Saggio di canti popolari veronesi/Prefazione
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Quando accademi udire taluno, ed è troppo spesso, movere lagni dell’epoca trista in cui ci troviamo, accusando la natura che il fece nascere a giorni sì disastrosi; e questo non perchè l’animo suo generoso lo inciti per modo da trovar troppo lento il moto della civiltà milìtante, o perchè sia egli troppo fieramente conturbato dalle piaghe moltissime onde la umanità spasima ancora sotto il cumulo di sventura eredato dai secoli che furono e di fronte alli ultimi sforzi delli sciagurati che con vario intendimento e pretesto vorriano eternarne le angoscie; non per tutto questo, ma perchè le splendide battalie della civiltà costano spesso danaro, lagrime e sangue: ma perchè per esse vien rotta quella lunga sequela di spensierate dolcezze, di ozio, e di colpe onde menarono vita soporosamente beata le frolle generazioni di altri tempi; quando accademi udire lamenti siffatti, io guardo fisso nel volto quei che li move, e con aria tra stupìta ed irosa gli volgo seccamente le terga, senza pur dargli risposta, onde non abbia almanco il disagio di arrossirne fino ai capelli.
Per mio conto, quale che possa essere l’opinione di altrui, comunque certuni si sbraccino a dire che siamo in una valle di lagrime, e dato che si doveva nascere, la vita in quest’ore solenni non mi è punto discara: perilchè senza escludere sienvi stati o possano tornare tempi meliori sono riconoscente alla gran madre delli esseri di avere pensato anche a me in un momento nel quale emmi concesso di assistere ad avvenimenti di importanza suprema.
Vivere a giorni nei quali si svolgono i problemi più difficili e santi dei popoli, e nei quali ad onta della resistenza accanita che vi oppongono i nati a far piangere se ne fissano pure mano a mano le equazioni a seconda delli imprescrittibili diritti naturali; vivere a giorni siffatti parmi invero una dolcezza infinita.
Se avanti lo scoppio della fiera ed immane carneficina fraterna che desola da anni la terra ove scese primo Colombo fosse stato richiesto alla grande anima di Washington: ove ti si concedesse rivivere vorresti farlo in questi lieti momenti in cui la tua patria gode una prosperità maraviliosa ed ognora crescente, e potresti parteciparvi tu stesso, o brameresti melio tornare ai dì fortunosi della titanica lotta che le valse la indipendenza, e quando capitano, magistrato e politico, fra avversità di ogni specie, superando ostacoli reputati da tutti invincibili ne reggesti divinamente le sorti?
Se chiedessero al primo Napoleone: vuoi tu rivivere adesso in cui la Francia fusa in una miracolosa unità, inclita per isterminate divizie, temuta per indomabili eserciti à il primato morale fra le nazioni di Europa; o vorresti melio redire a quei dì nei quali ministro di arcani ed onnipossenti decreti la traesti col terribile brando a passeggiare trionfalmente pel mondo, spandendo per tutto l’aure dei tempi novi ed i germi delle idee più sublimi; a quei giorni nei quali uno sciame di ambiziosi logorava la soglia della tua reggia per mendicarvi una corona; a quei giorni nei quali il ferreo tuo volere era legge, e con illuminato dispotismo, tra il fragore di perpetue battalie, nel tripudio di innumerabili vittorie cementasti galiardamente la base della sua futura grandezza già tracciata dalli Ercoli della rivoluzione, che pur nelli eccessi e nelle colpe loro meno escusabili ci rendono per ammirazione stupiti?
Se chiedessero a Botzaris: vuoi tu rivivere nella Ellenia tua cara tolta al giogo feroce delli Osmanli, e che sebbene in la strozzata indipendenza che le fu consentita non possa sviluppare con larghezza le sue forze, è in parte libera almeno da piede straniero, e stà nucleo certissimo di più vasto regno e felice che surgerà nello Egeo quando la barbarica luna abbia finalmente compìti i funesti suoi fati1; o vorresti rivivere ai giorni delle sacre tenzoni, quando ogni greco era soldato e fûr rinnovàti eroismi onde impallidirono li antichi di Maratona, di Salamina, di Micale e delle Termopili: o tornare vorresti sui fulminàti bastioni di Missolungi a spaventarvi di nuovo colla eccelsa tua caduta i nemici?;
Se a tali e similianti generosi venisse così fatta domanda indirizzata quale credete voi ne darieno risposta?.
Io non esito punto ad indovinarla; ella saria degna di loro, e quale il tenore di questo mio scritto e la magnanimità della lor vita può e deve farla facilmente supporre.
Certo che in questi burrascosi periodi i materiali godimenti della vita sono diminuiti, le ansietà se ne accrescono, tutti ne subiscono presto o tardi alcuna conseguente molestia; e cui l’ideale della esistenza sia quello di menarla fra le inezie ed i bagordi, coll’anima sepolta in alto sonno e perenne, non vi si può trovare a grande agio. Ma per coloro ai quali nel moto è la vita, per quelli che sentono la dignità di sè stessi, che ànno coscienza di valer qualche cosa, che amano per istinto ogni bene, che provano invincibile bisogno di concorrere all’opera comune onde i nepoti lontani abbiano a benedirne la ricordanza, per tutti costoro la vita in così supremi momenti è ricolma di soavi emozioni, di impareggiabili compiacenze che ne compensano di gran lunga i malori, e la circondano invece di lietezza ineffabile.
Senza entrare nello storico litigio sul quando cessassero i secoli della barbarie, o del ferro, che comprendiamo nel nome comune di Medio-Evo, credo non ingannarmi in ritenere che l’Evo-Moderno non abbia veramente e praticamente cominciato ad esistere che il giorno in cui lo sdegno cumulato da secoli di martirio inultamente patito scoppiò come turbine nella antica Lutezia, preludendo coll’assalto e la distruzione della Bastiglia alla distruzione di ogni vetusta ingiustizia. Datano da allora l’abolizione della tortura, la impotenza della Inquisizione, lo sfascio delli ordini feudali, la uguaglianza di tutti davanti alia legge. Da allora i monarchi non si sentirono più tanto fermi sul trono senza il sostegno dell’amore dei popoli, e quindi per ottenerlo cominciarono ad abbandonare almeno l’apparenza insolente del vecchio dispotismo. È ben vero che non tutte e in ogni dove queste meliorìe si introdussero, e mi si potrebbero ancora opporre delle formidate eccezioni; ma ne fu riconosciuto almeno il principio, ed è pur questo solo trionfo grandissimo che deve dare un immancabile frutto. I popoli ànno da allora coscienza di essere e di poter qualche cosa, i principi sanno che lo sono e la possono.
Le conquiste fisiche della scienza camminarono da allora di pari passo colle conquiste morali perchè il progresso nel melio fosse più rapido; e le stupende applicazioni del vapore e dell’elettrico avrieno forse bastato da sole a rinnovare la faccia del mondo, così come sola è bastata a preparare tale rinnovazione la scoperta di Guttembergh fortunatamente scampato alle flamme dei nottoloni del pensiero che nella superba loro stoltezza non arrivarono a sùbito sospettare di qual luce mirabile doveva essere ella feconda2.
La seconda metà del secolo XVIII fu epoca di demolizione generale e completa; col principio del XIX si iniziò la ricostruzione; quando palese, quando latente; tarda talora, talora accelerata, ma continua pur sempre.
