Saggi critici/L'ultimo de' puristi
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L’ ULTIMO DE’ PURISTI
La lettura di due grossi volumi intitolati Lezioni di storia, di Ferdinando Ranalli, ha risvegliato in me, e per la forma dello scrivere e per le dottrine, l’immagine de’ miei primi studi e delle mie prime impressioni letterarie. Quelli erano giá per me tempi dai quali mi sentivo distante come ci fossero corsi di mezzo due secoli; ed ecco questo libro qui, stampato ora, che mi riconduce innanzi quei tempi vivi e presenti e mi dice: — Ricordati! come allora cosí ora e cosí sempre si ha a scrivere e pensare — .
Dicono sia un libro noioso e che non si possa andare innanzi senza sbadigli. Io l’ho trovato gustosissimo, perché, dotato di una viva immaginazione, mi son figurato il signor Ranalli insieme con me, giovani tutti e due, alla scuola del marchese Basilio Puoti, e come davamo opera a riempire i nostri quaderni di bei modi di dire, a rotondare i nostri periodi, a studiare con atteso animo grammatiche e rettoriche, trecentisti e cinquecentisti, pieni il petto di sacro orrore verso il forestierume, e ben risoluti a non essere mai altro che italiani di lingua, di stile e di pensiero, stando come torre fermi e lasciando pur dire gli sciocchi che ci davano la baia e ci chiamavano per istrazio puristi. Questo ritorno alla mia prima giovinezza mi ha procacciato grande diletto, e ne riferisco al signor Ranalli quelle grazie che per me si possono maggiori. Quel pensiero, quello stile e quella lingua io gli ho trovati redivivi in questo libro, ed è stato come rivedere un amico dopo venti anni di lontananza e d’ingrato oblio, o piuttosto di dimenticanza : conciossiaché secondo il marchese Puoti «oblio» sia parola da usare solo in poesia, e di rado e con molto riserbo in prosa.
Ora dovete sapere che leggendo m’è avvenuto un caso strano, o piuttosto uno strano caso, per iscrivere con piú eleganza: ed il caso è questo, che in luogo di seguitare il chiaro Autore nelle sue dotte elucubrazioni ed investigazioni, m’interrompevo spesso, e correvo con la mente la, in quella scuola, e mi veniva innanzi il marchese e tanti cari compagni, e molti curiosi fattarelli, e non c’era verso di ravviare l’attenzione. Sicché, letta non senza fatica e con molte distrazioni ed errori d’immaginazione la prima e la seconda e la terza introduzione, e non vedendo ancora l’Autore entrato in cammino, mi son messo a scartabellare in qua e in lá, soprattutto dove il dotto professore ragiona dei nostri piú celebri scrittori, di Machiavelli, di Guicciardini, di Sarpi, di Vico; né mi è stato possibile di far poi una lettura ordinata, come pur si conviene chi vuol darne giudizio.
La colpa non può essere del libro, considerando come gli scolari di Pisa hanno pur potuto sentirselo recitar dalla cattedra tutt’intero; sicché sono meritevoli di passare in proverbio e che si dica : — Paziente come uno scolare di Pisa — . La colpa dee essere tutta mia, che fin dal principio ho preso mala via, e mi son fatto venire in capo quel benedetto marchese Puoti, e quella scuola e quelle impressioni, e tante ricordanze della prima etá : ond’è che, fittamisi bene addentro quella immagine, non trovo piú modo di mandarla via, e la vedo li, sempre li, tra le righe del libro. Poiché dunque la non vuole andar via, il meglio è mandar via il libro ed ubbidire a quella, e fare il voler suo. Per la qual cosa prendo per ora commiato da voi, signor Ranalli, con tante scuse, e corro lá dov’ella mi grida e mi accenna.
E indietro indietro, ecco mi trovo in sullo scorcio del terzo decennio di questo secolo: quando gli uomini del ’2i erano giá la generazione che passa e sorgevamo noi altri, giovanotti da quindici a vent’anni, la nuova generazione: i predestinati del ’48 e del ’6o. Migliaia di giovani dalle provincie piombavano ogni anno in Napoli, ed eran chiamati dal popolo gli «studenti» ed anche i «calabresi». Venivano da’ seminarii, portandosi appresso come trofei i libri imparati, il padre Soave, l’abate Troisi, il Portoreale, l’Eineccio, la geometria di Euclide, la Storia greca e romana di Goldsmith, Tasso e Metastasio; venivano in Napoli «per compiere gli studi», come dicevano, ed imparare la professione. Napoli era la cittá del sole, il faro che dovea guidarli alla gloria, il progresso. Ed il progresso era allora incarnato in un uomo, nel marchese Puoti. Di scuole pubbliche ci era appena il nome; l’Universitá era deserta: insegnava lettere italiane un tal canonico Bianchi, il quale pagava lui i due o tre suoi studenti; di lettere latine era maestro Lucignano, e di diritto di natura un abate Cutillo; Manfré rappresentava la medicina, e Pugnetti la giurisprudenza; Galluppi e Nicolini non erano ancora venuti su. I tempi sospettosi: impossibile ogni libertá di pensiero; inceppato ogni movimento letterario o scientifico; il progresso erasi andato a rifuggire sotto quest’umile insegna : «Scuola di lingua italiana del marchese Puoti».
Ma non importa che il progresso pigli questa o quella forma, anche la piú umile e la piú innocua : ci è sempre sotto esso e tutto esso. La nuova generazione per poter sviluppar le sue forze ha bisogno di trovare innanzi a sé un passato da combattere, un avvenire da conquistare. Allora il passato si chiamava il seminario, l’istruzione provinciale; il progresso si chiamava il purismo, la scuola di Basilio Puoti. Questo santo nome, che i napoletani ricorderanno sempre con riverenza, era la bandiera intorno a cui si raccoglieva la gioventú, e questo nome significava libertá, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il seminario, aspirazioni ancora indistinte a nuove idee, a nuova civiltá. Il purismo fu il primo atto di questo gran dramma compiuto al ’6o; il primo segno di vita che dava di sé la nuova generazione volgendo le spalle al seminario.
È superfluo notare che di tutte queste grandi conseguenze e di questi profondi significati non ne sapeva nulla né il marchese Puoti, né la gioventú, né la polizia. Vi era li tutta una rivoluzione ignorata e dagli attori e dagli spettatori e dalle vittime. E rivoluzioni siffatte sono le meno reprimibili e le piú efficaci.
