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sentire moderno in modo conforme al genio primitivo ed immutabile del nostro idioma1.» Ma se ne verranno salvàti i pregi più cari, pure l’insieme dei dialetti sparirà poco a poco in intero, e col loro disparire si cancelleranno puranco le originalità più spiccate delle nostre provincie, onde urge stabilirne in modo imperituro la ricordanza per valersene alli scopi accennàti. Nè sogni taluno di opporsi a quello che sarà l’andamento naturale ed invincibile della civiltà, ovvero si perda a ripiangere il tramonto delle provinciali nostre fisonomie che se possono illeggiadrire in qualche modo l’aspetto esteriore, furono e stanno insieme cagione di gravissirui danni.
L’Italia in cui fu notata una scarsezza grande di canti popolari nazionali (che abbondano sopra ogni altro paese di Europa in Ispagna ricordando le sue geste gloriose, e specialmente quelle compiute durante la lotta coi Mori) è ricchissima invece di canti d’ogni altro genere, e sopra tutto di canti d’amore, prestandovisi maraviliosamente la sua lingua che il Courier asseverava la più bella fra le lingue vive2, e della quale lo Svedese Isaia Tegnier era innamorato cotanto da dire che ogni parola di essa è un sonetto.
Publio Virgilio Marone cantò nella Bucolica.
Illinc alta sub rupe canet frondator ad auras3.
E già da remotissimi tempi ogni officina, ogni strada, ogni campagna d’Italia suonano perpetuamente di canti che esilarano lo spirito e crescono il fascino della sua stupenda natura. Di essi canti varie sono le appellazioni e le forme a norma delle differenti provincie, ma nel fondo di tutti si ravvisa quella consonanza medesima che pure in onta alla disparatissima loro fisonomia esiste anche nel fondo dei suoi molti dialetti, i quali tutti conservano un elemento comune di lingua uguale a quella che si parla in Toscana, elemento dal quale parmi abbia appoggio grandissimo l’opinione che la lingua Italiana non sia nata dalla corruzione del latino violentemente sposato alli idiomi boreali come vorrebbero Giambullari nel Gello, Maz-