I guerrieri della rivoluzione furono preceduti da quelli del pensiero; ed ove si confrontino fra loro le tremende falangi delli Enciclopedisti e dei Convenzionali pendono incerte la mente ed il cuore a quale debbano dare in preferenza li omaggi e affetto, poichè erano entrambe temprate ad una incudine di così poderoso ardimento e di così ferrea costanza da non poterne supporre una maggiore, e sbigottirne pur anco la fantasia. Li uni per abbattere ogni odiato privilegio cominciarono dall’infimo aristocratico e salirono fino a Dio livellandoli tutti con inesorata baldanza: li altri, per applicare in quanto potevano il pensiero dei primi, con altrettanta baldanza atterrarono tutto che contrastava loro il cammino, mitragliando i fanatizzàti villani della Vandea colla indifferenza medesima con cui fecero rotolare nel paniere del boja la testa coronata del rampollo di Ugo Capeto. Così che senza volerne punto scusare i trasmodamenti eccessivi dobbiamo riconoscerli per molto a noi superiori, dobbiamo confessar con rispetto la gigantesca anima loro, quale averla dovevano per condurre l’opera colossale di cui furono autori, e quale non manca mai la natura di elargirla alle generazioni cui commette lo inizio del rinnovamento dei popoli.
Dato una volta lo impulso ed apparecchiata la strada che si doveva percorrere l’opera divenne infinitamente più facile. I legionarii del pensiero procedettero di conserva con quelli dell’azione, le battalie loro furono alternate, i successi e le cadute comuni. Questo è lo spettacolo che presenta il secolo nostro, il quale raccolie in massima parte il frutto delle fatiche durate dai demolitori del XVIII, con troppa leggerezza troppo severamente giudicàti finora dopo averli miràti soltanto alla luce adulterata di una lente che avversarii loro poco leali si studiano porci fin dalla prima puerizia sulli occhi3.
Il mondo si rinnova ed il soffio della civiltà spazza via come arena ogni vestigio del passato; ma se giova che tale trasformazione cómpiasi per assoluto e presto, giova pur anco serbare di quel passato, qualch’egli fosse, una memoria gelosa che valga di ammaestramento per i tempi futuri, e possa farci esattamente conoscere la genesi del presente onde regolarne con fortunato successo le sorti. Questo bisogno venne subito e prepotentemente sentito dalli illustri pensatori moderni, e di qui la storia da pomposa apologia di pochi e soli individui mutossi in narrazione diligente, ragionata e diffusa delle geste dei popoli che tanto a ciascuno di loro sovrastano per grande che egli sia quanto il tutto è sempre maggior della parte; di qui li studii faticosi e profondi sopra ciò che dai popoli emana, affine di indagarne le origini, scoprirne le parentele, stabilirne le vicende, i costumi, la intelligenza, il carattere, presagirne li eventi, e dietro la secura ed intera loro conoscenza avviarli con ottimi ordinamenti a un avvenire di gloria e di felicità.
«Lo studio proprio dell’uomo è l’uomo» disse Alessandro Pope4; ma tale studio praticato dai fisiologi e dalli anatomici sulla esteriore parvenza o sulla interna organazione dell’individuo, non può certo dal filosofo condursi che sopra le manifestazioni di lui; manifestazioni affidate quando ai monumenti, quando, e più spesso, alle leggi, alle tradizioni, alle usanze, ai pregiudizii, ai racconti, ai proverbj ed ai canti che trasmessi di generazione in generazione si conservano per ordine d’anni lunghissimo, e comunque subiscano modificazioni continue nelli accidenti restano sempre eguali nella essenza, così da permettere allo scrutatore sagace di indovinarne senza errore la origine prima.
Egli è per questo che nelli ultimi tempi sursero dappertutto cercatori accurati di ogni cosa al popolo spettante, e che di quanta riuscirono a scoprire diedero in luce raccolte con eruditi commenti illustrate. Cercatori che sprezzando il ghigno beffardo dei malevoli o delli ignoranti i quali all’opera loro come a dannabile inezia scherniscono, giovarono invece e grandemente coloro che sanno come non si possano saviamente governare le genti sotto un aspetto qualunque senza conoscerne con precisione l’intima natura: come tale natura si riveli decisa in ogni grande o minimo loro atto, così che all’acuto filosofo può tanto bastare il vederle folgorar fieramente sopra un campo di guerra il nemico, quanto sudare tranquille nello interno delle officine: tanto ascoltarle nel più inspirato dei loro colti poeti o nel più sottile dei logici, quanto nella cantilena dell’infimo proletario o nella fiaba della feminuccia ignorante; a coloro infine che sanno come il popolo sia veramente il grande ed inesauribile serbatojo di ogni forza e virtù; serbatojo onde emergono prima le stirpi che poi si vantano illustri, e che, dove non si spengano, deggiono in esso nuovamente confondersi a ritemprarvi l’anima sfibrata dall’orgolio e dalla mollezza.
Tra le manifestazioni molteplici della vita e dello spirito popolare quella che forse più delle altre attirò di recente l’attenzione delli eruditi fu la poesia che in ogni nazione non solo, ma in ogni provincia e nelle singole parti della medesima à speciali caratteri onde è distinta da quella delle altre parti, o delle altre provincie, o della nazione, così come questa ne à tali che la differenziano affatto da quella dei popoli diversi od affini.
La predilezione allo studio della poesia popolare è d’altronde ben naturale se si rifletta che il primo linguaggio di ogni popolo fu il canto; che nella infanzia delle genti la poesia venne adoperata a dettare e le leggi e la storia, e quanto di più sacro venera l’uomo: così che poeti erano i Nabì o profeti che nella Biblia oltre che un’opera di morale squisita lasciarono un documento prezioso di Storia primitiva, e poeti furono li Scaldi ed i Bardi che in istile immaginoso e possente vergarono le antichissime storie del Settentrione e dei Celti; che in fine il popolo serba tenacemente colla sola memoria i propri annali melio che se fossero sculti in tavole di bronzo, e che abbiamo quindi certezza di rinvenire con attenta disamina nei semplici ed inspirati suoi canti un tesoro di rivelazioni e di documenti irreperibili altrove. Di più ci ammaestra una quotidiana esperienza come il popolo affidi tuttora alle canzoni ogni simpatia ed ogni odio che l’agita, e con perpetua elaborazione commetta alle stesse di eternare li avvenimenti che l’ànno più gagliardamente ricreato o percosso.