Il marchese Puoti, di famiglia patrizia e agiata, avea ceduto la rappresentanza e l’indirizzo della casa a Giammaria, secondogenito, dotto e onesto magistrato, il vero marchese e il vero capo della famiglia. Il nostro Basilio, rimasto marchese onorario, da vasi con molto ardore agli studi. Conosceva il latino, e meglio il greco, ed avea finito per fare materia prediletta dei suoi studi le lettere italiane, pigliando posto accanto al Cesari, al Montrone, al Giordani, al Perticari, al Paravia, e a tutti quei benemeriti cittadini che si affaticavano a restituire la lingua nella sua puritá e a ristorare gli studi delle cose nostre. Al che il Puoti prese la via piú diritta e piú sicura, aprendo scuola gratuita e raccogliendo intorno a sé i piú eletti ingegni del Napolitano. Ben presto si aggrupparono intorno a lui tutti coloro che di questi studi si dilettavano: l’abate Greco, Saverio Baldacchini, Cesare Dalbono, la Guacci, il Campagna, il Ranieri, l’Imbriani e molti altri, ed egli divenne il papá, il centro della coltura letteraria.
Il Puoti tenea scuola in una vasta sala del suo palazzo, dove convenivano meglio che duecento giovani, la piú parte studenti che venivano freschi freschi dai seminari. Allora non ci erano regolamenti d’ istruzione pubblica e non programmi; esami per cerimonia : d’ italiano punto; né la laurea era necessaria a professare. La divisa del governo in fatto d’ istruzione era questa: «non incaricarsene»; per lunga rilassatezza alcuni pochi regolamenti erano andati in disuso; monsignor Colangelo, presidente dell’Universitá, di una sola cosa si mostrava sollecito, che gli studenti andassero alla Congregazione; quanto al resto, lasciava correr l’acqua per la china, e a chi faceva atto di zelo soleva dire : — «Non te ne incaricare» — . Mi ricordo. Professore del Collegio militare, un giorno mi sfogavo col cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddrizzare gli studi. Colui senti, senti; poi tutt’a un tratto mi prese per mano e disse: — Senti un consiglio d’amico, «non te ne incaricare»: il re dice: piú asini sono loro e piú dotto sono io — . Due anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo.
Con questo sistema si riuscí a imbarbarire le classi inferiori; ma, quanto alla borghesia, l’effetto sorti contrario alle speranze. Riunendosi da quindici a ventimila studenti in Napoli, capitale alla francese, dove erano condensate tutte le forze intellettuali del paese, meno il governo « se ne incaricava », e piú queste forze operavano e producevano. Essendo la laurea non necessaria e non difficile ad ottenere, e gli esami punto severi, in tanto concorso e gara di gioventú si sviluppò il desiderio disinteressato della coltura, l’amore della scienza per la scienza. Le scuole private, quando son considerate come succursali o appendici delle pubbliche, o, come oggi si dice, pareggiate, ed hanno per fine le ripetizioni o la preparazione agli esami, si guastano e si corrompono. A quel tempo le scuole private erano padrone del campo, rifuggitosi lá tutto ciò che ci era di vivo e di nuovo nella coltura nazionale; i giovani accorrevano dove il livello degli studi era piú alto e i principii piú larghi, e chiamavano pedanti o empirici quelli che esponevano la scienza caso per caso, con troppo minuti particolari; a’ maestri non era lecito addormentarsi sul loro passato e ripetersi, incalzati da un’onda continua di emuli, larghi promettitori, e in mezzo a mobile gioventú, loro stipendiatrice e di non facile contentatura. Non fu raro il caso di vecchi maestri e sperimentati, rimasti sul lastrico, perché non piú «al corrente della scienza», come dicevano i giovani, giudici inesorabili e sempre giusti: cosí Fazzini si lasciò sopraffare dal Palmieri e Gigli dal Savarese. Questo amore disinteressato della coltura è il maggior titolo di gloria per una generazione, e il segno piú chiaro di ristorazione filosofica e letteraria : in Napoli la coltura divenne perfino arma politica, strumento di opposizione; vietato parlar di libertá, si parlava di civiltá di progresso. La gioventú usciva dalle scuole con la coscienza della sua superioritá sopra quelli che erano ne’ pubblici uffizi, i piú ignorantissimi, e si sentiva separata da un governo «incivile» e «oscurantista», frasi del tempo. Il Puoti parlava con poca stima del nobile o del prete, come di gente ignorante e oziosa; il peccato non era il nascer patrizio o il divenir prete; era l’ignoranza: mai forse non era salito si alto il rispetto verso l’ingegno e la stima del sapere. L’impulso fu cosí vivo che tirò seco anche il re, vago di popolaritá a buon mercato e disposto, come certi antichi tirannelli, a darsi aria di protettore ed amico degli uomini di lettere. Cosi entrarono nell’amministrazione pubblica il marchese di Pietracatella e il marchese Santangelo, uomini colti, e al rozzo Colangelo succedeva monsignor Mazzetti, pieno il capo di riforme e miglioramenti, e fu illustrata l’Universitá da Galluppi e Nicolini, acclamatissimi, e il Puoti fu nominato ispettore degli studi nel Collegio militare. Re Ferdinando fece agli scienziati italiani congregati in Napoli cosí bete e carezzevoli accoglienze, che fé’ girare il capo all’Orioli, il quale, cominciato tribuno con la celebre frase che «il progresso, come il sole, indora prima le cime», accolta con cosí vive acclamazioni dagli studenti napolitani, fini cortigiano col non meno celebre epiteto di «Giove» regalato al re di Napoli.
Questa fu la prima battaglia della nuova generazione contro il passato, in nome del progresso, della civiltá, della coltura, e la battaglia fu vinta senza cospirazioni e senza violenze, per la sola forza della pubblica opinione.
