi e guadagnar mille corone, portando al re la mia testa: ma io ti farò mordere la polvere e trangugiar questa spada, prima che da te mi sia allontanato.
Iden. Chiunque, o uomo feroce, tu ti sia, io non ti conosco: perchè dunque ti tradirei? Non basta di essere entrato nel mio giardino per depredarlo da ladro, che vieni pure ad offendermi con tal tracotanza?
Cade. Ad offenderti? Sì, pel miglior sangue che mai fosse versato! e ad ucciderti ancora. Guardami bene: son cinque dì ch’io non mi cibo; nondimeno avanzati co’ tuoi cinque uomini, e s’io non vi lascio tutti immobili come pietre, prego Dio che non mi faccia mangiar mai più.
Iden. No, non sarà detto, finchè l’Inghilterra esisterà, che Alessandro Iden, scudiere di Kent, abbia con vantaggio di numero combattuto un uomo sfinito dalla fame. Affronta coi tuoi occhi feroci i miei; vedi se puoi farmi impallidire coi tuoi sguardi. Sebben grande e robusto, paragona le tue membra alle mie, e giudica se non sei il più debole. Il tuo pugno si perderebbe entro la mia mano; la tua gamba non è che un fuscello accanto alla mia; il mio piede basterebbe a stiacciarti, e se il mio braccio s’innalza, scavata è già la tua fossa. Lasciam le vane parole e misura la mia spada; ella sola ti dirà il resto.
Cade. Pel mio valore, tu sei il più fermo campione di cui mai udissi parlare! Oh ferro mio! se pieghi e non tagli in brani quell’immenso gigante, desidero che, disonorato, tu più ad altro non valga che a comporre il ferro d’un cavallo. (combattono e Cade è vinto) Son morto! È la fame e non un uomo che mi ha ucciso. Invia mille demoni contro di me; purchè tu mi dia solo la sussistenza di cinque giorni che ho perduta, li sfido tutti. Isterilisci, giardino; divieni una caverna mortuaria per tutti gli abitanti di questa casa, poichè qui Cade ha spirata la sua anima indomita.
Iden. Fu dunque Cade che trafissi? Quel mostro di tradimenti? Oh mia spada! vo’ consacrarti per questa nobile opera, e farti appendere sulla mia tomba, allorchè più non vivrò. Non mai questo sangue verrà deterso da te: tu lo serberai come stemma.glorioso, emblema dell’onore che il signor tuo ha conquistato.
Cade. Iden, addio; e sii superbo della tua vittoria! Di’ a Kent ch’esso ha perduto il suo miglior soldato, ed esortali tutti alla codardia; perchè io che non temei mai d’alcuno mi veggo vinto dalla fame e non dal valore. (muore)
Iden. Tu mi fai ingiuria, il Cielo me ne è testimonio. Muori, miserabile, obbrobrio di quella che ti generò. Com’io trapasso qui il tuo corpo con questa spada, così desidero che la tua anima venga trapassata in inferno. Vo’ trascinarti per le calcagna nel fango in cui avrai tomba, ed ivi tagliarti l’odiosa testa che porterò in trionfo al re, lasciando il tronco per pasto ai corvi.
(esce trascinando il corpo)
Note
- ↑ Barile in inglese si dice cade.