Non è quindi futile curiosità quella che spinge tanti uomini dotti a radunar questi canti e farli oggetto di attenzioni infinite; e se l’ansia loro in tal’opera potrebbe dirsi quasi febbrile n’anno ben d’onde, avvegnachè l’impulso straordinario dato alla civiltà dai prodigiosi progressi delli ultimi tempi, e le accelerate comunicazioni, e la diffusa cultura la rendono ogni giorno più ardua. Gian Giacomo Rousseau diceva che «tutte le capitali si somiliano, tutti i popoli vi si mischiano, tutti i costumi vi si confondono; e non è punto là che bisogna ire ad istudiar le nazioni. Parigi e Londra (continuava egli) non sono ai miei occhi che la stessa città...... Gli è nelle provincie lontane, dove esiste manco movimento e commercio, dove li stranieri viaggiano meno, i cui abitanti ne escono più di rado, e men di sovente cambiano di fortuna e di stato che bisogna recarsi ad istudiare il genio ed i costumi d’una Nazione.»5 Quanto egli giustamente osservava circa un secolo fà delle capitali sarà presto per le accennate ragioni applicable ad ogni paese, poichè penetrando rapidamente per tutto il moto della civiltà scompariranno pure per tutto le marche caratteristiche che ne differenziavano le parti; colla adozione dei novi costumi i varii popoli assumeranno una uguale fisonomia, così che se avremo sempre poesia popolare, la quale è germolio perenne quanto il cuore dell’uomo, andrà certo perduta o confusa quella antichissima che ricorda li eventi e le origini primitive, e sarà allora impossibile scernere dove la novella fosse veramente creata.
Certo che a tal punto non giungeremo d’un tratto, ma vi arriveremo sicuro in un avvenire non troppo lontano, anzi brevissimo, dove lo si ragguagli alla vita dei popoli che dura milliaja di secoli e non all’apparire fugace delli individui.
La popolare poesia di cui parlo è diversa dalla poesia nazionale quantunque talora abbiano tra loro dei contatti strettissimi ed anzi giungano quasi ad immedesimarsi una coll’altra ed essere tutta una cosa. La prima è il linguaggio primitivo delle nazioni, creato spontaneamente dal cuore, uscito da labbra e menti non culte, senza studio od artifizio di sorta; l’altra è opera invece di erudito intelletto il quale compendia in una sintesi poderosa le memorie, le aspirazioni e li affetti dei suoi tempi e della sua terra; la prima è generale rapporto alla umanità complessiva, ma speciale rapporto al paese ed al popolo onde à vita, perchè informata alle memorie, ai sentimenti, ai bisogni della breve cerchia ove nasce; l’altra è speciale di fronte al genere umano, ma generale riguardo al loco ove surge, perchè non si limita alle memorie, ai sentimenti, ai bisogni di una sola provincia o di una parte di essa, ma si studia esprimere quelli di tutto un aggregato naturale di provincie, quelli cioè di una intera nazione. La poesia nazionale può talora e di spesso diventar anche popolare, ma è ben più difficile che la popolare diventi nazionale, ove non rifletta un sentimento che accidentalmente coincida con quello di tutta la nazione.
Non è poi da confrontare la poesia popolare con quella delle scuole e delle accademie che tanto spesso colla grettezza delle norme, coll’abuso delle retoriche figure o colla ostentazione pesante di una facile sapienza fiacca la fantasia ed inaridisce il cuore riuscendo allo scopo contrario di quello cui tende; mentre la prima ricca di ingenue grazie e di vita le sovrasta sempre di tanto quanto la maraviliosa natura vince in bellezza l’opera più perfetta dell’arte, sia pure uscita dalle mani del Buonarroti o del Sanzio, di Cellini o Canova6.
La poesia popolare (scrive Cesare Cantù) «ha il merito di giungere per istinto là dove a stento possono gli eruditi con lo studio, vo’ dire a quello profonda conoscenza delle varie stirpi, cui la filosofia e la storia si affatticano ad esplorare; onde il leggerli, per valermi d’una espressione di Görres è veramente toccar il polso della nazione nella sua infanzia e bere la poesia alla sua sorgente. I canti popolari, dice Herder, sono gli archivi del popolo, il tesoro della sua scienza, della sua religione, della teogonia e cosmogonia sua, della vita dei suoi padri, de’ fasti della sua storia; l’espressione del suo cuore, l’imagine del suo interno, nella gioja e nel pianto, presso il letto della sposa e accanto il sepolcro7.
Lo studio della poesia popolare non è del resto tanto nuovo quanto alcuno potrebbe essere forse tentato di credere dal fervore che se ne destò solamente nelli ultimi tempi. Infatti Erodoto, Diodoro e Plutarco citano spesso versi di poeti o rapsodi popolari a testimoni di opinioni e di costumi, mentre ad essi erasi pure inspirato quell’Omero che ripetendo con insuperabile forma le tradizioni volgari della sua patria resta e resterà sempre per tutti modello insigne di sublime poesia. Ai canti popolari attinse Paolo Diacono i racconti che intitola Storia primitiva dei Longobardi, ed altrettanto fecero li scrittori suoi contemporanei, o di non molto posteriori; Michele di Montaigne parlò della poesia popolare con una caldezza di affetto che farebbelo credere nostro coetaneo, egli infatti asserì che: «la poesia popolare e semplicemente naturale à delle ingenuità e delle grazie, per le quali ella si uguaglia alla principale bellezza della poesia secondo l’arte perfetta»8. Voltaire lasciò scritto di avere tradotti molti brani di poesie popolari per giovarsene nel suo Saggio sui costumi, ma che poi li vennero rapiti. A tutti è ben noto che Gualtiero Scott raccolse numerose ballate dalla bocca dei montanari scozzesi. E quella stessa anima antica di Giacomo Leopardi, educato fra i Greci e fra i Latini colla splendida e pura veste dei quali seppe incarnare in modo maravilioso idee e sentimenti moderni ed italiani, quello stesso Leopardi fino dal 1818 annotò le popolari canzoni che vennegli fatto di udire nel suo natal Recanati9. Determinare come tai canti si formino è la cosa più ardua del mondo, sfuggita sinora a qualunque insistente ricerca. Un bel giorno in mezzo ad una piazza cittadina, o nel fondo oscuro di un chiasso, o nell’aperto dei campi si alza una canzone mai fino allora ascoltata. Chi ne à composto i versi? Chi la musica? Nessuno lo sà, e quasi sempre nessuno tenta saperlo. Musico e Poeta, che sono spesso una sola persona, rinunziano volontieri alla compiacenza di essere conosciuti per tali, il popolo non vuole offenderne la modestia e li corona col serto più lusinghiero che possa, allegrando con le creazioni loro gentili i sudàti lavori e li onoràti riposi. In pochi giorni il nuovo canto si espande, viene ripetuto in ogni dove e da tutti, passa inteso e non visto monti, flumi e confini ridendosi dei gabbellotti che nol posson graffiare, e compie una vera marcia trionfale che dura più o meno secondo che presto o tardi surga un’altra canzone a detronizzarlo; e quando questa trionfa egli cede sùbito il posto ed entra nella eletta dei canti che formano il patrimonio comune, ed i quali sebbene non abbiano il fanatico omaggio della novità vengono sempre custoditi con amore, tramandàti con precisione, ripetuti con suprema dolcezza.
A questo proposito Cesare Cantù nella sua Storia Universale racconta come egli circa il 1840 trovassesi a Napoli quando uscì la prima volta la celebre canzonetta = Io ti voglio bene assai = che in breve ora fece il giro d’ Italia. Egli assistette al fenomeno della fresca creazione popolare e potè esaminarlo da vicino con interesse bensì ma senza riuscire a frangerne il velo. Tutti erano ansiosi di conoscere e chiedevano il nome dell’autore di quel canto che era delizia ugualmente del lazzarone di Santa Lucia e della gran dama di via Toledo, ma nessuno fu capace di scoprirlo: ed al teatro di San Carlino venne rappresentata allora una commedia l’intreccio della quale aggiravasi appunto sulla ricerca dell’incognito famoso.