Di questa prima campagna il protagonista fu Basilio Puoti, tanto pili potente, quanto meno consapevole. La sua passione per le lettere e per l’insegnamento era tale che riempiva tutta la vita e non gli lasciava luogo ad altro. Il marchese del Carretto soleva ridere di questo pedante del marchese Puoti. Un altro marchese, ministro dell’interno, Santangelo, si degnava esprimergli la sua benevolenza, e il principe di Satriano, Filangieri, compiacevasi di proteggerlo. La sua famiglia era nota per antica devozione al trono. Molte erano le sue aderenze co’ principali funzionarii e con le famiglie patrizie della cittá. D’altra parte lo si sapeva tutto immerso negli studi della lingua, ed estraneo affatto alle cose politiche. La sua scuola era dunque considerata passatempo innocentissimo, e lo si lasciava fare e dire, senza ombra di sospetto. Né troppo ci era da mettersi in guardia verso di un uomo, a dipingere il quale basterá dire questo solo, che le due piú grandi ambizioni della sua vita erano divenire accademico della Crusca e maestro del principe ereditario. Nel primo intento riuscí, e n’ebbe tale compiacenza, che in fronte a’ suoi libri fece aggiungere al proverbiale e simpatico «Basilio Puoti» l’epiteto di «accademico della Crusca»: e fu in quel tempio che copri i suoi capelli bianchi sotto una elegante parrucca, non senza un certo rincrescimento di noi altri, che amavamo tanto quel nostro Basilio e quella veneranda testa bianca. Nell’altro intento falli e n’ebbe tale pena al cuore, che fu non ultima cagione di quella malattia che indi a poco lo condusse alla tomba. Il re dovea venire a far visita al Collegio militare, e parve al Puoti occasione ottima a farsegli presentare. Il «corpo» de’ professori era li per riceverlo; e appresso erano schierate le classi superiori; piú innanzi vedevi un gruppo, dove erano parecchi ufficiali, e il comandante del Collegio, e il principe Filangieri e il marchese Puoti. Le turbolente «classi inferiori» furono raccolte tutte in una stanza, e fu dato a me l’incarico d’intrattenerle. Io, come volendo lor fare un regalo, invece della solita lezione, feci una gran lettura, né giá degli abborriti trecentisti. Lessi Cloridano e Medoro, e la pazzia di Orlando, e la morte di Clorinda, e il duello di Argante e Tancredi, e alcuni brani del Saulle, e la conversione dell’Innominato, con infinito diletto di quegli svelti giovinetti, tutt’orecchi, e con l’anima tutta fuori, nel volto, ne’ gesti, nelle esclamazioni. Era una festa, e corsero cosí quattro o cinque ore, e nessuno se ne accorgeva, e si sarebbe tirato per non so quanto altro tempio, salvo che io venni rauco e non potei piú andare innanzi. Uscito, trovai tutti giá via, e seppi del marchese Puoti turbatissimo, e che il re non gli avea volto la parola. Poco poi, avendo pubblicato in una strenna un volgarizzamento dal greco, dov’era narrato dell’amore di un principe, la casta Corte borbonica fremè pensando che quel fatto avesse potuto cader sotto gli occhi delle principesse reali, e se ne menò molto scalpore, e il Puoti venne in disgrazia: il brav’uomo non se ne sapea consolare.
Il Puoti dunque non era uomo politico, non cospiratore, era un puro e semplice uomo di lettere, un «pennarulo», come lo chiamava Ferdinando; ma quello che seppe fare questo «pennarulo» si vedrá dagli effetti che il suo insegnamento produceva sulla gioventú.
Addurrò il mio esempio; e da me si può argomentare degli altri.
Avevo sedici o diciassette anni. Cresciuto in Napoli sotto la guida di Carlo De Sanctis, a cui ero nipote, riputatissimo maestro di lettere latine a quel tempo, compiuti gli studi filosofici sotto il Fazzini, mi trovavo al primo anno degli studi legali. Avevo letto moltissimi libri e di ogni materia: scrivevo versi e prose, improvvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava «penna d’oro», ed io una superbia che mai la maggiore : mi tenevo seriamente il piú istrutto uomo di Napoli. Avevo parte copiato, parte riassunto Hobbes, Leibniz, il mio favorito, Spinosa, Cartesio, Malebranche, Ahrens, Genovesi, Beccaria, Filangieri e tanti altri, come portava il caso, senza disegno né ordine : di storie, di romanzi e di tragedie e di commedie era pieno il capo, e tutto ci rimanea, perché avevo grande memoria. Mi avvenne che un giorno Francesco Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese Puoti. — A che fare? — , diss’io. E lui : — Ad impararvi l’italiano — . Mi parve un’offesa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne cantavano meraviglie, e ci andai pur io. La chiamavano «scuola di perfezionamento». Vi si andava a «compier gli studi». Moveva tutti un desiderio di maggior coltura e di stare a paro con gli altri.
Giá quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel servitore in guanti, quella sala magnifica tapezzata di libri innalzava l’animo, lo tirava in una regione piú elevata. Non so che signorile spirava colá che cacciava in fuga tutte le rozze memorie del seminario. Quel di che ci andai io, eravamo parecchi a far l’esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri studi, e il dove, e il come, tutto minutamente; ci fe’ tradurre un brano di Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe uomo grave e compassato; ma era tutt’altro. Amenissimo, vivacissimo, pieno di motti e di lazzi alla napoletana, non insegnava, non si metteva in cattedra, conversava, raccontava spesso, si divertiva e divertiva : non ci era aria li né di scuola né di maestro: parea piuttosto un convegno di amici, un’accademia sciolta da regole e da formalitá. A’ provinciali avveniva spesso di chiamarlo maestro, e se ne turbava: voleva esser detto marchese. Per primo atto correvano a baciargli la mano, ma la ritirava vivamente e diceva: — Non si bacia la mano che al Papa — . Non volea si dicesse la scuola, ma lo «studio di Basilio Puoti», né le sue voleva si chiamassero lezioni, ma «esercitazioni». In effetti proprie e vere lezioni non erano o spiegazioni o teorie, ma esercitazioni nell’arte dello scrivere, traduzioni, componimenti, letture mescolate di aneddoti, di riflessioni, di giudizi, d’ impeti di collera, di scuse amabili, si che era un piacere a vederlo e a sentirlo; tutto ciò che scuola o maestro o studente ha di convenzionale, era scomparso, fino le proverbiali panche, sostituite da eleganti sedie. Il marchese non solo sdegnava di esser detto maestro, ma non ne aveva l’aria e le maniere : pareva piuttosto un amico maggiore di etá e di esperienza e di studi, che stava lí compagno e guida ne’ nostri lavori, e sentiva il parer nostro e ci diceva il suo, e poneva tutto in discussione, quello che diceva lui e quello che dicevamo noi. Talora avveniva che il torto l’aveva lui, e lo riconosceva di buona grazia e diceva: — Ho preso un granchio a secco — . Né questa libertá di discussione generava anarchia, essendoci differenze gerarchiche naturali, tanto piú efficaci, quanto meno imposte dai regolamenti. Il marchese era a tutti caro e rispettato, perché amava i «suoi giovani», cosí li chiamava, non studenti, né discepoli, ed era il loro protettore, il loro padre. Ci erano attorno a lui un gruppo di veterani, giovani stati lí da cinque o sei anni, e che il marchese scherzando chiamava gli a «Anziani di Santa Zita». Il loro giudizio era molto autorevole, e quando parlava l’un di essi si faceva silenzio, l’irrequieto marchese per il primo, e si stava a bocca aperta. Ci erano anche gli «Eletti», giovani che occupavano un posto distinto, e questo nome si dava per consenso di tutti a quelli che facevano un lavoro « indovinato », componimento o traduzione. Anche il giudizio di questi aveva una certa autoritá, ed i nuovi e inesperti si lasciavano volentieri guidare da loro. Cosi nasceva una disciplina naturale, fortificata da una costante cortesia di modi, che rendea tollerabili anche i piú severi giudizi. Il marchese soleva dire che le lettere servono a raggentilire e nobilitare l’animo; ed era una grazia, quando si spassava con di bei motti e proverbii alle spese di qualche povero provinciale capitato li o non bene in arnese, o goffo di modi, o presuntuoso parlatore. Si può pensare quale impressione incancellabile produceva tutto questo su quei rozzi animi. Era tutta una rivoluzione morale. Dopo pochi mesi io mi sentiva un altro uomo.
