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Pernacchi ed altri molti che se ne occuparono seriamente, con isquisito buon gusto e con rara profondità di giudizii.

Per sentenza di giudici competenti se un dialetto di Italia diverso dalla lingua che si parla in Toscana potesse diventare la lingua comune questi non potrebbe essere che il Siciliano già lodato da Dante medesimo nel suo libro de vulgari eloquio: o melio il veneto, superiore a tutti in bellezza, che venne adoperato nei publici affari e nei parlamenti, ed il quale ci dotò delle sole commedie nostrali che possano gareggiar con fortuna con quelle di Terenzio e del Macchiavelli1. Il dialetto veneto distinguesi in veneziano propriamente detto, che si parla a Venezia e nelle lagune; in continentale usato nella terraferma sino al Mincio; in marittimo adoperato nelle città dell’Istria, in Dalmazia, sul litorale ungherese, nelle Isole Jonie ed in parecchie altre isole dell’Arcipelago greco; in friulano del Friuli, affine alia lingua romancia, e misto di voci francesi e slave; in tirolese delle alte valli di Evaes, di Livinalongo e Buchenstein, di Enneberg, e di Badia, che si scosta moltissimo da quello parlato nella restante provincia che è attualmente compresa sotto il nome di Tirolo, ed istimasi il più corrotto fra i dialetti d’Italia. Finalmente comprendesi in esso anche quello detto dei Sette Comuni, quantunque di origine affatto straniera e non ancora determinata.2.

Pregi salienti del dialetto veneto sono la vivacità ed una mollezza straordinaria di pronuncia che se è forse troppo leziosa a Venezia, riesce gradevolissima a Treviso ed a Padova3. Del resto ogni provincia delle Venezie lo modifica sensibilmente, e fra tutte Verona che se ne stacca più di ogni altra nelle parti caratteristiche, avvicinandosi grandemente alla pretta lingua italiana così nella forma come nella pronuncia delle parole.



  1. Gioberti = Opera e loco citati = pagina 590.
  2. Pasquini = Opera e loco citati = cap. VIII = pag. 4.
  3. Intendiamoci bene che tra i gradevoli parlatori di Padova non metto sicuro quell’infima bordaglia, ch’è la parte minore ed abbietta della sua plebe distinta coll’appellativo di paci, come quella di Milano coll’altro di barabbi. Il suo linguaggio è piuttosto un gergo furbesco reso più brutto dalla inflessione triviale ond’è pronunciato.