Siccome i costumi, i linguaggi e le idee subiscono una trasformazione continua; trasformazione alla quale nulla può sfuggire nell’ordine fisico e nel morale, così anche i canti popolari vengono sensibilmente modificàti dalle succedentisi generazioni le quali non solo ne creano di nuovi, ma anche li antichi addattano ad una forma al gusto loro più consentanea rispettandone però sempre la essenza, specialmente nelle tradizioni che «per quanto sembrino insulse o viziate, o derivano da qualche fatto od hanno radice in qualche verità profonda, talchè non può trascurarle chi nella Storia non studia l’aneddoto ma l’uomo»10 Questa lenta ma assidua modificazione venne stupendamente lineata da Giovanni Berchet come segue: «La poesia popolare, e per tale intendo quella che è direttamente prodotta e non soltanto gradita dal popolo — non mette fuora opere materialmente immobili come la poesia d’arte; non le raccomanda, come questa, alla scrittura; ma le affida al canto transitorio, alla parola fugace: cammina, cammina libera e viva e ad ogni passo che fa lascio un vezzo o ne piglia uno nuovo, senza per questo cessare d’essere quello ch’ell’era, senza mutare la sembianza che dapprincipio ella assumeva. Sorge uno e trova una canzone; cento l’ascoltano e la ridicono. Le cantilene udite dai suoi parenti, la madre le ricanta ai suoi figliuoli, questi le insegnano ai nipoti. Quando viene l’uomo letterato e se le fa ripetere e le ferma in caratteri scritti, chi può dire per quante bocche sieno già passate quelle cantilene? La canzone è la stessa, quella trovata da quell’uomo primo sparito nella folla; ma qualche particolare di essa o è perduto, o è alterato, o variato, non foss’altro per necessità della labile memoria umana, oppure delle nuove esigenze della lingua parlata. Quindi è che dagli accidenti estrinseci del testo scritto non si può con assoluta certezza conchiudere l’eta d’una romanza. Al raccoglitore ne è toccata l’ultima compilazione; ma se molte o poche altre compilazioni più o meno variate ne l’abbiamo preceduta, chi ’l sa?11.
I progressi veloci della civiltà saranno in Italia più che altrove fecondi di bene, e condurrannola presto a quella unità di linguaggio che fu ed è generale desiderio, ma cui non saremmo forse arrivati giammai senza loro. Fu detto benissimo che una nazione è una lingua12, e questa lingua la avremo in un futuro non molto remoto per opera del popolo il quale troncando senz’altro la vecchia ed insoluta questione di primazia tra i dialetti molteplici, colle grazie di ognuno innestate al bellissimo della toscana che per ricchezza di voci soddisfa indubbiamente tutti i bisogni della età nostra darà vita ad una lingua comune parlata, come i letterati, pure adottando il dolce eloquio dell’Arno, colla scelta delle voci e dei modi, col giro del periodo, coll’andamento e col colore della dicitura diedero vita ad una lingua scritta comune «che si distingue dalla specialità toscana come il generate dal particolare, e concorre con essa a formare il perfetto scrivere.13. Sarà termine allora all’accapigliarsi ostinato per sostenere o la universalità dalla nazionale favella che in ciascuna città, appare, in niuna riposa14, od il bisogno di una lingua nobile, aulica, cardinale, cortigiana, e spariranno i due famosi partiti illustràti, uno, detto italiano, dal grande padre Alighieri, dal Trissino, dal Calmeta, dal Castiglione, dal Muzio, dal Monti, e dal Perticari: l’altro, che fiorentino si appella, dal Buommattei, dal Tolommei, dal Bembo, dal Dolce, dal Varchi, dal Lenzoni e dal Salviati, per tacer dei recenti. In onta al garrire sdegnoso dei grammatici e dei retori il popolo salverà dall’oblio i vezzi più cari dei suoi varii idiomi facendoli entrare nella lingua parlata comune, riescirà senza fallo in quanto fu con dubbio successo finora azzardato da parecchi scrittori fra i quali Alessandro Manzoni che tentò legittimare alcuni idiotismi del lombardo dialetto. Sarà finalmente allora soluto il problema quale sia l’ottimo stile italiano, e d’onde risulti essenzialmente la bellezza della nostra lingua; problema che Vincenzo Gioberti enunciava così: «Trovare una forma di scrivere, che, senza scostarsi dall’aureo secolo, risponda ai bisogni del nostro, e sia atta ad esprimere il pensare ed il sentire moderno in modo conforme al genio primitivo ed immutabile del nostro idioma15.» Ma se ne verranno salvàti i pregi più cari, pure l’insieme dei dialetti sparirà poco a poco in intero, e col loro disparire si cancelleranno puranco le originalità più spiccate delle nostre provincie, onde urge stabilirne in modo imperituro la ricordanza per valersene alli scopi accennàti. Nè sogni taluno di opporsi a quello che sarà l’andamento naturale ed invincibile della civiltà, ovvero si perda a ripiangere il tramonto delle provinciali nostre fisonomie che se possono illeggiadrire in qualche modo l’aspetto esteriore, furono e stanno insieme cagione di gravissirui danni.
L’Italia in cui fu notata una scarsezza grande di canti popolari nazionali (che abbondano sopra ogni altro paese di Europa in Ispagna ricordando le sue geste gloriose, e specialmente quelle compiute durante la lotta coi Mori) è ricchissima invece di canti d’ogni altro genere, e sopra tutto di canti d’amore, prestandovisi maraviliosamente la sua lingua che il Courier asseverava la più bella fra le lingue vive16, e della quale lo Svedese Isaia Tegnier era innamorato cotanto da dire che ogni parola di essa è un sonetto.
Publio Virgilio Marone cantò nella Bucolica.
Illinc alta sub rupe canet frondator ad auras17.
E già da remotissimi tempi ogni officina, ogni strada, ogni campagna d’Italia suonano perpetuamente di canti che esilarano lo spirito e crescono il fascino della sua stupenda natura. Di essi canti varie sono le appellazioni e le forme a norma delle differenti provincie, ma nel fondo di tutti si ravvisa quella consonanza medesima che pure in onta alla disparatissima loro fisonomia esiste anche nel fondo dei suoi molti dialetti, i quali tutti conservano un elemento comune di lingua uguale a quella che si parla in Toscana, elemento dal quale parmi abbia appoggio grandissimo l’opinione che la lingua Italiana non sia nata dalla corruzione del latino violentemente sposato alli idiomi boreali come vorrebbero Giambullari nel Gello, Mazzoldi nelle Origini Italiche e Gioberti nel Trattato del Buono e del Bello, ma invece sia come e forse più della latina vetusta, e fosse adoperata contemporaneamente alla medesima dalle plebi nei domestici conversari, a quella guisa che noi adoperiamo i dialetti, come già sostennero Celso Cittadini, il Gravina, il Quadrio, l’Alciato, il Filelfo, il Poggio, il Menaggio, il Maffei ed altri.