Né questo solo. In quella scuola i principali attori erano i giovani. II marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni, non insegnava grammatica o rettorica: parlava cosí alla buona, e facea notare piú per esempli che per teoriche i pregi e i difetti degli scrittori, aggiungendovi, come l’occasione portava, avvertenze grammaticali o di lingua o di rettorica. Chi ne vuole un’immagine vegga i Fatti di Enea coi suoi comenti. Il lavoro era tutto nostro, e serio e assiduo: i poltroni poco ci duravano e andavano via perseguitati da una di quelle esclamazioni, che il poco paziente marchese si lasciava sfuggir di bocca, quando non giungeva a contenersi e ad esclamare: — Non mi fate dire la parola disonesta — .
Vi si andava tre volte la settimana. Un giorno era consacrato alla lettura e all’esame de’ componimenti, favole, lettere, dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, novelle, di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese domandava a due o tre il loro parere, i quali ragionavano prima del concetto, poi dello stile e della lingua. La discussione era chiusa da uno degli «Eletti» o degli «Anziani», che ne discorreva ampiamente; il marchese riassumeva le diverse opinioni e dava un giudizio terminativo. Essendo la piú parte giovani colti e adulti, le discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né minor gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e alla lettura dei classici. Si traduceva non piú che due periodi di Cornelio Nipote, né ci era esercizio piú acconcio da addestrare in tutte le finezze della lingua e nell’organamento del periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte parti osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche scherzo del marchese, come : — Basta cosí: l’avete fatta tra gli orrori della digestione — . Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli sembrava migliore, e sopra quella faceva la correzione, sicché ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo quaderno. Il giovane, sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne usciva quella sera con la testa piú alta. Non è a dire che diligenza metteva il marchese in queste correzioni: spesso stava una mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva venire, e tutti a suggerirgli, e lui a dar col pugno sulla tavola e a gridar: — No! — , con una delle sue favorite esclamazioni. Ohimè! Talora la frase tanto cercata non veniva, e si finiva per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese levava la spalla e se ne consolava dicendo: — Non è poi il Vangelo — . Dopo la traduzione si leggeva qualche brano di autore classico, trecentista o cinquecentista, e la scelta era fatta con molto gusto. Il marchese era sincerissimo nelle sue impressioni e le comunicava irresistibilmente all’uditorio, soprattutto ne’ luoghi affettuosi, come la morte di sant’Alessio, o il lamento della madre di santa Eugenia, o il racconto del carbonaio nel Passavanti, o le patriottiche querele di Dino Compagni. Non riusciva con pari felicitá a comunicare la sua ammirazione quando si trattava di luoghi puramente «letterari o eleganti», come diceva: e non ricordo piú nulla delle mie impressioni, quando si leggevano brani del Caro, del Segni, del Giambullari, del Gelli, del Castiglione e di altri cinquecentisti, comeché egli ne andasse in visibilio e ci facesse notare molte «bellezze» e nelle parole e nell’artificio del periodo, ciò che egli chiamava «il magistero dello stile».
Come si vede, í giovani erano in continuo lavoro; ma non bastava. Il marchese richiedeva che essi studiassero a casa ne’ classici; e si accorgeva subito quando lo studio era poco o mal fatto. Talora, sentendo un lavoro o una traduzione, interrompeva bruscamente il giovane e domandava: — Cosa leggete? — . Il Manzoni, — scappò su a dire un mal capitato, e il marchese si fe’ rosso di collera, non perché avesse in poco pregio il Manzoni, ma perché voleva gli studi fatti con ordine e di soli classici. Aveva egli in casa una compiuta raccolta di libri classici, fatta col peculio de’ giovani. Uno degli «Anziani» era bibliotecario, il quale dovea dar a leggere quei libri con un certo ordine prestabilito dal marchese. Si cominciava con gli scrittori piú piani, dove si dovea studiar non altro che parole e frasi, come il Sigoli o il Novellino; poi venivano gli scrittori che avevano stile, e prima bisognava studiar quelli di «stile naturale», come il Villani, il Cavalca, i Fatti d’Enea, i Fioretti di s. Francesco; e poi i piú artificiati e arguti e di «stile conciso», come Dino Compagni, Passavanti, gli Ammaestramenti degli antichi e il Sallustio di Bartolomeo da San Concordio: in ultimo veniva il Boccaccio che apriva la porta a’ Cinquecentisti. E qui lo stesso ordine : e si leggevano prima gli scrittori piani, eleganti, forbiti, e poi i serrati e concisi, prima i liviani, e poi i tacitiani, finché non si giungeva a’ due sommi e «riserbati per le frutta», Guicciardini e Machiavelli. Del Seicento permetteva di soli pochi lo studio, come il {{AutoreCitato|Daniello Bartoli|Bartoli e il {{AutoreCitato|Paolo Segneri|Segneri, e con le debite cautele. Ciascun giovane aveva i suoi quaderni, repertorio di tutti i bei modi di dire ed eleganze pescate in queste letture, e ne’ lavori faceva mostra delle sue ricchezze.
Sono convinto che niente giovi piú a rilevare gli studi letterarii ed a educare la mente, che questo assiduo lavorare del giovane, questo leggere, tradurre, comporre, notare, piú utile che non il mandare a memoria grammatiche, rettoriche e arti dello scrivere. Il marchese solea dire, citando un detto di Socrate, che il maestro dee essere come la levatrice che aiuti a partorire. Il miglior maestro è quello che pensi meno a comparir lui, e lasci fare i giovani, dissimulando la sua opera e creando in loro questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che l’hanno trovato. Quello teniamo a mente che abbiamo acquistato col sudore della fronte: tutto l’altro facilmente entra e piu facilmente esce dalla memoria. Mi si dice che il professor Villari abbia raccomandato queste pratiche esercitazioni sull’esempio dell’Inghilterra. Ma sollecitando un po’ la memoria, le avrebbe trovate facilmente anche nella scuola dalla quale è uscito. Chi meglio di lui, come membro del Consiglio superiore, è in grado di rimettere in onore quei metodi e quelle tradizioni?