Abbiamo in Sicilia le tenzoni, in Corsica la pachiella ed i ninna-nanna che corrispondono ai nannarisma delli Elleni ed alle cullabie del Settentrione, a Napoli i canti funebri detti lamenti o triboli che in Sardegna ed in Corsica denominavansi attidos ma scomparvero perchè degeneràti in lamenti prezzolàti come quelli delle Romane prefiche. Abbiamo nell’Italia di mezzo ed altrove i Rispetti, li strambotti, i saluti, i maggi, i ramanzetti, le rifiorite, i fiori, le villotte, le villanelle, le mattinate, le albe, le lettere, i sospiri d’amore, le serenate, le canzonette, le storie, la folletta, e le laudi spirituali, oltre le furlane nel Friuli, e le barcarole a Venezia: nulla contando i canti carnescialeschi che sono semplici imitazioni, e furono messi in voga da Lorenzo de’ Medeci per melio strangolare nell’obblio di laidi bagordi la libertà fiorentina.
Moltissimi furono i raccolitori dei canti popolari in Europa durante questa prima parte del secolo, ma per non ire troppo in lungo accennarò i principali soltanto tra quelli che si occuparono dei canti d’ltalia. Essi sono Guglielmo Müller ed O. L. B. Wolff = Egeria raccolta di poesie italiane = P. E. Visconti = Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e Campagna; Atanagio Basetti pej canti delli Apennini; Alfredo Reumont = Italia = Köpisch = Agrumi =; C. Blessig = Römische Ritornelle = Silvio Giannini, Giuseppe Tigri, il Padre Pendola, Stanislao Bianciardi, la Tipografia Cino e Tommaseo Nicolò pei Toscani; Oreste Marcoaldi = Canti popolari inediti, umbri, liguri e piceni, piemontesi, latini =; Crispi Giuseppe Vescovo di Lampsaco pei canti greco-albanesi delle colonie di quei popoli stabilite in Sicilia; Angelo Dal Medico pei veneziani; Andrea Alverà e Cristoforo Pasqualigo pei vicentini; oltre al Nicolini, al Marenco, al Vigo, al Pieri, al Thouar, al Carrer, al Pompili, al Sebastiani, al Nigra, a Cesare Cantù, al Pernacchi ed altri molti che se ne occuparono seriamente, con isquisito buon gusto e con rara profondità di giudizii.
Per sentenza di giudici competenti se un dialetto di Italia diverso dalla lingua che si parla in Toscana potesse diventare la lingua comune questi non potrebbe essere che il Siciliano già lodato da Dante medesimo nel suo libro de vulgari eloquio: o melio il veneto, superiore a tutti in bellezza, che venne adoperato nei publici affari e nei parlamenti, ed il quale ci dotò delle sole commedie nostrali che possano gareggiar con fortuna con quelle di Terenzio e del Macchiavelli18. Il dialetto veneto distinguesi in veneziano propriamente detto, che si parla a Venezia e nelle lagune; in continentale usato nella terraferma sino al Mincio; in marittimo adoperato nelle città dell’Istria, in Dalmazia, sul litorale ungherese, nelle Isole Jonie ed in parecchie altre isole dell’Arcipelago greco; in friulano del Friuli, affine alia lingua romancia, e misto di voci francesi e slave; in tirolese delle alte valli di Evaes, di Livinalongo e Buchenstein, di Enneberg, e di Badia, che si scosta moltissimo da quello parlato nella restante provincia che è attualmente compresa sotto il nome di Tirolo, ed istimasi il più corrotto fra i dialetti d’Italia. Finalmente comprendesi in esso anche quello detto dei Sette Comuni, quantunque di origine affatto straniera e non ancora determinata.19.
Pregi salienti del dialetto veneto sono la vivacità ed una mollezza straordinaria di pronuncia che se è forse troppo leziosa a Venezia, riesce gradevolissima a Treviso ed a Padova20. Del resto ogni provincia delle Venezie lo modifica sensibilmente, e fra tutte Verona che se ne stacca più di ogni altra nelle parti caratteristiche, avvicinandosi grandemente alla pretta lingua italiana così nella forma come nella pronuncia delle parole.
Il di lei parlare è quindi molto diverso da quello che Dante un giorno accusava insieme al veneziano di essere talmente di vocaboli ed accenti irsuto ed ispido, che per la sua rozza asperità non solamente disconza una donna che parli ma ancora fa dubitare, s’ella è uomo.21.
Talvolta in esso le parole, comunque suonino italianamente, ànno significato diverso da quello che loro attribuisce la lingua scritta comune; molte di loro derivano dal latino e dal greco; parecchie ma non tante sono corruzioni francesi, pochissime e quasi nessuna di origine tedesca sebbene la provincia sieda al piè della Rezìa e siasi tanto spesso trovata a contatto coi popoli del norde. Il dialetto Veronese non adopera il xe del veneto, ed i più frequenti scambi di suono delle lettere sono in esso quello dell’e in a ed in i, del t in d, del c in z, della z in s, del g in j e viceversa: quasi di ogni parola à la desinenza tronca e la piana che adopera promiscuamente, ma più spesso la piana, mentre sovente impiega la sincope quando sarebbe permessa anche dalla lingua scritta comune; ommette finalmente l’accenno di ogni lettera doppia. Il dialetto del contado, specialmente montano, varia un poco da quello della città così nella qualità e significato delle voci, come nel modo di pronunziarle, serbando meno corrotto il carattere primitivo22. La similianza grandissima che il dialetto Veronese à colla lingua scritta comune, ed il difetto quindi di una impronta decisa furono cagione che la sua letteratura sia povera affatto, e che tutti coloro che si provarono usarlo scrivendo caddero qual più qual meno nell’errore di adoperare voci che il vero popolo non adopera, e sopratutto di costruire i periodi alla foggia della lingua scritta, onde nessuno attinse qualche fama, e può avere speranza di tramandare celebrato il suo nome, come fecero il Meli, il Grossi, il Porta, il Nalin e tanti altri coi differenti dialetti d’Italia.
Ma se manca a Verona una letteratura del dialetto, locchè in vero non è grave danno, abbiamo una poesia popolare ricchissima, allegra, spigliata, elegante, che può spesse volte star a paro della Toscana, poichè ben di frequente bastarebbe cambiare soltanto qualche desinenza per credere che una delle nostre canzoni sia nata sulle rive dell’Arno o fra le delizie delli Appennini.
Le cantilene sposate a tali canzoni sono poche, ed a ciascuna di esse vengono applicate differenti parole secondo il bisogno dell’anima che le modula: ma riescono soavissime tutte, e come il popolo veronese è distinto per buona disposizione musicale, e per frequenza di bellissimi timbri di voce si odono spesso melodie che fermano il passo ed innondano lo spirito di cara dolcezza. Il popolo di città canta pure frammenti della musica illustre dei melodrammi, e le avìte canzoni adopera specialmente nel carnovale, o nelle lunghe sere d’inverno quando alla battuta di un cembalino intreccia le vivaci sue danze. Ma nelle campagne le canzonette nostrane suonano di continuo ad allietare quando la potagione o la sfrondatura, quando il mietere faticoso o la gioconda vendemmia.