Se quello, che il marchese insegnava non era «tutt’oro di coppella», per usare una sua espressione, il modo d’insegnamento, il come, era istrumento efficacissimo di educazione e di progresso. Il giovane si sentiva alzato a’ suoi occhi, piaceva a sé stesso, veggendosi chiamato a leggere, comentare, discutere, giudicare, lavorare in comune, non discepolo, ma compagno e collaboratore. Un di il marchese mi presentò al duca di Sangro. — Oh! ecco il vostro discepolo! — , disse costui. — Non discepolo, corresse il marchese, collaboratore. — Ah! ci amava tanto quel buon marchese! E noi lo cambiavamo di pari affetto. L’amore è il primo segreto del buon insegnamento. Non basta il metodo del Puoti, ci vuole il cuore del Puoti.
Chi ricordi i due ultimi capi toh della Storia del Sismondi, dove con tanta eloquenza è descritta la disciplina pedantesca e servile, monotona, meccanica dei nostri seminarii, si persuaderá facilmente come uno studio cosí ordinato era una vera reazione al seminario, una scuola di gentilezza e di dignitá, un esercizio giornaliero delle facoltá intellettuali e morali : era il rinnovamento, la nuova generazione che usciva dalla barbarie e conquistava in libera scuola gli istrumenti della sua redenzione.
Entrati appena in questo studio, la sorpresa era grande. Si sentiva per la prima volta parlare del «secol d’oro della favella», dell’«aureo Trecento» e del «dotto Cinquecento», e ci vedevamo sfilare innanzi una turba di scrittori, di cui ignoravamo anche i nomi. Ed io che m’ immaginavo d’essere il piú istrutto uomo di Napoli! Mi sentii bestia accanto agli «Anziani di Santa Zita». Sentir gettare a mare il padre Soave con la sua Grammatica e le sue Novelle, e Goldsmith con la sua Storia greca e romana! Proscritti il Tasso e il Metastasio! Gli ex-seminaristi si guardavano, e il marchese sempre lí ad incalzarli nelle loro abitudini, tutto frizzi ed epigrammi. Nessuno avea scritto mai in latino o in italiano: appena barbare traduzioni dal latino; ciascuno però avea fatto qualche sonetto in vita sua; onde l’abbonamento del marchese per i sonetti. Di storia greca e romana sapevano appena; di storia italiana punto; avevano tradotto, senza intenderli e senza gustarli, Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, Virgilio, Cicerone, Livio ed anche Tacito; del Tasso e del Metastasio sapevano a mente le ottave e le ariette, esercizio di memoria, non di critica; di scrittori italiani scarsa notizia e nessuno studio, perché non era mai loro entrato in capo che libri scritti in italiano e perciò di comune intelligenza si avessero a studiare. Che un italiano dovesse apprendere l’italiano, dovea sembrar loro un paradosso. Immaginatevi la sorpresa. Sentivano che non tutte le parole italiane sono italiane; che ci sono parole pure ed impure, proprie ed improprie, rozze e gentili, aspre e soavi, nobili e plebee, prosaiche e poetiche, in uso, fuori d’uso, in disuso. E tutto questo si dovea imparare con lo studio degli scrittori classici, che erano gli scrittori del «secol d’oro» e del «dotto Cinquecento» con appena qualcuno del Seicento, secondo i decreti dell’accademia della Crusca. La parola era per il marchese qualche cosa di luccicante come l’oro; soleva dire: «parole di buona o falsa lega», «parole di finissima lega», «oro purissimo», «oro di coppella». Cosí ciascuno si avvezzò a scrivere col dizionario avanti e col suo quaderno di frasi, cacciando via le parole sospette di falsa lega, soprattutto quelle che avevano qualche somiglianza con parole francesi, per tema di cascare in qualche francesismo. Il marchese avea giurato, come Annibale, odio implacabile a’ francesismi o gallicismi, ricordo, diceva, di servitú straniera, e — Bisogna ad ogni patto purgar la lingua di queste brutture, — aggiungeva. Il francesismo non era solo nelle parole, ma ne’ giri, nelle movenze, ne’ trapassi, nell’uso delle particelle, nella formazione del periodo; e dove non si ficcava il francesismo? Questo era il principale nemico, né è a dire quante minute avvertenze ci facea il marchese per addestrarci a scoprirlo e a guardarcene. Ci raccomandava lo studio del Cinonio per impalarvilarvi i significati delle particelle, l’arte di legare insieme le idee e passar d’una in altra: e gli parea quello studio il piú sicuro antidoto contro i francesismi. Secondo il marchese il francese concepisce e pensa in un altro modo che l’italiano; indi la differenza dello scrivere tra’ due popoli. Quello che in francese suona si bene, recato in italiano l’è una sconciatura, e ne esce uno scrivere tagliuzzato, a singhiozzi, senz’arte di passaggi e di chiaroscuri. Conchiudeva doversi scrivere con le parole del Trecento e con lo stile del Cinquecento. Non è che egli accettasse tutte le parole dell’«aureo secolo», e che dicesse o scrivesse «carogna» per cadavere, e «sirocchia» per sorella, come spargevano gli avversarii. Ammetteva supremo giudice l’uso toscano, specialmente de’ contadini, di favella piú schietta, e non lodava lo scrivere troppo artificiato del Boccaccio e del Guicciardini. Nella lotta che sorse comprendo che gli avversarii usassero l’arma della caricatura ed esagerassero le sue dottrine. Ma quelle teorie con quelle spiegazioni e limitazioni ci parevano irreprensibili: e a ogni modo erano per noi un mondo nuovo cosí attraente che giá alla porta della professione ripigliavamo gli studi letterarii. Fin nella pronunzia ci perseguitava il marchese; e lo sanno sopra tutti i calabresi, ai quali non dava tregua, L’e e l’o larghi o stretti era il ponte dell’asino, e ti veniva il sudor freddo quando il marchese ripigliava la tua parola e contraffaceva la tua pronunzia. Questa severitá recava ottimi frutti presso tutti i giovani giunti di fresco dalle provincie con gli orrori della loro pronunzia, con ortografía conforme, con abitudini di scrivere viziosissime e con sconce e barbare maniere di dire, che il marchese chiamava «frasi da notaro». «Dettaglio», «rimpiazzo», «rimarco» e parole simili, che vanno ogni di piú scomparendo negli scrittori anche piú negletti, erano le gemme allora dello scrivere comune, e quando qualche giovane capitava ad usarle, — Ah! — faceva il marchese, come se avesse ricevuto una pugnalata. E veniva la tempesta, una esplosione di motti, di epigrammi, di epiteti sul capo dell’attonito colpevole. Diceva essere assai meglio capitassero i giovani affatto ignoranti che guasti e male avvezzi. Perdonava non difficilmente le sgrammaticature e gli errori di ortografia, ma per gli errori di lingua e massime pe’ francesismi era inesorabile. Ma per piacergli non bastava cansare gli errori: richiedeva l’eleganza. E scrivere elegante era fuggire i vocaboli e i modi usati comunemente, è sostituirvene altri peregrini e fuori della lingua parlata, come «andar per la maggiore», «saper grado e grazia», «esser di credere», «tener per fermo», e molti altri, e di cui una ricca collezione ci offre il nostro Ranalli. Quando i componimenti ne erano sopraccarichi, il marchese diceva sorridendo : — Per ora va bene : veggo che leggete i buoni scrittori — . Con questo indirizzo era inevitabile che sorgesse un modo di scrivere a tutti comune, certi collocamenti di parole, certi legami o passaggi, certi ripieni o trasposizioni o idiotismi, simpatie o antipatie venuteci dalle predilezioni o da’ furori del marchese, modo di scrivere che degenerava nella maniera o nel convenzionale. Se non che dopo alcuni anni i giovani d’ ingegno se ne affrancavano, e il marchese andava «allentando il freno», come diceva, e tollerava certe licenze. Soleva dire che co’ giovani si dee esser severi, e fino pedanti; ma che, quando si va innanzi negli studi, si può «secondare il naturai genio», perché l’eccellente scrittore è superiore alle regole, e sa quello che fa. Ci raccontava anzi che il Voltaire a taluno che gli rimproverava una sgrammaticatura, avesse risposto: — Tanto peggio per la grammatica — . Ma conchiudeva: — Queste libertá sono pe’ Sommi; per voi è meglio stare alla regola — . Se dunque da quella scuola sono usciti scrittori pedanti, «peccato è loro e non naturai cosa», e non colpa del marchese Puoti.
Principal dote dello scrivere dovea essere la chiarezza. Quando in certi periodi non si raccapezzava, «montava in bestia», frase sua, e rinnegava la pazienza e diceva: — Non si può correggere; meglio cassare e far da capo — . Attribuiva la poca chiarezza al cattivo concepire, all’ignoranza della lingua, alla fretta, e se il giovane non se ne chiamava in colpa, anzi tentava qualche difesa, lo investiva di cosí bei modi di rimproverare toscani, che colui non vedeva, non sentiva e non capiva piú nulla e balbettava. Diceva la chiarezza esser la base dello scrivere, ma sola esser come l’acqua, senza sapore e senza odore. Voleva l’efficacia: cosí chiamava tutte le altre qualitá che danno vigore e nerbo e colore, danno il sangue allo stile. Quelli un po’ aridi e fiacchi li chiamava «de frigidis et muleficiatis», e talora diceva: — «Manca l’utero». L’efficacia era in certe scorciatoie e rapidi trapassi, e scelta di epiteti o di avverbii e spostamenti di parole che davano all’aspetto non so che di peregrino e lontano dal volgare. I piú guasti de’ seminari erano certi «abati», cosí chiamava il marchese i preti, che avevano imparato tutto il De Colonia, avevano scritto molti panegirici, e si tenevano maestri e stavano gonfi e pettoruti. Uno di questi tali venne a lui e disse: — Ho fatto tutt’ i miei studi e sono giá maestro nel seminario. Da voi non chiedo altro se non di apprendere un po’ di lingua, si che io impari a scrivere, per esempio, come Annibal Caro — . Il marchese raccontava spesso quest’aneddoto. E raccomandò l’abate a certi «Anziani», i quali al primo lavoro ch’ei lesse gli fecero tale una pettinatura, che l’amico si rannicchiò e non si fece piú vivo. Il marchese aborriva il rettorico, il declamatorio, il gonfio, il convulso, i concetti e le antitesi : tendeva piú verso l’Arcadia che verso il Seicento. Conformi a queste opinioni erano i suoi giudizi degli scrittori. I piú antipatici a lui erano il Tasso e il Metastasio, forse appunto perché erano i piú noti e i piú raccomandati nelle scuole. La lingua del Metastasio diceva povera e impropria; giudicava migliore il Tasso per la lingua, ma trovava biasimevole il suo periodare, anzi «speriodare»: giacché diceva che la sua ottava non aveva periodo. Aggiungeva che nel Tasso spunta giá quella corruzione dello stile, che fu poi sf grande nel secolo appresso. Il suo favorito era l’Ariosto, ma teneva miglior fabbro di ottave il Poliziano, e piú puri di lingua il Pulci ed il Berni. De’ nostri prosatori metteva in cima Boccaccio e Guicciardini, artefici perfetti di stile, comeché quell’artificio gli paresse soverchio e non imitabile. Chiamava De Vincenzi, uno degli «Anziani», il «Boccaccino», come colui che boccacceggiava piú. Fra’ piú eleganti metteva Firenzuola, Giambullari e Annibal Caro e il «sommo» Bartoli. Chiamava Machiavelli maestro di eloquenza e di sapienza, ma alquanto negletto e disuguale nello scrivere, e preferiva di lui dov’ è il lavoro piú artificioso e alla boccaccevole, come il racconto della peste e certe orazioni messe in bocca a’ suoi personaggi storici. Il Galateo di monsignor della Casa, la Circe del Gelli, il Cortigiano del Castiglione, Dafni e Cloe del Caro, la Congiura de’ baroni del Porzio, l’Arcadia del Sannazzaro erano capilavori: libri nella scuola studiatissimi e di cui si leggevano e comentavano i piú eletti brani. Sarei infinito se volessi dirne oltre, e chi ha curiositá di saperne piú, legga le sue opere. Ma se commendava tanto gli eleganti, non però disprezzava i semplici, come il Pandolfini ed il Cellini, anzi li raccomandava molto a’ giovani ancora « sori » dell’arte. De’ moderni aveva in pregio Gaspare Gozzi e teneva principe degli scrittori Pietro Giordani. Degli altri parlava sempre con un ma. Ottimo il Manzoni per lo stile, ma non puro di lingua. Eccellente la lingua del Leopardi, ma detestabili le sue dottrine. Lodava il Parini per il verso sciolto, di cui diceva maestro Annibal Caro nella sua Eneide. Magnificava Vincenzo Monti. Del Foscolo non accettava che i Sepolcri. Compativa agli scrittori fiacchi, come al Rosini nella Monaca di Monza, ma odiava con tutta l’anima i tumidi e arguti, come il Guerrazzi. Del resto i suoi giudizi erano vaghi e mutabili, non avendo de’ moderni quella profonda notizia che de’ trecentisti e cinquecentisti. Il mondo finiva per lui con l’amato Cinquecento e con qualcuno del Seicento. Il medesimo era per la scuola, vietato di studiare in troppo recenti scrittori e non ancora battezzati classici. Né il marchese aveva maggior notizia delle letterature forestiere, delie quali teneva chiusa la porta a doppia chiave per sé e per la scuola, a fine di non guastarsi lo stile. Della inglese, della spagnuola, della tedesca era quasi affatto digiuno; della francese aveva qualche pratica, soprattutto del secolo d’oro: metteva a tutti innanzi il Bossuet.