A Verona, come nel resto d’Italia, i canti di amore sono i più numerosi; tuttalvolta ve ne ànno anche di altri argomenti, e mentre i primi vengono detti comunemente villotte e sono di quattro versi endecasillabi, o mattinate che sono di sei, di otto ed anche più, colli ultimi due che spesso ripetono il pensiero delli due precedenti a similianza dei rispetti toscani, li altri si chiamano canzonette, e sono quasi sempre composte di settenarî od ottonarî rimàti, a strofe di quattro versi, oppure storie, di endecasillabi, decasillabi o settenarî rimàti a due col solo tronco, od a terzetto con un piano libero e due tronchi rimàti; queste ultime sono sempre narrative, e vestono la forma ed il carattere delle ballate tedesche e delle romanze spagnole; alcuno però mi assicura di avere in addietro assistito a qualche gara poetica fra due villici che in mezzo ad una folta di gente si indirizzavano versi a senso strambalato, e che essi pure chiamavano strambotti. Ciò corrisponderebbe alle tenzoni tanto frequenti in Sicilia, per altro a me non fu dato avvertire finora tal fatto. Le villotte sono adoperate a marcare col cembalino i passi e le cadenze della manfrina (monferrina) che i contadini ballano con qualche leggiadrìa, e con precisione mirabile. Nei nostri canti popolari si trovano spesso come altrove oltre le rime di identità anche quelle di similianza, per una legge ritmica che la natura à posto nelli orecchi delle moltitudini ed è ben differente dall’altra fissata nelle scuole; per cui nel presente saggio troverannosi per esempio rimati al N. 4 fontana e mama, al N. 5 renso e drento, al N. 14 pianze e sangue, al 18 bando e manco, al 61 seda e veronesa, al 69 ale ed andare, al 72 matinada e slaga, al 77 inzima e Rosina, e via discorrendo. Talora si incontrano dei versi che eccedono la quantita delle sillabe voluta dal metro, come ai numeri 86, 93, 96, 97 e 99, o che ne sono mancanti, ma chi li canta sà così bene elidere o meno le vocali, e battere con destrezza li accenti che alla semplice recita non è possibile accorgersene. Canti politici, che riflettano cioè le vicende publiche del paese ne abbiamo quasi nulla, solamente osservai che li avvenimenti del 1848 lasciarono delle traccie anche nelle canzoni popolari. Abbiamo infine qualche canzone religiosa o laude spirituale che se non è foggiata su quelle di Jacopone da Todi o di Gerolamo Savonarola, serba però nel suo intero andamento lo spirito di una fede religiosa assai viva. Ad ultimo, canti licenziosi e triviali non ne abbiamo nessuno, e se talvolta alcuno di essi è lì lì per cascare, come i numeri 19, 55, 83 e 96 sà pure fermarsi a tempo ed esprimere le sue furberìe con tanta gentilezza da velarne se non toglierne affatto la malizia.
L’amore istintivo e grandissimo che ebbi sempre pel popolo fecemi di buon’ora drizzare l’attenzione a quanto gli appartiene, così che sino dal 1852 mi diedi ad annotare i suoi canti, i proverbi, le voci di paragone, i modi di dire, le sciarade ed indovinelli, le costumanze ed i pregiudizii, le fiabe o racconti, oltre le parole del dialetto per apprestare i materiali di un dizionario Veronese-Italiano ed Italiano-Veronese, alfabetico e sistematico ad un tempo che soddisfi le esigenze del viver nostro, e ci educhi più facilmente all’uso quotidiano e spedito della lingua comune parlata. Undici anni di cure sono qualche cosa, e le mie raccolte si vanno ogni giorno arricchendo, ma la miniera onde si cavano essendo inesauribile, e siccome in ogni lavoro lo scopo precipuo deve essere non di fare ma di far bene, così per ora non credo avere elementi bastanti a publicare alcun che di completo e giovevole, mancandomi anche il tempo ad affrettarne la incetta ed illustrarli e coordinarli come bisogna perchè non riescano una congerie indigesta di roba senza capo nè coda.
Intanto fra le diverse centinaja di canti popolari che sono riuscito ad adunare, publico questo Saggio che cento soli ne contiene e non sono tutti i meliori: e lo publico perchè tra il fervore che è in ogni dove per simili studi non si creda sieno trascuràti affatto fra noi, e perchè altri se ne invoglino accelerando le indagini che ci torneranno poi di onore e profitto.
In questo Saggio volli comparissero i quattro generi di canti popolari che sono più comuni fra noi, cioè le villotte, le mattinate, le canzonette e le storie, marcando con asterisco quelli della provincia, raccolti quasi tutti nella parte alta di essa, e precisamente nelle valli di Mezzane, Illasi, Pantena e Policella. Segnar l’epoca in cui vennero creàti la è cosa per la massima parte di essi quasi impossible, poichè come si disse di sopra ogni generazione serbandone la essenza ne modifica la forma e li fa comparire moderni. In alcuni puossi scoprire dalle costumanze o dalli oggetti ai quali alludono, oppure dall’argomento che trattano. Per esempio il N. 19 deve aver avuto vita nel Secolo XVIII quando le donne portavano il corsetto o bustino aperto sul davanti, e bellamente allacciato con una stringa intrecciata: il numero 76 dopo il 1474 in cui fu creata da prima la moneta detta il tron: l’81 deve essere delli ultimi tempi, quando cioè da circa venti anni prese voga fra noi la pianta della dalia23: il 91 probabilmente non è di molto posteriore all’anno 1561 in cui fu decretata la prima volta dalla Republica di Venezia la coniazione del ducato d’argento, perilchè quello d’oro venne in sèguito distinto coll’unico appellativo di Zecchino. Fra quelli di cui si conosce indubbiamente la eta dell’argomento è il centesimo che è il più antico ed importante della raccolta non solo, ma di quanti corrono tuttavia nell’Italia media e settentrionale, avendo a soggetto un fatto clamoroso dell’epoca Longobarda.
Questa canzone che il popolo conosce per quella di Donna Lombarda narra la tragedia seguìta a Ravenna l’anno 573 dell’Era volgare ad opera di Rosmunda filia di Cunimondo Re dei Gepidi e vedova di Alboino Re dei Longobardi, la quale dopo aver indotto l’adultero suo Elmegiso od Almachilde ad assassinarle il marito, di cui egli era secondo alcuni scudiero e fratello di latte, di fronte alla resistenza del popolo che non volle acclamarla regina fuggì a Ravenna presso l’Esarca Longino dietro le cui scelerate suggestioni tentò avvelenare il nuovo marito; ma accortosi egli dell’inganno la costrinse ad ingollare il rimanente dell’iniqua bevanda, e così morirono assieme.
II Cavaliere Costantino Nigra, attuale ambasciatore d’Italia a Parigi, riienendo che questo e non altro sia l’avvenimento esposto dalla canzone in discorso lo analizza ed illustra con mirabile diligenza ed acume, sviluppandone in modo magistrate li argomenti che a mio vedere non ammettono risposta ed inducono il più perfetto convincimento24 A soffolcere la sua tesi riporta egli tradotto quanto di quella vicenda ne tramandarono Paolo Diacono scrittore della fine del Secolo ottavo (De gest. Lang. lib. II cap. XXIX) ed Agnello Ravennate che scrisse verso l’anno 834 (lib. pont. par. II in vita Petri Senioris — Cap. IV. apud Muratori, Rer. ital. Script. tom. 2) i quali per essere entrambi vissuti poco dopo quel fatto meritano fede grandissima. Secondo il primo «Elmichi, ucciso Alboino tentò di invaderne il regno. Ma nol potè, chè i Longobardi troppo dolenti della morte di quello, macchinavano di tor lui stesso di mezzo. Tosto Rosmunda mandò a Longino, prefetto di Ravenna, che senza indugio spedisse una nave a prenderli. Longino lieto della novella mandò subito la nave su cui Elmichi e Rosmunda, ormai sua consorte, di nottetempo fuggirono. E recando con essi Alsuinda figlia del re e tutto il tesoro dei Longobardi velocemente giunsero a Ravenna. Allora Longino prefetto prese a tentare Rosmunda perchè uccidesse Elmichi e con lui si maritasse. Quella, siccome era facile ad ogni nequizia, bramosa di farsi signora dei Ravennati consentì a commettere un tanto delitto. E ad Elmichi, uscente del bagno una coppa di veleno che asseverava ottimo alla salute propinò. Esso, come sentì di aver bevuto la morte, snudata la spada costrinse Rosmunda ad ingojare il rimanente. E così per giudizio di Dio onnipotente gli uccisori scelleratissimi ad un tempo perirono». Secondo l’altro «Ma accortosi Elmegiso che quella era la bevanda di morte, allontanò dalla sua bocca la tazza e porsela alla regina, dicendo: Bevi or tu meco. Ma essa non volle: perchè sfoderata la spada, e sopra lei appuntatala, le disse: Se non bevi, ferisco.» Non è cui non balzi sott’occhi a prima vista la mirabile identità sostanziale del racconto fatto dalli due Storici quasi contemporanei con quello della popolare canzone.
Secondo il Cav. Nigra le lezioni numerose di questo canto sparso in tutta l’Italia superiore si possono ridurre a tre principali, la Canavese e Monferrina, la Piemontese e la Veneta, e «sembra quindi molto probabile che il canto sia stato composto primitivamente nel dialetto parlato dalle popolazioni che durante la dominazione longobarda abitavano la valle del Po,» ed in epoca contemporanea al fatto che narra, cioè nel sesto secolo dell’Era volgare, per cui esso sarebbe uno dei monumenti poetici più antichi dell’Europa moderna. Lamenta egli che prima di lui questo canto non fosse stato ancora esaminato seriamente, avendolo Cesare Cantù giudicato senz’altro di origine veneziana nella sua Storia Universale, essendosi accennato da Luigi Carrer, che fu primo a parlarne, ad una tradizione veneziana intorno al luogo nel quale sarebbe accaduto il fatto, ma senza dichiararne il fondamento, ed avendone pubblicata Oreste Marcoaldi25 una lezione in dialetto monferrino senz’accompagnarla di illustrazione veruna. Le lezioni (Canavese, Monferrina, Piemontese e Veneta) messe in luce dal Cav. Nigra corrispondono in sostanza alla nostra. Solamente la Canavese e la Monferrina finiscono accennando, che il marito colla spada appuntata alla gola sforzò Donna Lombarda ad ingoiare la bevanda, e che dessa alla prima goccia che bevve cambiò di colore, alla seconda invocò compassione, alla terza spirò; e nella lezione Piemontese il marito che à già cominciato a bevere, viene avvisato del pericolo da una fanciulla di quindici anni, o di sette, che lo chiama col nome di padre. Questa terza interlocutrice ricorda probabilmente Alsuinda od Albsuinda filia d’Alboino e di Rosmunda che venne poi dal perfido Longino spedita in regalo col tesoro dei Longobardi all’Imperatore Giustino. Nota il Nigra che secondo alcune varianti di Piemonte e di Monferrato l’avvertimento venne dato ad Elmichi da un bambino in culla che miracolosamente parlò, come nella nostra; egli ritiene peraltro che tale miracolo sia un’aggiunta posteriore, essendo questa non insolita finzione della poesia romanza, come ne abbiamo delli esempi nelle canzoni spagnole riferite dal Professore Mila Y Fontanals, e dal De Almeida-Garret. Parimenti una inqualificabile introduzione posteriore devono essere i due versi della nostra:
- E per l’amore di un re di Francia
- El bevarò e morirò.
Di un’altra lezione veneta importantissima diede notizia Carrer26 scrivendo «E con più lugubre fantasia, quanto non è vivamente ritratta la colpa ed il rimorso di donna Lombarda; della fiera moglie che, istigata dal malvagio compagno, avvelena il marito, come egli ritorna a casa e le domanda da bere? E passato l’anno, nel giorno stesso in cui diede compimento al misfatto, ridottisi nuovamente a spillare del vino la iniqua donna e l’amante, come essa gli porge da bere, l’altro crede veder bollire per entro la tazza non so che di sanguigno, di che il turbamento onde son colti ambedue, e lo spaventoso presagio della misera fine che li aspetta.» Nigra crede che tale versione sia il risultato di due tradizioni distinte, confuse in una dalla fantasia popolare, quella cioè della Rosmunda di Pavia che ucciso Alboino fugge col drudo uccisore: e l’ altra della Rosmunda di Ravenna che, rôsa da superbia insaziabile, pella speranza di almeno diventare signora dei Ravennati, tenta avvelenare il nuovo marito da cui essendo scoperta è costretta vuotare la tazza fatale e perire con lui. Non avendo potuto sinora ottenere la lezione cui allude Carrer mi sembra probabile molto il suposto delle due tradizioni confuse, è però da avvertire che secondo il Nigra parrebbe la morte di Alboino avvennisse in Pavia, mentre accadde in Verona sua capitale provvisoria, ove egli risiedeva di spesso, ed ove erasi recato appunto a celebrare la espugnazione della prima durata tre anni, e che fu l’ultimo dei suoi trionfi. Con tale rettifica sarebbe forse giustificata la supposizione di Cantù sulla origine veneta della canzone, e l’accenno di Carrer alle rive sulle quali si crede successo il reo fatto, che a lui pajono mancanti di appoggio. —
Quanto al metro il Cav. Nigra e persuaso che l’originate fosse il quinario, e di tre quinari si componesse la strofa: per lo che questo metro breve in forma ternaria essendo proprio delli antichi Celti trarrebbe forte argomento in appoggio della longevità della canzone.
La lezione che io publico mi fu recitata semplicemente, nè ò mai potuto udirla cantare; ma Nigra dice che la melodia che vi si applica nel Canavese è semplice, grave, e veramente straziante; e Carrer parlando della sua nota che «il metro di questa canzone e la musica sono improntati della più cupa tristezza; il metro con certa rotta misura di versi imitando lo strazio di un’anima che trangoscia sotto il rimorso; e la musica con monotone ed allungate cadenze accompangnando assai bene la battuta del remo che guida la barca traverso il canale, alle cui rive si crede successo il reo fatto.» Da tutto insieme devesi quindi col Nigra conchiudere che «per la tragica altezza dell’argomento e pel modo efficace con cui è espresso, il canto Donna Lombarda può sostenere il paragone coi più lodati modelli della poesia popolare d’ogni paese»27.