Tale era il marchese, ritratto cosí alla buona e alla naturale, come m’ è venuto in memoria. Aveva mente chiara e giusta, ma anche a lui «mancava l’utero». Aveva però qualche cosa di piu possente : aveva cuore. Spese tutta la vita per il bene della gioventú, e in questo pose tutto sé stesso, quanto era in lui d’ intelligenza e di passione e di ambizione. Ottenne cosí maggiori effetti per il progresso degli studi, che non molti altri di piú ingegno.
Il difetto capitale di questa scuola non è difficile a intendere, specialmente oggi. Vi si dava troppa importanza alla parola come parola e alla parte meccanica dello scrivere, come la formazione del periodo. Né questo studio potea riuscire a bene, segregato dal presente e dal vivo, e fondato sugli scrittori e di parecchi secoli indietro, come si fa di ima lingua morta. Perciò criteri dello scrivere falsi e arbitrarli e mutabili, spesso mera antipatia o simpatia. Tra le parole scomunicate era «truppa», né valeva opporre che la si trovava in Davanzati, in Davila e altri buoni scrittori; il marchese s’infuriava e dicea che «truppa» gli risvegliava l’idea di «trippa». Per esser puri si diveniva improprii, usando locuzioni consacrate ne’ classici, tenute in Napoli eleganti e ridicole in Toscana. Lo scrivere non era piú una produzione, ma una imitazione secondo certi preconcetti o archetipi. E mi persuado come a quella ottima forma di scrivere prestabilita giungessero anche i piú mediocri, sol che usassero diligenza, e come il marchese, a cui mancava il fiuto dell’ingegno, li tenesse in quel pregio che i suoi piú valenti discepoli, come un abate Meledandri, un Pessolani, vivuti senza infamia e senza lode.
Il marchese stesso confessava che una certa esagerazione era nella sua scuola, e la scusava, come frutto del grande amor suo a’ buoni studi, e diceva: — Chi ama esagera — . Stimava con ragione che una ferrea disciplina fosse necessaria a svezzare la gioventú dalle male abitudini contratte nelle scuole, che si richiedevano rimedi cosí violenti com’era il male, che chiodo ci vuole per trarre dall’asse il chiodo, e ch’egli facea come il chirurgo che par crudele ed è pietoso. Il fatto è che la sua scuola operò una compiuta trasformazione nella coltura nazionale. Si cominciò a studiare un po’ meglio il latino ed il greco; venne in voga lo studio delle cose italiane anche ne’ seminarii, si diffusero nelle piú remote provincie gli scrittori classici, sorsero qua e lá scuole simili a quella del Puoti, e in poco spazio non ci fu scienziato di qualche valore che non cercasse di scrivere pulitamente. Questi effetti ottenne il marchese in piccol numero d’anni, si che potè avere il conforto di vedere insegnato a giovanetti, come materia elementare, quello ch’egli insegnava un giorno a giovani giá molto innanzi negli anni e negli studi. La missione del marchese era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo, uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea piú ragione d’essere, perché avea giá vinto, e che la quistione non era piú di lingua, ma di stile, il brav’uomo se ne compiacque ed accettò la teoria per buona. Ma quando fui a tirarne le conseguenze, si ribellò, o piuttosto chiamò me un ribelle. Nondimeno gli ebbi sempre tale riverenza e devozione che gli screzii letterarii non furono sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso a morte, veggendomi accanto al suo letto, disse : — Tu sai eh’ io ti ho sempre amato — .
La ribellione non era altro che il naturale progresso della coltura e del sapere che sopravvanza il maestro e gli arma contro i discepoli. Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere societá sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova naturalmente. Il marchese, non che dispiacersi, doveva applaudirsi di questo fatto, che la ribellione non venne dal di fuori, ma dalla sua scuola, dal suo metodo, da lui stesso che ci aveva educati e posti in noi germi preziosi che dovevano fruttificare. Ma gli uomini sono cosí fatti. E fu suo dolore quello che era sua gloria.
Il purismo non era una dottrina, né il marchese Puoti aveva niente mutato delle opinioni letterarie allora in voga. Al greco e al latino aveva aggiunto lo studio delle cose italiane; il campo era piú largo, ma i criterii erano pur quelli, salvo ch’egli aveva maggior coltura e piú larghezza di giudizii. Il governo era lo stesso, ma era un governo piú illuminato. Diffusa una certa coltura nella gioventú, propagati gli studi della lingua e degli scrittori italiani, dirozzati e raggentiliti gli animi, forzati anche i monsignori a rimodernare i loro seminari, promosso in Napoli un centro di vita letteraria, che si facea via nelle accademie, nelle Strenne, negli opuscoli, ne’ giornali, il compito della scuola era esausto, e mancata la virtú di rinnovare le fondamenta, si stava come in acqua stagnante e non vi si prendea piú interesse: stato d’immobilitá che generava la pedanteria. Il marchese, deliziatosi fino allora a dar del pedante a dritta e a manca, si sentiva da ultimo salutare cosí anche lui e ne sentiva dispetto.
Ma se la materia della scuola era esausta, sopravviveva il metodo ed abilitava i discepoli a ringiovanirla ed allargarla. Il congegno della scuola era tale che mentre i mediocri si addestravano ad una forma di dettato corretta e chiara, i giovani d’ingegno erano non impediti, anzi sospinti in piú larghi spazii. Il marchese non era uomo di teorie, né spiegava dalla cattedra; collaborava con noi. L’esercizio del tradurre e del comporre, la lettura assidua degli scrittori, e soprattutto la libertá della discussione e l’attrito delle opinioni; quel fare del giovine il maestro di sé stesso, lasciava intatte le nostre facoltá piú preziose, l’iniziativa, la libertá dell’opinione, la spontaneitá della produzione, l’emancipazione da ogni regola e da ogni preconcetto, e il vivere fra’ vivi e la partecipazione nella misura delle forze ad ogni progresso. Cosi avvenne che quando in Napoli, sparsa la coltura e ristorate le lettere per opera principalmente del marchese Puoti, si alzarono gli spiriti a piú severi studi e a nuove dottrine, non ci fu reazione contro la scuola del Puoti, perché i suoi discepoli si fecero essi medesimi capi del movimento.
Alla coltura letteraria tenea dietro un vero progresso ne’ diversi rami dello scibile. Ottavio Colecchi divulgava Kant, e Galluppi la scuola scozzese. Sopravvennero Fichte, Hegel e poi Gioberti. Gran numero di idee nuove furono messe in circolazione. Le opere del Romagnosi e del Rossi davano impulso agli studi economici. Vennero su uomini egregi: Nicolini, i fratelli Savarese, De Augustinis, Gasparrini, Scacchi, Mancini, Scialoja, Cusani, Gatti, Ajello. La letteratura non poteva sottrarsi a questo rinnovamento scientifico. Continuò lo studio degli scrittori italiani meno per la lingua che per le cose, soprattutto per le investigazioni storiche. Vi si aggiunse lo studio delle letterature straniere, massime della tedesca e dell’ inglese, e salirono in favore Shakespeare, Goethe, Schiller, Victor Hugo. Lamennais, Thiers, Cousin, Villemain, Guizot, Giambattista Niccolini, Guerrazzi, Berchet, Giusti erano letti con l’aviditá e il sapore del frutto proibito. La lettura di Schlegel aveva mutati presso di noi radicalmente i criteri letterari : sorse una critica piú alta, si apersero nuovi orizzonti alla gioventú. Sopravvenne Cousin, e poi Hegel. Qual rivoluzione in pochi anni! Simbolo di essa fu Vico redivivo, interpretato pubblicamente dal professore Amante, letto, ammirato, citato dappertutto.
Qual parte ebbe in questo rinnovamento la mia scuola, non tocca a me il dirlo. Forse sará chi ne ricordi, come io (e ne sien rese grazie al Ranalli) ho fatto del Puoti.
Il quale, in tanto movimento d’idee, stava stizzoso e sfogava l’umore contro Cesare Malpica e parecchi altri, uomini senza studi e senza valore, che chiamavano lui un pedante e predicavano le regole « tarpar le ali all’ ingegno », riducendo ogni insegnamento a due parole: «genio» ed «estro». Bisognava sentirlo il marchese con que’ suoi frizzi un po’ grossolani contro la Scuola romantica cosí mal rappresentata. La sua vecchiezza venne afflitta da’ Rocco, dagli Anzelmi, da’ Malpica, da’ Valentini, che gli abbajavano intorno alle calcagna, con infinito suo fastidio.
Novatore in gioventú, il marchese era divenuto conservatore in vecchiezza; avrebbe voluto che il mondo si fosse fermato lá dov’egli era giunto, o che almeno nel suo cammino serbasse un po’ piú di regola e di logica. Quel progresso a modo di torrente gli garbava poco. Ma poiché era venuto a quel modo, né si poteva mandarlo via, vi si acconciava con un po’ di mala grazia. Accettava le nuove dottrine nella storia, nella filosofia e negli altri rami del sapere, ed aveva in molta venerazione Carlo Troya, Pasquale Galluppi, Nicolini e Roberto Savarese ed altri valenti scienziati, e giá chiaro in Italia e legato con gli uomini piú illustri, seguiva un po’ stizzoso, ma pur seguiva il rapido movimento impresso agli spiriti. Una sola cosa avrebbe desiderato, che le scuole di lettere rimanessero a sua immagine, voleva ne fosse sbandita l’estetica e non vi si parlasse di scrittori forestieri, né contemporanei. Ma erano niente piú che desideri, contraddetti da un certo intimo senso, che gli diceva non esser possibile impedire in letteratura quello che egli accettava negli altri rami del sapere. Sentendo confusamente che l’indirizzo gli fuggiva dalle mani, non fece piú contrasto, e si dié a fare quel po’ di bene che potea ancora, si dié a pubblicare molti lavori utili all’insegnamento. La guerra letteraria mossagli da uomini tenuti in poco pregio e l’esser caduto in disgrazia della Corte gli crebbero riputazione e popolaritá. Amatissimo, rispettatissimo, era rimasto una nobile tradizione del passato, il «papá» della nuova generazione.
Quando si sparse la voce della sua morte, fu in Napoli pubblico lutto. Ebbe accompagnamento non mai visto: il fiore della cittadinanza, turba infinita di popolo, seguivano il cadavere. E quando solenni esequie si celebrarono, fu intorno al suo catafalco che si alzarono i primi «Viva Pio IX!», le prime grida del riscatto.
Il purismo era morto prima del marchese. Considerato come un grande impulso allo studio delle cose nostre e ad uno scrivere piú corretto, lo scopo era conseguito. Ma il purismo voleva molte altre cose, parte eccessive, parte irragionevoli. Quel mondo chiuso in pochi secoli e in poco spazio e segregato da tutto il resto parve troppo piccolo ad una generazione che si sentiva in Napoli come isolata ed anelava a congiungersi per civiltá con le altre parti d’Italia e con l’Europa. Quell’odio verso il forestierume era troppo debole diga contro l’invasione delle nuove dottrine, le quali quanto piú tardi entiarono in «Cina», come noi chiamavamo il regno, tanto operavano piú efficacemente. Né ad alcuno potè mai entrare in capo che non pure ogni perfezione letteraria’, ma ogni sapienza civile ed ogni progresso si trovi chiuso nel Trecento e nel Cinquecento.
Ma se il purismo era morto in Napoli, menava vita rigogliosa in altre parti d’Italia. Vi si parlava alto di una forma di scrivere italiana, di una filosofia italiana, di una sapienza italiana, del Primato d’Italia, che era un continuo gridare sotto diverse apparenze: — Viva l’Italia! — .
Venuto il Quarantotto, quelle voci andarono sempre piú infiacchendo, svegliatosi nel paese il bisogno di accostarsi un po’ piú al mondo civile e assimilarsi la coltura europea. Del purismo rimase una confusa ricordanza, come di tempi lontani, e nessuno ne parlò piú, nessuno spese il tempo per combattere un morto. Ecco ora levarsi una voce solitaria, dispettosa, che in periodi rotondi e dottamente rigirati scomunica tutto il pensiero moderno, e tutti i contemporanei infetti della peste, forestieri e italiani. Il mondo non gii bada; questo non lo disanima, anzi gl’ingrossa la voce e l’accento. Tutte quelle opinioni che il buon marchese esprimeva con molti temperamenti, e lasciava alla libera nostra discussione, eccole qui, in questo libro del signor Ranalli, esagerate, assolute, dommatiche, infallibili.
Ed io spesso interrompevo la lettura e dicevo: — Non valeva la pena: lo ha detto il marchese Puoti — .
La voce del Ranalli rimane senza eco, nel deserto; il mondo cammina e gli volge le spalle, e se pur taluno guarda indietro, è per battezzarlo l’ultimo dei puristi.
[Nella «Nuova Antologia», novembre i868.]