A far pienamente comprendere la importanza di questi canti, e farne gustare per intero la dilicata bellezza bisognerebbe uno ad uno percorrerli con sottile analisi estetica, ma questo per ora non posso, e bastami averne cennata la importanza e bellezza in genere perchè la intenzion mia venga se non altro approvata da coloro che sanno come nulla esista di trascurabile od inutile al mondo, e come tutto concorra allo sviluppo incessante della civiltà cui tendono in differenti maniere i voleri di tutte le menti elevate, e di tutti li animi onesti. Per li altri chiuderò colle parole del Tommasèo: «chiunque altra poesia non conosce che quella dei libri stampati; chiunque non venera il popolo come poeta ed ispirator dei poeti, non ponga costui l’occhio su questa raccolta, che non è fatta per lui. La condanni, la schernisca: e l’avremo a gran lode.»28
- Verona, 3 Agosto 1863.
Note
- ↑ Che questo sia pensiero dei Governi stessi d’Europa n’è apertissimo indizio la cessione delle Isole Jonie, promessa dall’Inghilterra al Regno di Grecia, e che sarà in breve consumato del tutto.
- ↑ La machine a vapeur est une découverte qu’on ne saurait comparer, pour la grandeur de ses conséquences, qu’à celle de l’imprimerie, ou bien encore à celle du continent américain. Ces découvertes immenses, bien que remontant déjà à près de quatre siècles, sont loin d’avoir déroulé a nos yeux toute la série d’effetts qu’elles sont destinées à produire. Il en sera de même de la conquête que le monde a faite en transformant la vapeur en une force motrice illimitée dans son action et applicable à tant d’usages. Bien des générations se succéderont avant qu’on puisse en calculer toute la portée. — Ouvrages politiques-économiques par le comte Camille Benso de Cavour ecc. Coni, par B. Galimberti éditeur-libraire - 1855. - pag. 132, première partie.
- ↑ È quasi inutile avvertire che i fatti politici vengono qui accennàti per semplice incidenza e per debito di storica esattezza, poichè le nove conquiste alle quali si allude sono le economiche e le morali, essendo esclusivamente letterarii li intendimenti e lo scopo di tutto questo lavoro.
- ↑ Saggio sopra l’uomo; Londra 1763, a spese di Antonio Graziosi. — Lettera II. pag. 27.
- ↑ Emile ou de l’Education: Amsterdam, 1772 — tomo i — libro 5 — pag. 262.
- ↑ È forse inutile accennare come non meriti nome di poesia popolare quella che corre pelle bocche dei cantastorie nelle sagre o nelle fiere, la quale è frutto stentato di qualche prosuntuoso mascalzone che la pretende ad erudito, ed è modello di schifoso ibridismo poetico non solo, ma di sgrammatica e di offeso buon senso. A questo deplorabile genere appartiene la canzonetta ora di moda in difesa dei capei e cerci col ritornello:
Xela una cana, xelo un’toron. Quanto alle imitazioni di canti popolari fatte da culti rimatori, sebbene arrivino talora a sedurre per gentilezza di pensiero e di forma, rarissimo è poi che non tradiscano quà o colà la nascita illustre, a quella guisa che la nobiltà per quanto nelli ozi villerecci tenti assumere modi borghesi, poco o tanto rivela sempre l’alterezza del blasone dorato.
- ↑ Della Letteratura; Discorsi ed esempi in appoggio alla Storia Universale. — Tomo I, prefazione, pagina LIV — Torino — Tipogr. Pomba — 1803.
- ↑ Essais; Paris chez Lefevre — 1834 — pagina 170.
- ↑ Pensieri inediti del Leopardi, articolo di Emilio Teza publicato nella Rivista Italiana di scienze, lettere ed arti — Anno IV — N. 153 — Torino, 29 Giugno 1863 pag. 404 a 406.
- ↑ Cesare Cantù — Opera e loco citati — Tomo II — parte II — N. 37,pag. 445.
- ↑ Vecchie Romanze Spagnuole recate in Italiano da Giovanni Berchet — Brusselles; Hauman, Cattoir e C. 1837. — Prefazione, pagina XVII. —
- ↑ Dell’unificazione della lingua in Italia. = Trattato di Pietro Vincenzo Pasquini = Milano, Tipografia di Pietro Agnelli, 1863. = Introduzione.
- ↑ Del Buono, del Bello, per Vincenzo Gioberti = Firenze, Felice Le-Monnier, 1853 = Capo X, del Bello, pag. 591.
- ↑ Della Lingua Volgare di Dante Allighieri, libri due tradotti da Giangiorgio Trissino e ridotti a corretta lezione ecc. per cura del Dott. Alessandro Torri di Verona = Livorno 1850 = lib. I. cap. XVI, pagina 53.
- ↑ Opera e loco citati – pagina 389.
- ↑ Lettre à M. Renouard.
- ↑ Egloga I.
- ↑ Gioberti = Opera e loco citati = pagina 590.
- ↑ Pasquini = Opera e loco citati = cap. VIII = pag. 4.
- ↑ Intendiamoci bene che tra i gradevoli parlatori di Padova non metto sicuro quell’infima bordaglia, ch’è la parte minore ed abbietta della sua plebe distinta coll’appellativo di paci, come quella di Milano coll’altro di barabbi. Il suo linguaggio è piuttosto un gergo furbesco reso più brutto dalla inflessione triviale ond’è pronunciato.
- ↑ Opera ed edizione citate = lib. I. = cap. XIV pag. 75.
- ↑ Verona e sua provincia, per Carlo Belviglieri = XVI = I distretti del Veronese, pag. 625-626. = Nel Vol. IV della Grande Illustrazione del Regno Lombardo-Veneto, per cura di Cesare Cantù ed altri letterali = Milano, presso Corona e Calmi editori, 1859. Il chiarissimo Alessandro Torri, in una lettera diretti all’illustre Avvocato Luigi Fornaciari di Lucca, che fa parte dei commenti all’opera sopracitata Della volgare eloquenza di Dante Alighieri (libro I = cap. XIII = pag. 70-71) nota come il dialetto di Verona conformasi a quello di Lucca non solo in alcune voci, ma ben anco nel pronunciare con consonante semplice le parole che la vogliono doppia, e la S per E o Z. Egli vorrebbe originata questa comunanza di parole e di pronunzia fin da quando gli Scaligeri estesero fino a Lucca il loro dominio duratovi per oltre trenta anni. Io credo per altro che se quell’accidente può avervi contribuito, la sua causa prima debba risiedere in circostanze ben più vitali ed intrinseche.
- ↑ La Dalia (Dahlia, bot,) è originaria del Messico, e venne così chiamata dallo Spagnolo Antonio Giuseppe Cavanilles che creo il genere nelle classificazioni botaniche dedicandolo a Dahl, naturalista Danese. Di poi Willdenow
- ↑ Canzoni popolari del Piemonte raccolte ed illustrate dal Cav. Costantino Nigra, e riprodotte nella Rivista Contemporanea di Torino — Vol. XII — Anno VI — 1858 — pag. 16 e successive
- ↑ Canti popolari inediti, umbri, liguri, piceni, piemontesi e latini - Genova, 1855.
- ↑ Prose e Poesie di Luigi Carrer = Venezia, coi tipi del Gondoliere=1838=. Volume IV =Trattatelli Estetici; XI Poesie popolari, pag. 68 e seguenti.
- ↑ Opere ed Edizioni citate.
- ↑ Canti popolari Toscani, Corsi, Illirici, Greci, raccolti e illustrati da Nicolò Tommasèo, ecc. Venezia, tipografia di Gerolamo Tasso, 1841 = Prefazione, pagina 5.